Le biografie dei filosofi che partecipano alla partita di calcio
Antonio Labriola nasce a Cassino il 2 luglio 1843. E’ figlio di un professore di lettere al ginnasio e appassionato di archeologia, Francesco Saverio. La madre è Francesca Ponari una nobile napoletana.
I primi studi, fra il 1848 e il 1860 Antonio li compie seguito dal padre e dallo zio Gaetano Labriola e poi viene mandato in collegio presso l’Abazia di Montecassino. Antonio è controllato dall’abate Pappalettere che ne segue l’istruzione.
Nel 1861 Antonio si trasferisce a Napoli e si iscrive all’università di lettere e di filosofia. Qui si lega a Bertrando Spaventa di cui diventa allievo ed amico. Antonio Labriola studia Aristotele ma anche Spinoza e Kant e si dedica allo studio di Hegel. In quegli anni Antonio Labriola frequenta la libreria Detken e si lega in amicizia con Arturo Graf, Carlo Fiorilli, Pasquale Turiello e Felice Tocco.
Nel 1863 inizia la relazione fra Antonio Labriola e Rosalia von Sprenger una ragazza evangelica che lavora come maestra alla Scuola evangelica “Garibaldi”. Antonio Labriola cerca lavoro come bibliotecario, ma i suoi tentativi falliscono. Poi interviene Bernardo Spaventa che fa assumere Labriola come “Applicato di Pubblica Sicurezza”. In quell’anno Labriola scrive: “Una risposta alla prolusione di Zeller”.
Nel 1864 lavora nella segreteria del marchese Rodolfo D’Afflitto, il Prefetto di Napoli. Viene incaricato di occuparsi anche del fenomeno del brigantaggio. In quell’anno scrive “Della relazione della Chiesa e dello Stato” destinato ai corsi di Spaventa. In quello scritto Labriola analizza la relazione fra Stato e Chiesa.
Scrive Labriola in “Della relazione della Chiesa e dello Stato”:
Il primo di questi errori ha il suo fondamento. Essendo sempre la Chiesa un’associazione e spesso una gerarchia destinata a “preservare e perpetrare il contenuto di un’idea religiosa”, si presume elevata a quello stesso grado di assolutezza ch’è proprio della religione. Così si accorda alla chiesa quella superiorità che compete alla religione come libera intuizione del destino della vita universale, riguardo allo Stato, ch’è l’ultima espressione della libertà umana nella sfera del diritto e del costume (ossia della mondanità).
Labriola, Della relazione della chiesa e dello stato, da: Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell’educazione, Bompiani, 2014, p.477
In questo testo Labriola fa propria la lezione sulla necessità della separazione fra Stato e Chiesa di Hegel. Solo che mentre Hegel spinge per la separazione della Chiesa cristiana dallo Stato cristiano per non addossare i delitti dello Sato cristiano alla chiesa cristiana, al contrario, Labriola spinge per una separazione fra Chiesa cristiana e Stato cristiano per allontanare la morale della chiesa cristiana dalla morale, l’etica, dello Stato affinché non condizioni le sue necessità di sviluppo sociale.
Nel 1865 Labriola viene abilitato all’insegnamento della letteratura alle prime classi del ginnasio. Abbandona il lavoro presso il Prefetto e inizia ad insegnare in istituti di Napoli. In quell’anno sembra che volesse scrivere un testo sul “cristianesimo delle origini”, ma inizia a studiare Feuerbach, Strauss e scrittori della scuola di Tubinga e il lavoro sul cristianesimo delle origini non vedrà mai la luce.
Nel 1866 Labriola lavora su Spinosa per partecipare ad un concorso universitario. La preparazione del lavoro su Spinoza, con la lettura di Fischer e Jacobi, lo impegnano per molto tempo.
Nel 1867 lavora ancora a “Origine e natura delle passioni secondo l’Etica di Spinoza”. In questo lavoro Labriola inizia a mettere a fuoco il suo modo di pensare il mondo.
Scrive Antonio Labriola nel commentare Spinoza:
Cosa sono intanto gli attributi dell'estensione e del pensiero, i soli di cui Spinoza si valga per spiegare l'attualità causale di Dio nel mondo? L'attributo, dice Spinoza, è quello che l'intelletto concepisce in sé e per sé come costituente l'essenza della sostanza (Eth. I, def. IV). L'estensione adunque ed il pensiero sono le potenze infinite che rappresentano nella sostanza le condizioni primitive della esistenza dei corpi e delle idee (Eth. II, propp. I-Il). Fanno uno, in quanto l'essenza di tutte le cose è una, ma sono distinti in quanto la produttività dell'uno non è condizionata da quella dell'altro, ed i prodotti di ciascuno hanno il limite della loro effettività nelle condizioni dalle quali procedono (Eth. II, propp. V-VI; prop. VII, schol.). In questa chiara coscienza della identità della sostanza nella distinzione degli attributi, consiste il caratteristico della dottrina di Spinoza.
La sostanza come punto neutrale ed indifferente ed al tempo stesso come principio della specificazione e distinzione, è un progresso immenso sul dualismo cartesiano, ed è una vittoria completa sopra ogni presupposto di trascendenza. Soltanto sotto questo riguardo può dirsi che il principio di Spinoza sia il naturalismo, ma questa affermazione non deve indurre in equivoco, come avviene tutte le volte che si va in cerca di non so quanti confronti con tutte le specie di panteismo, che possono trovarsi nella storia della Filosofia. Nel concetto dell'attributo è in somma determinata la essenza di Dio come potenza attiva e positiva. La reale manifestazione poi di questa potenza, anzi la sua esistenza stessa, è espressa immediatamente nel mondo nella natura naturata che forma il terzo concetto fondamentale dello Spinozismo.
Antonio Labriola, Origine e natura delle passioni secondo l'Etica di Spinoza, in Tutti gli scritti filosofici, Bompiani, 2014, p. 491
Nell'affrontare l'Etica di Spinoza Labriola accede alle idee panteistiche spinoziane e trasporta l'idea di Dio dalla trascendenza all'immanenza. Il Dio che come potenza attiva e positiva agisce nella natura. Una natura che secondo Spinoza non può essere altro che Dio in quanto tutte le pulsioni assolute che vengono attribuite a Dio altro non sono che pulsioni relative che noi riscontriamo in tutti gli Esseri della Natura.
Nel 1867 Labriola si sposa con Rosalia von Sprenger. Dal matrimonio nasceranno tre figli: Michelangelo Francesco, Teresa Carolina, Alberto Franz.
Nel 1868 il lavoro di Labriola su Spinoza viene premiato dall’Ateneo di Napoli con la medaglia d’oro.
Nel 1869 esce un bando di concorso della Reale Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli e Labriola inizia a lavorare attorno a “La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele”.
Scrive Labriola in "La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele":
a) L'etica socratica non è fondata su l'imperativo del dovere. L'impulso naturale ad agire nell'interesse della propria conservazione, e nello scopo del proprio miglioramento v'è riconosciuto come qualcosa d'ingenito, che ha solo bisogno di essere rettificato nel suo esercizio; sicché esso non va soggetto a quelle collisioni, all'apparire delle quali la volontà dell'individuo si trova inadeguata alla generalità ed universalità del precetto. La coscienza greca procedette in un modo assai diverso dalla coscienza ebraica, la quale, per avere spinta troppo in alto la sublimità e la trascendenza del precetto, finì per trovare incongruenti fra loro il volere umano ed il divino, e riuscì all'esigenza della redenzione. Quello che noi chiamiamo dovere apparisce a Socrate nella forma relativa del miglior partito, perché era in lui così vivo il convincimento che l'uomo non possa volere il proprio male, che, posta la natura determinata del bene come termine dell'azione, l'equazione fra l'intelletto e la scelta del proprio meglio gli sembrava inevitabile. Anche noi esigiamo una perfetta equazione fra la volontà e la scelta, nel concetto etico del dovere: ma al tempo stesso non ignoriamo, che il dovere, come fenomeno psicologico, si aggira in una vasta sfera di contrasti che ne rendono difficile l'attuazione. Nel concetto socratico l'acquiescenza immediata nel criterio del bene come utile, e del miglior partito come scelta obbligatoria ha un carattere affatto immediato e plastico; e come la vita stessa di Socrate è la più perfetta applicazione di questa veduta, così avviene che il ritratto lasciatoci dai testimoni autentici, delle sue lotte e del suo martirio, eccita la meraviglia, senza scuotere il nostro animo. b) Il bene adunque è l'utile, cioè quello che favorisce la nostra natura, e fortifica in noi il sentimento della felicità. Le due sfere di questi concetti non sono precedentemente determinate nella loro opposizione, e poi ridotte all'identità logica del giudizio, per degradare il valore del bene a vantaggio dell'utile. Quella relazione sorge spontanea nella coscienza, e noi dobbiamo por mente più all'importanza dell'identità stabilita, perché determina logicamente il valore d'un concetto che prima era incerto ed impreciso, anziché insistere su quello che secondo le nostre vedute costituisce la differenza fra l'utile e il bene. Per noi, a voler parlare il linguaggio di Socrate, è bene tutto quello che influisce a farci conseguire […]; ma come nella sfera dell'ignoranza non siamo capaci di costanza e di certezza nei propositi, perché sconosciamo noi stessi e la natura di quelle cose che devono servire i di termini o mezzi all'attività, così avviene, che solo nella consapevolezza di noi medesimi e delle sfere della nostra attività acquistiamo la notizia esatta del vero bene. Questo bene è l'utile, perché è quello che realmente conferisce al miglioramento della nostra natura. L'etica non s'è arrestata e non poteva arrestarsi a questa elementare determinazione; ma non è questa una ragione perché noi dovessimo sconoscere il gran merito del creatore della scienza, valutandolo agli ulteriori progressi del sapere filosofico. Da questa prima ed elementare determinazione del concetto del bene, fino all'esigenza kantiana ed herbartiana dell'incondizionata valutazione, il progresso è stato immenso: ma bisogna pur confessare, che le divagazioni non sono state poche, e che spesso la superiorità delle indagini posteriori è stata effimera, quando si è voluto ricorrere alle infondate supposizioni di una volontà sconfinata (libero arbitrio), o di una coscienza morale organo inappellabile, ed a tante sottigliezze di un'analisi minuziosa delle intenzioni umane studiate nell'interesse settario e sofistico della chiesa e della scuola. c) Questo bene che è l'utile non si confonde col piacevole"; perché la determinazione del suo concetto importa una necessaria e successiva esclusione di tutti i criteri accidentali di una valutazione meramente individuale, finché divenga una norma costante alla quale come a stregua sicura possano misurarsi le particolari azioni, e gli arbitrari giudizi. Quell'utile adunque non equivale alla soddisfazione immediata dell'individuo in tutta la naturalità dei suoi istinti e dei suoi bisogni, ma segna invece un termine all'attività dell'uomo, a raggiungere il quale egli deve prima educarsi per intendere in che cosa consista la vera utilità, la quale è tante volte così lontana dal piacere, che può arrecare i massimi dolori e fino la morte. In questa guisa l'equazione logica stabilita fra l'utile e il bene viene rivalutata alla stregua di una maggiore intimità, che afferma implicitamente l'universalità del bene, sebbene non la formuli e determini in una maniera precisa ed astratta. d) La natura affatto pratica della sfera scientifica del Socratismo non consentiva che la determinazione del concetto del bene fosse intesa nella sua assolutezza, perché, nella deficienza dei mezzi logici che concorrono a formare e costituire il valore tipico di un concetto, il filosofo era spesso costretto a seguire l'incerta guida del linguaggio comune, ch' è poggiato su le opinioni correnti. E questa circostanza facea sì che il concetto del bene apparisse spesse volte nella sua forma più contingente e relativa, e che potesse ad un bene venir contrapposto un altro, o che quello che sembra bene in un caso fosse detto male o inutile in un altro. La inconsistenza logica della nozione non era però lesiva di quella universalità che abbiamo più sopra accennata, perché è innegabile che Socrate abbia intesa la inferiorità dell'arbitrio individuale alla invincibile natura del criterio della convinzione, al tempo stesso che non ha saputo e potuto evitare il particolarismo nella definizione di questo o quel bene. Coloro che vanno a cercare nel Socratismo l'idea assoluta del bene, come superiore ad ogni incertezza opinativa, riescono a falsarne la schietta ed originale fisonomia storica, ed a fame una forzata anticipazione del Platonismo.
Antonio Labriola, La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, in Tutti gli scritti filosofici, Bompiani, 2014, p. 642 - 644
Il bene non è un oggetto in sé, ma Labriola sottolinea che esso è relativo all'uomo, al soggetto che con la sua azione ricerca "il proprio" bene perché ricerca l'utile per sé stesso. Non trova il concetto di bene oggettivo da far coincidere con il dovere e tanto meno con una morale che impone quel comportamento.
Labriola dice che, a differenza della mentalità ebraica che spingendo il concetto di bene verso Dio creò un contraddizione fra il concetto di bene in sé e le necessità dell'uomo, del bene soggettivo, che, di fatto, entrava in contraddizione con il concetto di bene di Dio, la mentalità socratica descritta da Senofonte definisce "bene" ciò che è utile all'uomo.
Labriola rileva che il bene in Socrate è il bene che l'individuo cerca per sé stesso come il miglior partito o le migliori opportunità. In Socrate, dice Labriola, il bene è ciò che è utile perché l'uomo non cerca il proprio male o non cerca il danneggiare sé stesso. Solo l'ignoranza ci porta a fare scelte diverse dal nostro utile perché crea l'illusione fra ciò che crediamo e ciò che vogliamo perseguire: " nella sfera dell'ignoranza non siamo capaci di costanza e di certezza nei propositi, perché sconosciamo noi stessi e la natura di quelle cose che devono servire i di termini o mezzi all'attività, così avviene, che solo nella consapevolezza di noi medesimi e delle sfere della nostra attività acquistiamo la notizia esatta del vero bene".
Labriola rileva come la condizione del "libero arbitrio" sia una condizione limitata dalla conoscenza che noi abbiamo sia dell'oggettività in cui viviamo, sia delle nostre possibilità di agire in questa oggettività. Pertanto, la scelta di ciò che ci è utile è limitata dal conoscere con cui il soggetto agisce nel mondo.
Tuttavia, la ricerca del bene è operata dal soggetto in funzione di sé stesso e non è l'azione del bene che, definito moralmente ed eticamente, si impone sull'individuo nella forma di doveri a cui l'individuo è costretto a sottomettersi.
Per questo Labriola conclude la sua riflessione affermando che coloro che cercano in Socrate l'idea assoluta del bene come oggetto superiore ad ogni opinione soggettiva, falsano l'idea di Socrate trasformandola in un'idea del bene che anticipa l'idea del bene in Platone.
Nel 1870 il lavoro di Labriola su Socrate vince il concorso e viene pubblicato dall’università di Napoli. Labriola diventa titolare della cattedra al Ginnasio “Principe Umberto”.
Nel 1871 Labriola ottiene la libera docenza in filosofia della storia presso l’università di Napoli. Nel frattempo si dedica al giornalismo scrivendo su varie riviste fra cui “Il piccolo” e la “Gazzetta di Napoli”. Aderisce al gruppo politico dell’Unione Liberale che si forma attorno a Rocco De Zerbi. In questo contesto inizia un più vivo interesse per la politica e per l’amministrazione dell’Italia meridionale.
Nel 1872 l’esperienza liberale di Rocco De Zerbi fallisce e Labriola entra nella redazione di “Unità nazionale” diretto da Ruggero Borghi che difendendo il governo si oppone sia alla sinistra napoletana che ai centristi. Ci sono forti contrasti giornalistici fra De Zerbi e Labriola. Sempre in quell’anno, Labriola decide di lasciare l’insegnamento e inizia a fare il corrispondente con la “Nazione” di Firenze. In quello stesso anno muore il primo figlio di Labriola, Michelangelo, ammalatosi di difterite.
Nel 1873 l’editore Ferrante di Napoli pubblica due scritti di Labriola “Della libertà morale” e “Morale e religione”. “Morale e Religione” è presentato per un concorso ad una cattedra bandito dall’Università La Sapienza di Roma. Labriola collabora on il quotidiano “Monitore di Bologna”. Segue la campagna elettorale della destra e, nel frattempo, si trasferisce a Roma.
Scrive Labriola in "Della libertà morale":
Non c'è via di mezzo. Quella esigenza della libertà, secondo la comune opinione, è mal posta: manca anzi di ogni fondamento razionale, e d'ogni fine morale. Sarà bene chiarirsi meglio. Chi dice che la libertà sia lo stesso che la potenza, e poi attribuisce a tutti gli uomini il diritto della libertà; egli non dice né più né meno di quello che le parole suonano. Or queste parole suonano così: l'uomo ha il bisogno della libertà: egli tende incessantemente a rimuovere i limiti che la natura frappone all'attività sua, e si sforza di allargare il dominio suo su quella. Questa tendenza fa parte del suo destino: anzi è la conditio sine qua non dell'esser suo: il principio dell'attività sua. Ma, uomo e molti uomini non è la stessa cosa: perché dati i molti uomini, è data in ciascuno di essi la possibilità non solo, ma la necessità della reazione contro gli altri, contro tutti gli altri. Di qui il meccanismo sociale: del quale fa parte la necessità della neutralizzazione delle forze di ciascuno in una forza superiore a quella di tutti presi a parte: un limite cioè alla potenza di ciascuno. Ma lo stato è più che la coscienza di questo limite: esso è norma morale. Or donde si toglie questa norma? Egli è dunque necessario che in tutti gl'individui, in ciascuno degl'individui, questa norma sia apparsa: e che in essi, non la potenza sola costituisca la libertà, ma la coscienza della necessità morale della norma: la quale se si vuol dire che è doppia, secondo che s'attinge dal bisogno di limitarsi rispetto agli altri, o da quello di limitarsi rispetto a sé medesimi, si dice in fondo che è sempre un atto della vita interiore. Se la difficoltà si risolve, come deve risolversi, nel concetto della libertà come limitazione della potenza, si vede che il concetto della potenza è vuoto senza la moralità che le dia vita, calore ed anima; e la moralità, il più delle volte, consiste più nel dir no che sì, più nel restringersi che nell'allargarsi, più nel frenarsi che nell'erompere. 2. Davvero la quistione si può, si deve pigliare più ab alto. Se la libertà, come semplice potenza del fare, non ha in se stessa tutto il pregio che le si attribuisce, si dirà: dove sta il pregio suo; o meglio, in che consiste quello che le dà pregio? Noi siamo soliti di contrapporre l'interno all'esterno, e di attribuire a quello precedenza di grado su questo: solo perché interno, o meglio intimo. Interno ed esterno possono essere maniere di discorrere, e null'altro: ma possono, devono, significare qualcosa di più. Nel caso nostro si può dire: la libertà interna è più che l'esterna: perché questa si riduce al semplice concetto della potenza, e quella alla potenza aggiunge la dignità. Or dunque l'uomo veramente libero è quello che somma in sé le due libertà, e le mette, poi che le ha sommate, d'accordo. Questo davvero è un ideale: ma perché sia un ideale perfetto bisogna prescindere dalla relazione che è espressa nel concetto di somma e di armonia, e sostituirle la relazione di principio e di conseguenza; chiamare principio la libertà interna, conseguenza l'esterna: attribuire in fine all'una dignità morale incondizionatamente, all'altra solo condizionatamente. I teologi hanno, sotto questo riguardo, precorso i filosofi; e pensano tuttora di precorrerli; ma non è difficile provare, che essi hanno ingarbugliata la quistione in luogo di risolverla. La gran forza loro, in somma, consiste in questo: che essi, cioè, si fondano sul sentimento religioso, che è quello il quale ha più generale presa su gli animi, ed è il più universale, il più accomunitativo che si dia fra gli uomini: ma è pur vero, che essi il più delle volte si dipartono ben presto da questo lor primo fondamento, o v'elevano su un così alto ed intricato edificio, che chi v'entra vi si smarrisce come in laberinto. Fornito l'edificio, il fondamento non si riconosce, non si ritrova più, in nessuna maniera. La religione, invece, guardata nella sua pura forma, ha questo di speciale rispetto alla lotta per la libertà esterna; che essa fa per ciascun uomo della vita interna di lui la quistione capitale. Esser libero internamente, cioè dire, avere una volontà conforme ad una regola (un ideale) riposta nella interiorità dell'animo stesso, in ciò sta tutta la felicità, la beatitudine dell'uomo: l'aspirarvi costituisce il massimo dei suoi doveri, il riuscirvi il massimo pregio suo. Chi è religioso, semplicemente religioso, può ignorare, anzi il più comunemente ignora, in virtù di che, per quale impulso egli pensi per l'appunto così: e questa sua tendenza gli può apparire come venuta dal di fuori, come imposta da tutt'altro che non sia la propria natura dell'animo umano; da un essere, da molti esseri trascendenti, nella loro origine e natura, i limiti della umanità e della mondanità. La religione si ricongiunge al mito: spesso lo crea per proprio impulso, spesso lo riceve d'altronde e lo trasforma e lo idealizza: e da ultimo spesse volte finisce per impigliarvisi in siffatta maniera, che la stessa natura umana v'appare capovolta, e quello che essa da sé medesima s'impone come sua interna norma, riesce a parere legge venuta ah extrinseco, nella più rozza, nella più superficiale forma di obbiettività. Questa obbiettività è la materia prima su la quale hanno lavorato i teologi, mescolandovi ogni sorta d'ingredienti formali del ragionamento: dai quali, quella obbiettività stessa avrebbe dovuto ritrarre consistenza di sistema, e non ne ha in fatti ritratto altro che schematica disposizione di elementi disgregati, e sforniti d'ogni possibilità d'interiore organamento. I teologi hanno quistionato del libero arbitrio e della grazia: e di quello in quanto integro, o corrotto, o in parte o in tutto, e di questa in quanto dispone, predispone, determina, predetermina o assiste. E la mente libera di spaziare in così fatte disquisizioni, alle quali mancava la materia prima di un argomento certo e ben definito, v'ha preso lo' svago: e s'è spesso ostinata, tanto è grande la prosunzione umana, a credere, che cotesto svago fosse bella e buona occupazione seria. La critica s'è ridestata; ed ha chiesto dapprima, come era naturale, il quid facti di tutti quei concetti, i quali erano in gran parte me re supposizioni, e dal quid facti è risalita al quid juris: ed al postutto, dove la teologia non s'è rassegnata a pensare, lo svago è rimasta occupazione così seria come quella di baloccarsi con le ragnatele. Ma dallo svago teologico, che è finito spesso in mera vacuità di formalismo dottrinale, alla intimità del sentimento religioso, ci corre molto. Sarà falso che l'uomo è corrente a trasgredire la legge morale, perché il primo uomo, lui proprio, ha trasgredito il primo precetto d'un Dio che avea visto de visu: sarà falso che la legge morale stia lì come un precetto, come una esterna imposizione di una persona altra dalla umana: e sarà falso che un esterno aiuto, una esterna riparazione siano sufficienti a ravviare l'uomo, a redimerlo dalla corrente del peccato. Falsità quella che procede da un intelletto corrente a costruire sui dati dell'immaginazione un mondo fantastico, rispetto al quale la vita umana non dovrebbe essere che parvenza ed ombra. Ma non sarà falso, non è punto falso, che l'uomo nella miglior parte di sé medesimo, si chiami essa testimonio inappellabile della coscienza, o altrimenti, riprova gli atti, una gran parte degli atti suoi, e che la coscienza della propria debolezza è in lui così viva come è viva quella coscienza della parte migliore di sé medesimo: e che il rimordimento è frequente e la carne è debole, e che il bisogno del pieno interno accordo con noi stessi è così intenso, come quello che è il più intimo, il più profondo nella natura umana.
Antonio Labriola, Della libertà morale, in Tutti gli scritti filosofici, Bompiani, 2014, p. 674 – 677
Il concetto di libertà di Labriola non è certo il concetto di libertà dell'uomo da Dio con quanto ne consegue. Il concetto di libertà in Labriola è un concetto di libertà circoscritto dalla volontà di Dio sull'uomo e condito col terrore di ciò che Dio potrebbe fare l'uomo se avesse una libertà assoluta esercitata con assoluta potenza.
Quando Labriola accetta di unire il concetto di libertà col concetto di potenza non fa altro che affermare che la libertà si esercita mediante la distruzione di qualche cosa. Quel qualche cosa sarebbero gli ostacoli che la natura frappone ai desideri dell'uomo.
Solo che il concetto di libertà non è nato come contrapposizione dell'uomo alla natura. Il concetto di libertà è nato per contrapporre l'uomo, il diritto di esistenza dell'uomo, alle pretese di dominio di Dio sull'uomo. Dio, o chi si identifica in lui pretendendo di essere il padrone di uomini restringendo, di fatto, i confini entro i quali la sua vita si può esprimere, sono coloro che negano la libertà dell'uomo e la negano anche "filosofeggiando", come fece Platone, per impedire all'uomo di vivere la sua vita.
Ed è fuorviante affermare che la libertà dell'uomo si esercita contro tutti gli altri uomini. Chi esercita il dominio sugli uomini non esercita la propria libertà, ma esercita la propria violenza con cui prevarica altri uomini. La libertà di torturare, la libertà di ammazzare, la libertà di violentare è al di fuori del concetto di libertà perché tali azioni implicano delle vittime che sono espropriate del "medesimo" diritto. La libertà di "fare quello che si vuole" come il Dio dei cristiani, non appartiene al concetto di libertà, ma appartiene al concetto della violenza con cui il Dio cristiano massacra e stupra gli uomini.
Il Dio dei cristiani non è "libero", è un assassino violento che gode dell'impunità. Le vittime del Dio cristiano manifestano il desiderio di libertà aggredendo il Dio dei cristiani e di coloro che della violenza del Dio dei cristiani si fanno forza riproducendola per rubare la libertà alle persone.
A differenza di quanto dice Labriola, il bisogno di libertà è tanto più impellente quanto più la libertà esistenziale dell'uomo viene negata dalla violenza che impedisce lo svolgimento della vita secondo i bisogni o i desideri del singolo individuo.
Dal momento che Labriola associa la libertà alla violenza (dice potenza) va da sé che il discorso non si svolge più attorno al concetto di libertà, ma si articola attorno al concetto di "uso della potenza" come esercizio sociale della violenza. In quell'ambito è necessaria, secondo Labriola, la morale che limiti l'esercizio della violenza sociale mediante la veicolazione della potenza. In sostanza, una morale che mitighi l'esercizio della potenza. Ma in questo caso, seguendo la logica di Labriola, la morale va imposta a Dio e a coloro che mettono in atto la violenza sociale facendosi forza di Dio. Non è legittimo imporre la morale a chi chiede libertà dalla violenza di Dio, ma si rende necessario imporre la morale a chi è in grado o nelle condizioni di esercitare la "potenza" nella e sulla società.
Dio e i suoi aguzzini parlano di libertà interiore per violentare i corpi degli uomini. I cattolici bruciavano i corpi degli uomini per liberare la loro anima dal peccato. Per questo motivo non si può parlare di "libertà interiore", non esiste la "libertà interiore", esiste la libertà del corpo che abita il mondo e la violenza di Dio e dei suoi rappresentanti consiste nella violenza sui corpi. I cristiani esercitano una violenza sociale che reprime la libertà dei corpi.
Il sentimento religioso, di cui parla Labriola, altro non è che la violenza di Dio e dei suoi rappresentanti sui corpi degli uomini fin da quando, feti, sono nella pancia della loro madre. Il teologo ha lo scopo di allontanare l'attenzione delle persone da Dio quale origine e artefice del male e della mancanza di libertà sociale. E lo fanno mediante l'esercizio della potenza con cui i cristiani esercitano la violenza sociale.
Scrive Labriola in "Morale e Religione":
La molteplicità empirica del vario rapporto fra la morale e la religione, è già per sé un immediato incentivo alla ricerca della natura peculiare dell'una e dell'altra. E poi nella sfera pratica della vita è quasi inevitabile l'imbattersi in cotesta quistione; per la ragione appunto, che le forme principali della relazione, e la varia specificazione loro, sono di continuo impulso a considerare, sotto quale punto di vista s'abbia a trattare la educazione o la condotta dello stato, la legislazione positiva o la coltura generale. Però, non c'è verso di cavare dalla osservazione empirica e dalle esigenze pratiche un ordine ben definito di concetti; se prima la quistione non si ponga in termini generali, e non si faccia poi luogo ad una più elevata specie d'indagini, circa le condizioni psicologiche, le quali differenziano la morale dalla religione, e circa i fini generali della educazione e dello stato, in rapporto allo sviluppo etico e religioso della coscienza individuale. Ora la indagine, per chi volesse condurla a segno - ché qui noi l'accenniamo tanto per poter dare la spinta alla disputa - avrebbe innanzi tutto a pigliar le mosse da una ricerca storica e critica, intorno ai motivi della identificazione della morale e del dritto, con l'ideale religioso cristiano, in tutta la teologia medioevale, e nella riproduzione di essa nella restaurata scolastica del protestantismo, durante i secoli decimo sesto e decimosettimo. Per via di cotesta ricerca storico-critica si farebbe chiaro: che il supposto mitico-religioso della naturale impotenza dell'uomo al bene, in ragione del peccato, necessitava un intuito antropologico e teologico, nel quale tanta parte si faceva alla ricettività morale di lui, per quanta gliene venisse accordata nell'ordine soprannaturale della rivelazione e della grazia. Se non che, poco per volta, il concetto di una giustizia naturale, o di una naturale coscienza del bene, andò guadagnando terreno, così nel campo pratico, come in quello della concezione scientifica; finché si è in fine giunti alla persuasione: che tutto il sistema delle presunzioni etiche abbia il suo proprio fondamento nella natura umana, e sia circoscrivibile in limiti affatto indipendenti dalla religione non solo, ma da ogni altra concezione generale dell'universo. Cotesta storia critica, la quale in ipotesi io qui immagino non fatta, ha da provare, come un'etica la quale si fondi sul supposto di un qualcosaltro (religione o intuizione filosofica del mondo) che dia direttamente valore alle norme su le quali essa si fonda, non può arrivare mai alla concezione schietta della moralità; non può, cioè, farsi superiore alla ordinaria concezione pratica, la quale fa della bontà tutt'una cosa con la semplice conformità al fine. Perché sotto qualunque punto di vista si tenti di subordinare l'etica ad una data concezione religiosa o filosofica, si fa questa supposizione: che per elevare il volere umano dalla sfera immediata del semplice appetire, per farne, cioè dire, volere buono, sia necessario presegnargli in un determinato ordine di oggetti, o in un oggetto, il fine in cui trovi acquiescenza, il quale fine, per sottinteso, si presume sia la somma di quello che è moralmente degno di essere voluto. Cosicché, ove davvero cotesto fine concentri in sé l'insieme tutto del moralmente volibile, ci cade nella impotenza di una teoria scientifica della morale; perché questa, se ci ha da essere, non può non cominciare appunto dalla disamina dei criteri della moralità stessa. La quale non può, non deve consistere né in uno né in più oggetti determinati; ma può, e deve consistere solo nell'animo col quale si vuole; nella bontà, cioè, del volere.
Antonio Labriola, Morale e religione, in Tutti gli scritti filosofici, Bompiani, 2014, p. 802 – 804
La morale e la religione, dice Labriola, hanno delle peculiarità che vale la pena di indagare indipendentemente l'una dall'altra. Sotto quale aspetto va trattata la forma giuridica dello Stato o la cultura? Spesso i due aspetti fra morale e religione, dice Labriola, entrano in conflitto.
In conflitto entra la morale imposta dalla religione cristiana con la morale desiderata del singolo individuo. Questo conflitto che quasi sempre si svolge dentro all'animo del singolo individuo, violenta la sua psiche perché l'individuo combatte contro le sue pulsioni, i suoi desideri per sottomettersi ad una morale che viene socialmente approvata. Anche in questo caso siamo sempre nell'ambito della violenza del cristianesimo che legittimando la violenza di Dio sull'uomo pretende che l'uomo si sottometta a Dio stuprando la sua struttura emotiva a maggior gloria di Dio.
Labriola avverte il conflitto e invita ad indagare sulle condizioni psicologiche che differenziano la morale dalla religione e sui fini generali dell'educazione dell'infanzia in relazione alle necessità dello Stato. E' necessario, dice, indagare sullo sviluppo etico e religioso della coscienza individuale.
Labriola è consapevole che qualche cosa stride fra i bisogni delle persone e le necessità di una religione, la religione cristiana cattolica, che si impone sull'individuo con tanta violenza da distruggere i confini fra ciò che l'individuo desidera e ciò che la violenza del cattolicesimo impone.
La critica alla religione, secondo Labriola, dovrebbero prendere le mosse da una ricerca storica e critica sull'identificazione della morale e del diritto con la religione cristiana nel diritto medioevale.
Una ricerca storica! Labriola non è in grado di superare la sua educazione religiosa. Qui non si tratta di una ricerca storica, ma di una ricerca filosofica e progettuale sul come poté avvenire e sul come avvenne che filosofie demenziali che negavano la libertà dell'uomo si imponessero della società e del controllo sugli uomini al punto tale da imporre una morale di sottomissione e di schiavitù all'uomo stesso. Una ricerca storica che metta in discussione il diritto di Dio di ordinare e ad uomini di ammazzare per attuare quei presunti ordini. Come poté avvenire che la figura di un pazzo, costruita a tavolino, si proponesse come il padrone degli uomini in quanto figlio del Dio padrone e che a questo pazzo si aggiungesse la figura di un altro personaggio, al limite fra il reale e il fantasioso, che legittimasse con la violenza il diritto del pazzo di cui sopra di dominare gli uomini affermando di distribuire "grazia"?
Nel 1874 Labriola vince un concorso per la cattedra di filosofia morale e pedagogia dell’Università di Roma diventando Professore straordinario. Per alcuni anni si occuperà di questioni pedagogiche.
Nel 1876 fa dei corsi di diritti e doveri per gli operai di Roma. Viene pubblicato dall’editore Loescher “Dell’insegnamento della storia”.
Scrive Antonio Labriola in "Dell'insegnamento della storia":
L'educando, in quanto per le condizioni peculiari dell'età e della capacità sua va soggetto all'azione educativa, non è ancora uomo maturo, ossia capace di esprimere in pensate operazioni l'intimo suo; e pur noi educandolo ci proponiamo di farne tale un uomo, che la naturale individualità di lui rimanga dignificata dei pregi del valore personale. Quando quegli che ora si educa sarà divenuto uomo nel senso pieno della parola, userà di sé nella vita assai variamente, secondo che la sua individualità entrerà in uno o in un altro rapporto con l'insieme degl'intrecci di attività che costituiscono il convivere sociale; e intorno a ciò non è chi possa fare delle ragionevoli previsioni. Ma noi ci pensiamo che in quanto uomo educato ei dovrà essere in grado di far prevalere nelle decisioni sue gl'interessi ideali, e di difenderli dagl'istinti antimorali ed antisociali, col dar loro sicura e stabile espressione nelle operazioni sue, per quanto queste possano e devano esser varie nel contenuto e nei fini. Non è in tutto ciò una evidente contraddizione? Perché in fatti non si è uomini degni e stimabili, liberi cioè di morale libertà, se non s'entra nella vita che dice si autonoma già forniti di certe spirituali attitudini, e pure della personalità non si fa uso certo e pieno che nella vita stessa. In che cosa potran consistere le operazioni educative se devono formare per la vita quando questa non si può ancora viverla nella pienezza sua? Rimuovere anzi risolvere cotesta contraddizione gli è il vero e proprio fine della pedagogica. Or senza entrare qui nella particolareggiata esposizione di quello che occorre per risolvere il problema - la qual cosa del resto non si può fare a mo' d'incidente - basterà che io indichi quel tanto di nozioni generali pedagogiche che fa di mestieri per intendere il valore scientifico delle questioni didattiche, e di quella poi che specialmente tratto in questo opuscolo. Il passaggio dall'età della vita in cui l'educazione è d'ordinario tenuta per cosa possibile, a quella in cui l'uomo piglia stato e comincia a spendersi in opere personali, non è propriamente fissato in una precisa preordinazione organica; anzi risulta dal combinarsi delle varie condizioni esteriori della società, con gli svolgimenti interiori dello spirito, che sono del pari variati e complicati. Non è repentino, perché preparato a grado a grado dal trasformarsi delle interne movenze dell'animo in principi attivi di operosità. Non consta di varie facoltà spirituali, ma sì bene consiste nel complessivo atteggiarsi delle movenze interiori nella forma precisa delle volizioni coscienti e deliberate. Or la materia di queste e la formale connessione loro in quella qualità dell'animo che chiamiamo carattere, si vengono a mano a mano preparando nei diversi stati psichici d'intellezione e di sentimento, che si formano ad uno ad uno e variamente si combinano e si complicano fra loro nel periodo di tempo che precede la gioventù piena e fiorente. In tutto cotesto processo gli è come una molteplicità di condizioni, non il semplice svolgimento continuativo di una forza unica, data a movimento costante. In queste generalità rimane a parere mio sufficientemente indicata la possibilità dell'educazione, e il valore proprio dell'istruzione come mezzo educativo. Perché istruire non vuol dire ammaestrare teoricamente circa i possibili casi della vita, né comunicare le massime cui le particolari operazioni devano essere in seguito conformate, né tampoco coartare la volontà a divenire docile istrumento di passiva esecuzione, ma invece adoperarsi perché nello svolgimento interiore, che mette capo nella personale autonomia, prevalgano quegli appunto fra gli elementi della vita spirituale, nei quali si prepara il predominio dell'ideale etico. Le operazioni educative sono adunque indirette, in quanto che non si ha in mira di ottenere per mezzo loro il nudo effetto dell'imitazione, ma sì di promuovere i principi interiori della retta scelta e della retta operazione. Attività ordinata, rivolta a produrre attività, ecco il preciso assunto del compito educativo.
Antonio Labriola, Dell'insegnamento della storia, in Tutti gli scritti filosofici, Bompiani, 2014, p. 933 – 934
L'ammaestramento dei giovani è fatto in funzione della conservazione del potere (anche su di loro) dei vecchi che impongono la propria visione del mondo e della storia.
Anche i cattolici "educano" manipolando la struttura psico-emotiva dei ragazzi affinché non siano più in grado di vivere senza la sottomissione a Dio o a Gesù e, nello stesso tempo, per conto di Dio e di Gesù, siano indotti al dominio sugli uomini.
Educare non significa fare degli uomini consapevoli di sé stessi e responsabili in una società che richiede attenzione, passione e coinvolgimento. Educare significa manipolare la struttura psico-emotiva in una direzione prestabilita dall'educatore. La qualità dell'uomo educato che ne emerge è direttamente proporzionale alla qualità dell'educatore. Tanto più l'educatore è coinvolto nei problemi del mondo, quanto più l'educatore affronta le condizioni della vita e tanto più l'educato ne imiterà le gesta e le imprese.
Si può insegnare la storia, ma la storia che insegni è la storia che hai selezionato da un insieme storico e i cui fatti vengono interpreti soggettivamente. Pertanto, non si insegna la storia, ma un'interpretazione della storia che può essere più o meno funzionale allo sviluppo dell'educando e alla sua capacità di agire nel mondo.
Il problema che Labriola si pone è un altro: è necessario che la storia sia insegnata e vissuta da tutti i ragazzi perché solo in questo modo i ragazzi possono crescere interpretando la loro realtà mediante la storia.
Il problema che Labriola pone nel 1876 è la necessità di costruire il nuovo cittadino dell'Italia unita. Un cittadino consapevole, sottratto dalla violenza con cui la religione cattolica manipola la sua infanzia.
Nel 1877 Labriola diventa docente ordinario ed è nominato Direttore del Museo d’Istruzione e di Educazione del Ministero della Pubblica Istruzione dal Ministro Ruggero Bonghi.
Nel 1878 pubblica “Del concetto di libertà. Saggio psicologico”.
Scrive Labriola nel "Del concetto di libertà. Saggio psicologico":
La volontà, che io sappia e che io possa sapere, non nacque in me tutta ad un tratto, né mi si rivelò come forza di scatto o di esplosione, né mi apparve qual congegno che pigliasse ad elaborare la materia della mia conoscenza. – E' lì tutta di un pezzo, sì: ma come un tutto che ha dentro di sé un qualcosa, che io in altra circostanza chiamo o desiderio, o appetizione, o bisogno; come un tutto che ha, e di dentro, e di sopra, e d'intorno a sé, più altre cose, che io chiamo, o riflessione, o elezione, o consapevolezza, o accorgimento o in altri ed altri modi. Che cosa mai son tutti codesti fenomeni, che m'è giuoco forza di designare con parole, che mentre chiariscono offuscano, mentre rivelano occultano? e c'è poi modo di esprime in concetti la vera natura, o essenza che dicasi, cansando così e le ombre e i chiaroscuri del parlar comune, sempre vario, multiforme e perciò d'interpretazione dubbia e mutevole? Perché se ciò è possibile ci sarà ben la storia naturale del fenomeno, e ci sarà poi modo di sceverare in esso il nocciolo dalla corteccia; se pur non è vero che al mondo niente è l'uno o l'altro separatamente, ma tutto è l'una e l'altra cosa insiememente. Ed ecco un ricordo, cui posso appigliarmi come a mezzo di orientazione. Una certa inquietezza era in me prima che io mi fossi risoluto a scrivere; e in quella inquietezza era del travaglio e del lavoro; se non che, come appena questo veniasi precisando, quello perdeva di efficacia e di evidenza. Dei termini di relazione, pare almeno, non mancano, i quali mostrando come il medesimo fenomeno corra per varie forme e gradi accennano in certa guisa al concetto della trasformazione; e se questa si avvera e si prova, vuol dire che la volontà non sarà una potenza originaria di valore costante, non un semplice trapasso subitaneo dall'inerzia all'energia, ma una tal quale maniera di combinazione di quei medesimi elementi, che appariscono altre volte nella coscienza in altre svariatissime condizioni. Importa perciò di fissar bene il primo apparire di quell'interno travaglio, che ci rende inquieti, perché si possa vedere in che modo esso vengasi via via attenuando, per trasformarsi da ultimo nella precisa deliberazione. Senza di ciò la parola libertà sarà vuota d'ogni senso; non potendo essa allogarsi altrove, che nello spazio che intercede fra l'inquietezza e la deliberazione. Ma per non perdersi nell'indefinito bisogna tornare all'esempio, e fermarvi su l'attenzione per un tratto ancora. L'esame che facevo poc'anzi e che faccio tuttavia mi è reso agevole da quella condizione dell'animo, che diciamo tranquilla, perché né gli affetti ci turbano, né gli appetiti ci sollecitano, né il bisogno è così prepotente da indurci ad atti inconsiderati, precipitosi ed inevitabili. La stessa operazione dello scrivere, in cui si va attuando il mio disegno, limita poco o quasi niente affatto la mia capacità di riflettere su me medesimo; perché gli è una pura e semplice applicazione meccanica dell'abito acquisito, di cui non avvertirò la gravezza se non ad un certo punto, per l'esaurimento delle forze impiegate nell'esecuzione, quando cioè, mi sentirò stanco. Quello che chiamiamo organismo è adunque, come a dire, meccanicamente preordinato a servir d'istrumento alla volontà; il che fa che a volizione matura noi accolliamo al corpo l'esecuzione degli atti interiori in linea di svolgimento fisico, e, pur governandoci con un sentimento complesso della nostra signoria sul corpo medesimo, nulla sappiamo dalla sua maniera di funzionare. Se non che, cotesta correlazione di movenze psichiche e di fisiche operazioni non è fin dal nascere proprio così, come appare al presente; che anzi all'incontrario, soggetta com'è a condizioni di sviluppo, si forma poco per volta, dapprima per accidente, e poi per particolari esperienze, finché da ultimo si fissa negli abiti multiformi del vivere.
Antonio Labriola, Del concetto di libertà. Saggio psicologico, in Tutti gli scritti filosofici, Bompiani, 2014, p. 840 – 841
La sua volontà è venuta formandosi in un corpo predeterminato. E allora, perché la volontà stessa non è predeterminata? Perché l'"anima" non è "predeterminata?
Labriola sta vivendo una contraddizione fra ciò che sente e ciò che la sua ragione è in grado di descrivere. Non ha gli elementi per esprimere ciò che percepisce nella ragione e ciò che conosce nel quale vorrebbe inserire ciò che sente. Una contraddizione fra il desiderio e la sua realizzazione nel mondo.
Nel 1877 c'è la proposta della legge Coppino. La legge Coppino è una riforma della scuola, in particolar modo delle scuole elementari che rendeva obbligatoria la frequenza. Tuttavia, le spese scolastiche erano a carico dei comuni e molti comuni frapposero molti ostacoli alla realizzazione della legge. Tuttavia, la legge Coppino contribuì a far diminuire l'analfabetismo che in quegli anni coinvolgeva la quasi totalità della popolazione italiana.
Nel 1879 Labriola scrive una serie di allegati alla legge Coppino e per conto del Ministero compie un viaggio in Germania per studiare l’ordinamento scolastico tedesco da cui sortiranno testi come “Appunti sull’insegnamento secondario privato in altri Stati” nel 1880 e “Dell’ordinamento della scuola popolare in diversi paesi” nel 1881.
Nel 1881 Labriola entra in contrasto con il ministro della pubblica Istruzione Guido Bacelli che vuole unificare il Museo d’Istruzione e di Educazione alla cattedra di Pedagogia della Sapienza. Labriola è irritato per il conservatorismo in pedagogia dimostrata sia dai partiti di governo che dai partiti di opposizione.
Nel 1884, attraverso Silvio Spaventa, nel gennaio conosce Benedetto Croce che diventerà un su allievo.
Nel 1886 Labriola viene proposto per essere eletto nel secondo collegio di Perugia da circoli di sinistra. Ma poi, non se ne fa niente anche se l’episodio dimostra che Labriola si sta avvicinando alle posizioni politiche della sinistra.
Nel 1887 viene incaricato di insegnare filosofia della storia iniziando con una lezione “I problemi della filosofia della storia”.
Scrive Labriola in "I problemi della filosofia della storia":
Le obbiezioni, che sorgono naturali dalla considerazione delle cose stesse, possono riassumersi nei seguenti capi. I centri primitivi di civiltà sono molteplici, e non riducibili per effetto di nessuno artifizio; il che vuol dire, che i vari inizi i di vita umana civile non c'è modo di ricondurli, né ad unità reale di causa, e nemmeno a semplice unità prospettica. Le stesse civiltà, che risultino connesse da rapporti causali definiti e precisi, tengono nella serie di trasmissione, e nel lavoro di ricambio, un certo modo di procedere, dal quale noi siam costretti ad argomentare, che i fattori preesistenti all'influsso operino come modificatori, cioè dire che l'influsso si eserciti in termini sempre condizionati. E da ciò procede ancora, che due o più civiltà, per molti rispetti connesse, ci appariscano poi incomparabili in più punti di valore massimo. Dati ed ammessi, ad esempio, come del resto è cosa innegabile, gl'influssi egizi e semitici su la primitiva civiltà ellenica, a nessuno parrà naturale di scrivere dell'arte assira come del primo capitolo della storia dell'arte greca. In cotesto caso, anzi, la reazione su gl'influssi ricevuti dal di fuori è un che di specifico, in cui consiste appunto il problema interiore della vera e propria originazione, come di quella peculiare epigenesi ariana, che chiamiamo ellenismo. Dato ed ammesso, come è fuori d'ogni dubbio, che la filosofia ellenica abbia influito su la formazione del Cristianesimo dottrinale, cioè dire su la patristica, non è chi possa considerar questa come un caso particolare di quella; perché il generatore specifico delle idee cristiane vuol esser qui considerato nella sua indipendenza, e nella efficacia della sua qualità. In questa categoria di combinazioni per incidenza rientra, ad esempio, anche la feudalità degli stati romano-germanici; a intender la quale si son foggiato un problema immaginario tutti quelli che abbiano voluto vederci una formazione originaria. Ora la considerazione di tante serie proprie ed indipendenti, di tanti elementi specifici, di tanti fattori irriducibili, di tante incidenze non preordinate, quante ne presenta la storia studiata al lume di una critica spassionata e penetrativa, ci consiglia, e anzi c'impone di tenere per inverosimile e per illusorio il supposto di una reale unità, che sia come il punto di riferimento, il subietto costante, o la significazione massima d'ogni sorta d'impulsi e d'opere, dai primissimi tempi fino ai nostri; la quale unità il filosofo riuscirebbe poi a ritrarre per virtù di pensiero, e a tratteggiare per arte di esposizione.
Antonio Labriola, I problemi della filosofia della storia, in Tutti gli scritti filosofici, Bompiani, 2014, p. 1079 – 1080
L'analisi della storia come attività umana che produce il presente entra nella trattazione di Labriola. Entra come considerazioni di un metodo di trasformazione che sia indipendente dalla provvidenza divina. Non c'è un solo centro da cui parte la civiltà umana, ma ci sono vari centri e travasi di culture da una all'altra. Labriola rileva come lo stoicismo, il platonismo e il neoplatonismo hanno influito sulla formazione del cristianesimo e senza lo stoicismo, il platonismo e il neoplatonismo il cristianesimo non sarebbe. Non è nato in sé e da sé, ma è nato come trasformazione di una storia precedente che è stata manipolata per generare qualche cosa che solo apparentemente è diverso da ciò che lo ha preceduto.
Labriola ha ben presente il testo di storia "Contro i Pagani" di Orosio che ancora ai suoi tempi veniva spacciato come un libro di storia e che raccontava la storia come un movimento unico verso il trionfo del cristianesimo. Capire i processi storici significa capire le connessioni, ma anche le diversità " presenta la storia studiata al lume di una critica spassionata e penetrativa, ci consiglia, e anzi c'impone di tenere per inverosimile e per illusorio il supposto di una reale unità…"
In un discorso sostenuto nel 1887 alla Sapienza di Roma critica il tentativo di conciliazione fra Stato e Chiesa. Mentre, in un congresso universitario tenuto a Milano, sostiene che gli studi filosofici andrebbero estesi anche agli studenti delle facoltà tecniche. Labriola scrive al deputato Alfredo Baccarini sulla necessità di riforme a tutela del lavoro e l’importanza di riaffermare la funzione del Parlamento.
Nel 1888 Labriola inizia ad uscire dall’università. Alla Sapienza tiene una conferenza “Della scuola popolare” con un appello rivolto agli insegnanti di Roma. Durante gli scioperi per la crisi edilizia si schiera con gli operai disoccupati. Diventa presidente di un’associazione irredentista e critica la stipula del trattato sulla Triplice Alleanza. Aderisce al Comitato Permanente per la Pace. Viene invitato alle celebrazioni in onore di Giordano Bruno a cui invia messaggi di solidarietà. Partecipa alle commemorazioni pubbliche di Mazzini e Garibaldi. Contesta la politica di Crispi tenendo discorsi agli operai delle acciaierie di Terni e criticando la politica del governo per difendere la democrazia.
Nel 1889 Labriola inizia ad elaborare una serie di lezioni sul socialismo. Labriola è costretto a sospendere la lezione sul centenario della Rivoluzione Francese per manifestazioni e tafferugli provocati dalla destra. Labriola diventa presidente del Circolo Pedagogico Romano. In giugno tiene una conferenza al circolo operaio di studi sociali di Roma dal titolo “Del socialismo”. L’esclusione di Antonio Labriola dalle liste elettorali per le elezioni comunali di Roma convincono Labriola ad allontanarsi dai circoli radicali e lo spingono ad avvicinarsi alla sinistra socialista.
Nel 1890 Antonio Labriola invia ad Engels la “Prolusione” e il testo della conferenza “Del socialismo”. Con Filippo Turati scrive i saluti dei socialisti italiani al congresso socialdemocratico di Halle che si tiene in ottobre. Labriola approfondisce Marx ed Engels e inizia delle lezioni sul socialismo e il materialismo storico.
Nel 1892 Labriola intensifica la relazione con Engels ed entra in polemica con Filippo Turati a cui contesta un atteggiamento fiducioso e superficiale oltre che una simpatia per lo spontaneismo “antilegalitario”. Per questo rifiuta di partecipare al congresso socialista di Genova anche se tenderà a riprendere i rapporti con i socialisti dopo la rottura dei socialisti con gli anarchici. Tuttavia, non diventerà mai un militante socialista. Allo scoppio dello scandalo della Banca Romana manda al deputato radicale Napoleone Colajanni una serie di documenti compromettenti.
Nel 1993Antonio Labriola partecipa al Congresso Internazionale Socialista di Zurigo come delegato del circolo socialista di Napoli. Al congresso di Zurigo incontra Engels. Redige un manifesto in risposta alle manifestazioni nazionalistiche anti-francesi dopo l’omicidio di un gruppo di operai italiani. Labriola si schiera con il movimento dei “Fasci Siciliani” che identifica con il primo nucleo di organizzazione dei socialisti italiani.
Nel 1894 c'è una repressione delle rivolte anarchiche e Antonio Labriola si schiera con i moderati. La posizione sulla repressione finirà per portare ad un’alleanza fra socialisti e democratici. Labriola pubblica su una rivista tedesca “dieci corrispondenze sulla politica italiana”.
Nel 1895 Antonio Labriola scrive “In memoria del manifesto dei comunisti”. Il testo viene letto da Engels che si congratula con Labriola e viene pubblicato in francese e poi in italiano dall’editore Loescher. In quest’anno aumentano le relazioni fra Labriola e Benedetto Croce. In questo stesso anno muore Engels.
Scrive Labriola in "In memoria del manifesto dei comunisti":
Il nerbo, l'essenza, il carattere decisivo di questo scritto consistono del tutto nella nuova concezione storica, che gli sta in fondo, e che esso stesso in parte dichiara e sviluppa, quando nel resto non vi accenni, e non vi rimandi, o non la supponga soltanto. Per questa concezione il comunismo, cessando dall'essere speranza, aspirazione, ricordo, congettura o ripiego, trovava per la prima volta la sua adeguata espressione nella coscienza della sua propria necessità; cioè nella coscienza di esser l'esito e la soluzione delle attuali lotte di classe. Né queste son quelle di ogni tempo e luogo, su le quali la storia del passato s'era esercitata e svolta; ma son quelle, invece, che tutte si assottigliano e si riducono predominantemente nella lotta tra borghesia capitalistica e lavoratori fatalmente proletarizzati. Di questa lotta il Manifesto trova la genesi, determina il ritmo di evoluzione, e presagisce il finale effetto. In tale concezione storica è tutta la dottrina del comunismo scientifico. Da questo punto in poi gli avversari teorici del socialismo non son chiamati più a discutere della astratta possibilità della democratica socializzazione dei mezzi di produzione; come se di ciò s'avesse a far giudizio per illazioni tratte dalle generali e comunissime attitudini della così detta natura umana. Qui si tratta invece di riconoscere, o di non riconoscere nel corso presente delle cose umane una necessità, la quale trascende ogni nostra simpatia ed ogni nostro subiettivo assentimento. Trovasi o no la società d'essere ora così fatta, nei paesi più progrediti, da dovere essa riuscire al comunismo per le leggi immanenti al suo proprio divenire, data la sua attuale struttura economica, e dati gli attriti che questa da sé in sé stessa necessariamente produce, fino a far crepaccio e dissolversi? Ecco il soggetto della disputa, dopo che tale dottrina è apparsa. Ed ecco insiememente la regola di condotta, che s'impone all'azione dei partiti socialistici; o che siano essi di soli proletarii, o che accolgano nelle loro file uomini usciti da altre classi, i quali facciano la parte di volontarii nell'esercito del proletariato. Per ciò noi socialisti, che ci lasciamo ben volentieri chiamare scientifici, se altri non intende per cotal modo di confonderei coi Positivisti, ospiti spesso ma da noi non sempre bene accetti, che a lor grado monopolizzano il nome di scienza, noi non ci battiamo i fianchi per sostenere una tesi astratta e generica, come fossimo causidici o sofisti: né ci affanniamo a dimostrare la razionalità degli intenti nostri. I nostri intenti non sono se non la espressione teorica e la pratica esplicazione dei dati che ci offre la interpretazione del processo che si compie attraverso noi e intorno a noi; e che è tutto nei rapporti obiettivi della vita sociale, di cui noi siamo soggetto ed oggetto, causa ed effetto, termine e parte. I nostri intenti son razionali, non perché fondati sopra argomenti tratti dalla ragion ragionante, ma perché desunti dalla obiettiva considerazione delle cose; il che è quanto dire dalla dilucidazione del processo loro, che non è, né può essere, un resultato del nostro arbitrio, anzi il nostro arbitrio vince ed aggioga.
Antonio Labriola, In memoria del manifesto dei comunisti, in Tutti gli scritti filosofici, Bompiani, 2014, p. 1151 – 1152
Lo scritto verrà inviato da Labriola ad Engels che lo apprezzerà come lo apprezzerà Sorel. Fa una certa impressione sapere che oggi il programma del Manifesto del Partito Comunista è stato non solo attuato, ma ampiamente superato ed ogni paese occidentale ha fatto un proprio vanto la distruzione dell'analfabetismo o altre rivendicazioni proprie del Manifesto del Partito Comunista.
La cosa che più impressiona del Manifesto del Partito Comunista era che il Manifesto era indispensabile sia per la struttura economica capitalista che per la struttura finanziaria internazionale. Costoro hanno combattuto le tesi del Manifesto del Partito Comunista solo per poter sfruttare i vantaggi che la riforma sociale, basata sul programma del manifesto, ha messo in atto in tutto l'occidente e l'oriente.
Il problema reale della borghesia, che l'ha indotta a combattere il Manifesto del Partito Comunista, era la paura di non poter vivere e prosperare in una società in cui la massa dei cittadini avesse dei diritti sociali e raggiungesse livelli economici tali da renderli benestanti. La borghesia, in particolare la borghesia religiosa cristiana, aveva paura del benessere diffuso.
Il programma del Manifesto del Partito Comunista è realizzato e, pertanto, superato. Come è superata formalmente la centralità della classe operaia quando, al contrario, rimane sempre il fondamento portante delle società.
Oggi come oggi sono necessari programmi diversi attraverso i quali trasformare la società, ma questo è un problema che riguarda gli uomini di oggi.
Nel 1896 Antonio Labriola scrive il saggio “Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare”. Antonio Labriola rileva come gli interessi del capitalismo commerciale si stiano progressivamente spostando dall’Atlantico al Pacifico e questa condizione comporta dei mutamenti nelle strategie del movimento operaio. All’apertura dell’università, in autunno, terrà un discorso su “L’università e la libertà di coscienza”. Il discorso susciterà molte polemiche e verrà pubblicato da Benedetto Croce.
Nel 1896 ad Antonio Labriola si presentano i primi sintomi di un tumore alla laringe.
Nel 1897 Labriola dichiara il proprio appoggio all’insurrezione egli abitanti di Creta contro gli Ottomani e nel contempo manifesta il suo favore all’espansione coloniale dell’Italia in Tripolitania. Scrive in francese la terza parte del “Discorrendo di socialismo e di filosofia”.
Nel 1898 viene pubblicata in italiano “Discorrendo di socialismo e di filosofia”. In “Discorrendo di socialismo e di filosofia” Labriola tratta del concetto di “negazione della negazione” di Marx e discusso nell’Antiduring di Engels.
Scrive Labriola a proposito della “negazione della negazione”:
Ma che cosa è, dunque, cotesta terribile negazione della negazione, per la quale il signor Duhring si fa così cattivo sangue; tanto che per lui gli è come la colpa imperdonabile, tal quale come nel cristianesimo il peccato contro lo spirito santo? La negazione della negazione è un procedimento assai semplice, e di ovvia applicazione nella vita di tutti i giorni; e non c'è fanciullo al mondo, che quel procedimento non possa intendere, non appena si riesca a spogliarlo delle apparenze misteriose, nelle quali piacque alla vecchia filosofia idealistica di andarlo involgendo, e nelle quali è utile agli sciancati metafisici, della fatta del signor Duhring, di tenerlo tuttora avvolto. Pigliamo pure un granello di orzo. Bilioni e bilioni di cotali granelli vengono tuttodì macinati, bolliti, messi a fermentare per farne la birra, e, da ultimo, consumati. Ma se uno di cotesti granelli incontra le favorevoli condizioni normali, se cade, cioè, su un terreno acconcio, si avvera in esso, per l'azione del calore e della umidità, una speciale alterazione, ovvero sia, esso germoglia: - il granello come tale trapassa, cioè è negato, e in suo luogo sorge la pianta, che ne ha origine, come negazione del granello. Ma quale è il normale processo vitale di cotesta pianta? Essa cresce, fiorisce, vien fecondata, e da ultimo produce nuovamente granelli d'orzo; e come appena questi giungano a maturità, lo stelo muore, ossia è negato. Abbiamo, in fine, qual resultato della negazione della negazione, l'iniziale granello di orzo, ma moltiplicato per dieci, per venti, per trenta. Le granaglie variano assai lentamente, cosicché quelle di ora rassomigliano quasi a un di presso alle sorti di cento anni fa. Se noi invece pigliamo certe piante da ornamento, come le dalie e le orchidee, e se curiamo i semi e le pianticelle, che da questi venga in crescendo, secondo i principii dell'arte del giardinaggio, noi otteniamo, come resultato di cotesta negazione della negazione, non solo semi in maggior numero, ma semi anche di migliorata qualità, i quali producono fiori più belli, e, ad ogni rinnovarsi del processo e ad ogni negazione della negazione, il perfezionamento avanza d'un grado. Lo stesso processo riscontriamo negl'insetti, e, p. es., nelle farfalle. Queste nascono dall'uovo mediante la negazione dell'uovo stesso, percorrono le loro metamorfosi fino a raggiungere l'attitudine generativa, si congiungono, e vengono di nuovo negate; poiché muoiono, compiuto l'atto della generazione, e non appena la femmina abbia deposte le numerose sue uova. Che in altre piante ed in altri animali il processo non si avveri in modo così semplice; in guisa, che non una ma più volte, prima di morire, producono, o semi, o uova, o piccini, gli è cosa che in questo punto non ci riguarda. Noi abbiamo voluto soltanto mostrare, che la negazione della negazione realmente ha luogo nei due regni del mondo organico. Inoltre, tutta la geologia gli è come una serie di negazioni negate; una serie, cioè, di rovine che si succedono, e di nuovi strati di formazioni minerali. Dapprima la crosta terrestre, originatasi dal raffreddamento della massa gassosa, viene ad essere come infranta dall'azione oceanica, meteorologica e chimico-meteorica, e le masse così spezzate si stratificano nel fondo dei mari. Le elevazioni locali del fondo del mare espongono alcune parti di cotesti giacimenti primitivi all'azione della pioggia, delle variazioni del calore per il mutar delle stagioni, e dell'ossigeno e del carbonio dell'atmosfera. Agli stessi influssi sono esposte le masse rocciose, che si sollevarono dalla crosta terrestre rompendone gli strati; le masse, cioè, che eran dapprima in istato di fusione e poi si raffreddarono. Attraverso a milioni di secoli si andaron sempre formando dei nuovi strati; e questi furono nella più gran parte nuovamente distrutti, per essere impiegati, di poi, come i materiali di nuove formazioni. Ma il resultato è seriamente positivo; viene a costituirsi, cioè, un terreno commisto dei più svariati elementi chimici, allo stato di friabilità meccanica, che è atto a dar luogo alla numerosa e multiforme vegetazione.
Antonio Labriola, La negazione della negazione, in Tutti gli scritti filosofici, Bompiani, 2014, p. 1539 – 1541
In questo modo Labriola spiega il concetto di negazione della negazione espresso da Marx e ripreso da Engels nell'Antiduring.
Questo metodo di pensare il divenire e la trasformazione del mondo va esteso al singolo individuo dove il singolo individuo ogni volta che costruisce una relazione o affronta un contraddizione va di fatto ad uccidere una parte di sé stesso e una parte del mondo con cui entra in relazione o in contraddizione. Da questa "uccisione" (negazione) emerge un nuovo individuo e una nuova situazione oggettiva diversa dalla precedente perché arricchita dell'esperienza della relazione o delle soluzioni che le parti hanno adottato nella contraddizione. Il cambiamento, soprattutto del singolo individuo che nel corso della sua vita accumula conoscenza, sapere, sensibilità, percezione emotiva, razionalità nel descrivere il mondo, ecc. è una continua trasformazione che avviene per scoppi intuitivi che destrutturano l'individuo precedente e lo ristrutturano fagocitando il nuovo. Ogni volta che un individuo fagocita un'esperienza non ha solo accumulato un'esperienza, ma ha ristrutturato tutto sé stesso per permettere a quell'esperienza di diventare parte della sua esistenza.
La negazione della negazione è il processo generale del divenire del mondo che Marx mise a fondamento del materialismo storico e dialettico. Il processo di negazione della negazione si fonda sulle relazioni e le relazioni sono sempre atti di volontà in cui le parti si adattano reciprocamente modificandosi e producendo il nuovo, il futuro.
Nel 1898 scoppiano moti sociali in Italia.
Antonio Labriola prima pensa che questi moti sociali siano l’inizio di una possibile rivoluzione, ma poi pensa che siano azioni di provocazione volte ad alimentare e giustificare la repressione. Labriola è un intellettuale che lavora presso il Ministero della Pubblica Istruzione, non vive le condizioni popolari. Anche se è consapevole delle pessime condizioni di vita della popolazione, quelle condizioni non vengono vissute sulla sua pelle, non sono entrate nelle sue emozioni, non percepisce la qualità pratica della sofferenza di individui costretti in ginocchio davanti al Dio dei cristiani spesso resi incapaci di organizzare la loro esistenza.
Di questi moti popolari scoppiati nel 1897 e accentuatisi nel 1998, scrive Del Carria in "Proletari senza rivoluzione":
Il 1897 è costellato da scioperi, agitazioni, manifestazioni di piazza e scontri con la forza pubblica che costituiscono i prodromi della grande crisi sociale e politica che investirà tutta l'Italia nel primo semestre 1898. Il via è dato dalla padana nuovamente in fermento dove si sciopera nel ferrarese e nel basso bolognese dal maggio al giugno, per quasi due mesi, sotto la pressione della fame e del terrore poliziesco, contro l'esosa pretesa dei proprietari di diminuire la paga per i lavori di roncatura e mondatura del riso. Tale lotta, che trascende quella normale sindacale per assumere subito un tono drammatico e violento di rottura e viene condotta contro il terrore poliziesco, lo stato d'assedio, i conflitti con le forze armate e in mezzo a ferimenti ad arresti, si conclude con la vittoria dei lavoratori alla testa dei quali si trovano per sacrificio, abnegazione e coscienza di classe le risaiole di Molinella. Nel maggio era sceso in sciopero generale agrario anche il cremonese e nell'agosto sciopererà nuovamente l'intera provincia di Ferrara. Accanto ai contadini del Nord con l'autunno entrano in lotta anche importanti nuclei operai: il 26 settembre iniziano lo sciopero i tessitori del biellese (rivendicanti le 10 ore), sciopero che durerà drammatico e massiccio per sette mesi nella vallata presidiata dalla truppa. La sconfitta e i licenziamenti degli operai più decisi saranno la conseguenza della lotta, nel corso della quale il proletariato industriale dimostra gradatamente di perdere le sue illusioni corporative e di voler cominciare a camminare da sé. Accanto agli operai e ai contadini del Nord si affiancano nella battaglia numerosi nuclei di contadini meridionali. E' il mondo contadino della campagna a coltura estensiva del Lazio che si pone in movimento per la prima volta in modo massiccio: a Frascati i contadini senza terra e i disoccupati dimostrano in piazza e si scontrano con la forza pubblica per l'annullamento di compiacenti ripartizioni di terra a favore di contadini ricchi; mentre nel luglio-agosto ad Albano ed Ariccia i contadini invadono le terre di S. Palomba e di Cancelleria. Dice il Caracciolo che in tali lotte, che divampano tra il '97 e il '98 in tutto il Lazio ad eccezione della Ciociaria, si abbandona talvolta il mero carattere di resistenza per scendere in lotta rivoluzionaria: «In questa atmosfera talora il movimento di resistenza viene a prendere il carattere di una lotta di opposizione politica allo stato di cose esistenti». Poi, per l'aumentato prezzo del pane, le dimostrazione tumultuose, spesso costellate da qualche saccheggio, iniziano nelle città grandi e piccole tra l'autunno e la fine del 1897: scendono in tumulto Rieti, Ancona, Forlì, Bologna, Napoli, Palermo, Macerata, Terni e Milano e diecine di altre località, con morti e feriti tra la popolazione dimostrante. Con il resto della penisola è ancora la Sicilia in prima linea: nel '96 e '97 in diecine e diecine di paesi siciliani si manifesta per le terre demaniali, contro il focatico, i dazi di consumo, i municipi ecc. Anche a Roma, sempre nel '97, a Piazza Navona in una manifestazione di commercianti contro la tassa di R.M., mentre diecine di migliaia di cittadini assaltano palazzo Braschi, sede del Ministero, la polizia spara, lasciando molti morti e feriti sul selciato. Tutto il mondo subalterno italiano comincia a muoversi: lo scendere in lotta contemporaneamente e all'insaputa l'uno dell'altro, senza direzione e senza coordinazione, degli operai lanieri biellesi, dei braccianti della padana, dei contadini poveri del Lazio e del meridione, degli operai, degli artigiani e della plebe delle città, delle trecciaiole toscane e dei piccoli commercianti romani, denunciava a chi avesse avuto anche poca vista non solo l'esistenza di un malessere diffuso, ma anche la coscienza di tale malessere in via di essere acquisita dalle masse. Naturalmente il Partito Socialista, riunito il 18, 19 e 20 settembre '97 a Congresso a Bologna, raccoglie soltanto i lontani echi di tali istanze di rottura che giungono dal basso, ignaro di quello che sta per accadere.
Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione, Edizioni Oriente, 1970, p. 295 – 296
Questi moti popolari precedono e seguono le grandi migrazioni della popolazione italiana verso le Americhe in cerca di migliori condizioni di vita.
Il distacco fra i primi intellettuali italiani e le classi sociali, di cui parlano, è estremamente profondo. I bisogni immediati delle classi subalterne vengono vissuti dagli intellettuali con distacco, quasi con fastidio, come se a loro le condizioni di vita delle persone nell'immediato non interessassero. Eppure, è solo il sangue versato dalle classi subalterne che costringe la società a prendere in considerazione le analisi di questi intellettuali che, altrimenti, sarebbero ignorati.
Nel 1889 Labriola entra in polemica con Sorel e lo scritto viene pubblicato sulla “Rivista italiana di sociologia”: “A proposito della crisi del Marxismo”.
Scrive Antonio Labriola in “A proposito della crisi del Marxismo”:
Ma i libri come questo del Masaryk non giovano a nulla. Ecco qua un coacervo di obiezioni in nome del positivismo sì, ma non in nome della revisione diretta ed autentica dei problemi della scienza storica, e non in nome delle questioni politiche attuali. La così detta crisi non diventa, né il subietto di un esame da pubblicista, né l'obietto di uno studio da sociologo, ma è come uno spazio vuoto o una pausa, in cui l'autore vada a deporre, o a recitare, le sue filosofiche proteste. Uno studio, né vano né privo d'interesse, è dedicato alla formazione prima del pensiero di Marx (pp. 17-89). Ma il facit è da ultimo assai meschino. «Nella costante mutazione dell'ordinamento sociale venne Marx da ultimo a trovare la ragione storica del comunismo, come quello che s'imponga da sé. - Secondo Marx la filosofia è la copia naturalistica del processo del mondo. - Il comunismo è dato dalla storia stessa. - Il materialismo di Marx è un materialismo storico. - Proposizioni come queste, le quali riproducono a un di presso il pensiero fondamentale dello scrittore che si ha per mani, dovrebbero indurre, pare a me, il critico a rifarsi sui fondamenti di tali concezioni, per rovesciarli, se mai, con una critica ab imis. Ebbene, che fa il signor Masaryk? Pochi righi dopo scrive: «La sua filosofia e quella di Engels hanno il carattere dell'eccleticismo. E poi ci regala, alla lettera D del capo II, una insalata russa delle opinioni in contraddittorio di Bax, K. Schmidt, Stern, Bernstein, Plekanoff, Mehring, in quanto han discusso se tale filosofia, diciamo così marxistica, sia conciliabile o no col ritorno a Kant, a Spinoza, o a che altro siasi; e non gli sovviene del poeta, che assistette alla fondazione della Università di Praga, per esclamare con lui: Povera e nuda vai filosofia. Alquanto sconnessa è la trattazione che l'autore dedica al materialismo storico (pp. 92-168), indugiandosi in prima sul divario delle definizioni, per venire infine ad una critica tutta fondata su la vecchia nenia della dottrina dei fattori, più o meno dissimulata in una fraseologia sociologica e psicologica alquanto dubbia ed incerta. In conclusione all'autore repugna il pensiero di una concezione obiettivamente unitaria della storia; e gli capita spesso di confondere la spiegazione del complesso storico mediante il variare innanzi tutto della struttura economica, con la spiegazione illico et immediate del fatto storico determinato per via delle rispettive ed individuate condizioni economiche. Non deve quindi recar meraviglia di vedere come Marx venga considerato quale una specie di Comte alterato in peggio, che diventa poi un inconsapevole seguace di Schopenhauer nell'accettare il primato della volontà, dottrina che contraddice però alla sacramentale tricotomia psicologica d'intelletto, sentimento e volere. Può darsi che quel povero Marx ignorasse, come l'uomo sia fornito, oltre che dell'intelletto, anche d'un fegato (sict), il che è tanto più sorprendente, in quanto che lui era assai fegatoso (sict), per le quali buone ragioni può essere accaduto non s'avvedesse, che il sopravvalore è un concetto principalmente etico (sict). Al prof. di Università, che tratta la sua materia come il suo mestiere, può venir facilmente la tentazione di far passate un determinato autore sotto lo scrutinio di tutte quelle altre dottrine che lui critico abbia l'abitudine di studiare e di maneggiare. E allora, per una strana illusione da erudito, accade che i termini di confronto, che sono nell'abito subiettivo del critico, divengano surrettiziamente come dei termini di effettiva derivazione. Così stava accadendo al Masaryk; quando ecco che lui, nel bel mezzo delle sue tentate comparazioni, si contraddice, e sentenzia (p. 166): «Nel fatto Marx viene a formulare ciò che, come suol dirsi, si trovava nell'aria, e perciò io non ho dato gran peso ai singoli influssi su la sua formazione intellettuale. Ergo - direi io - ricominciate da capo, e anzi invertite. Nell'autore, che trattate, s'è avverata appunto questa inversione, che dalla critica dell'economia e dal dato delle lotte di classe egli risalì ad una nuova concezione storica (e non per modificare, s'intenda bene, ciò che tecnicamente dice si disciplina della ricerca storica), e per quella via poi ad una nuova orientazione sui problemi generali della conoscenza. Ma voi forzate le cose, ma voi le alterate del tutto, mettendovi per una via che non è quella percorsa dall'obietto del vostro esame. Ma si capisce, voi filosofo professionale scendete dall'alto delle definizioni al particolare del materialismo storico; e, con tutto il dovuto ossequio alla metodologia, giungete alla teoria delle lotte di classe (pp. 168-234) come si arriva a un corollario.
Antonio Labriola, A proposito della crisi del marxismo, in Tutti gli scritti filosofici, Bompiani, 2014, p. 1377 – 1379
Nella polemica contro il ceco T. Masaryk, positivista e antimarxista, Labriola esprime le proprie posizioni contro il tentativo di revisionismo dell’ideologia marxista in funzione della concezione della necessità e dell’impellenza della trasformazione del presente sociale in un diverso presente in cui i motivi di attrito e di sofferenza sociale presenti nell’oggi vengono modificati e trasformati. La polemica fra positivismo e materialismo storico scaverà un solco profondo nel pensiero umano. Mentre i materialisti dialettici guardano alla società, i positivisti guardano all'uso della scienza per il controllo della società. I marxisti spesso perderanno di vista l'uomo e il suo abitare il mondo mentre i positivisti saranno più attenti nel costringere l'uomo a sottomettersi ad "idee" scientifiche aprioristiche (come nei manicomi, come nella fisioniomica).
Nel 1900 Labriola tiene una conferenza di commemorazione nel terzo centenario della morte di Giordano Bruno all’Università La Sapienza di Roma e una serie di lezioni straordinarie su Giordano Bruno.
Nel 1901 Labriola scrive “Da un secolo all’altro. Considerazioni retrospettive e presagi”.
Nel 1902 Antonio Labriola scrive “Storia, filosofia della storia, sociologia e materialismo storico”.
Scrive Antonio Labriola:
L'analisi che abbiamo fatta del concetto di sociologia in rapporto alla storia, e il quesito che ci siamo proposto: se i problemi della Filosofia della Storia si possano risolvere nella semplice sociologia, ci portano naturalmente ad esaminare un indirizzo di pensiero, che ha nome il materialismo storico. Prima di tutto noto che in molti opuscoli e articoli di riviste comparsi in Italia, s'è vista discutere cotesta denominazione di materialismo storico con uno strano ardore di sofisticheria verbalistica. C'è perfino chi ha scritto questa peregrina cosa, ed honoris causa diremo che è il prof. Asturaro, e che cioè la cosa sarebbe buona se il nome non la guastasse. Qualche altro si sarebbe perfino innamorato della teoria se per disgrazia non ne fossero stati divulgatori massimi i due grandi comunisti Marx ed Engels, che, naturalmente, non avevano né l'ordine dell'Aquila Rossa, né la commenda di S. Maurizio e Lazzaro. A simili critici, che troverebbero buona una teoria sopprimendo il nome degli autori, nessuno ha l'obbligo di seriamente rispondere. Capisco che la cosa avrebbe lo stesso valore anche sotto un altro nome, e che veramente la discussione cade su questo: se si sia o no trovato questo famoso filo conduttore di quelle condizioni materiali della vita umana, cambiando le quali, cambierebbe tutto il resto. Ma non è indifferente la difesa anche della denominazione, perché essa compendia quasi la origine storico-psicologica della dottrina. E' cosa risaputa che l'idealismo dialettico di Hegel ebbe come il suo risolvente negativo nel materialismo di Feuerbach. Ora il materialismo di Feuerbach, mentre negava il dato ideologico della dottrina hegeliana, mettendo l'uomo individuo di fronte alla natura, riduceva la religione alla semplice proiezione fantastica dei bisogni del singolo. Il materialismo di Feuerbach lasciava fuori del suo campo il mondo storico, come lo aveva lasciato fuori il materialismo del secolo XVIII, che rappresentava a capello le esigenze di quella grande Rivoluzione, la quale, in nome del diritto di natura, negava i diritti storici. Ora, quando Marx ed Engels cominciarono a criticare e Feuerbach e Stirner e la sinistra hegeliana, sotto la suggestione del movimento socialistico contemporaneo, trovarono che il materialismo tradizionale fino al Feuerbach non spiegava la storia, ed ecco come è nato il nome. Si può domandare se si è riusciti o no a fare del materialismo storico, ma non già pretendere che la dottrina sia vera ma il nome sbagliato. Chiarirò la cosa con un esempio. Quella psicologia generale schematica della quale, nell'altro mio corso, ho fatto il disegno, poggia principalmente sulla presunzione che i fenomeni psichici comincino e finiscano con la vita dell'individuo. Ora, data la ipotesi materialistica, si capisce come i sensisti fossero disposti a ritenere che tutti i fenomeni complicati psichici si dovessero spiegare coi dati primitivi della sensazione. Ma la nostra coscienza individuale contiene tanti elementi che non si spiegano senza la esistenza della società e della storia. Voi parlate non perché siete individui ma perché siete subietti sociali. E così dicasi del Diritto, della Religione e delle Idee morali che esistono in noi solo a traverso il tramite della storia e della società. Ora il materialismo biologico non mi spiega come siano nati i dogmi del cristianesimo, né come siano nate le forme grammaticali del neo-latino, né come esistano in genere le compagini sociali. Trovare le condizioni materiali del mondo storico sociale, questo è stato l'assunto del materialismo storico. Assunto parallelo e non derivato da ciò che li meri positivisti hanno chiamato sociologia; e qui voglio notare per incidente che io quando pronunzio la parola positivismo lo faccio sempre con grande apprensione, perché il positivismo, come si è elaborato da Saint-Simon a Littré, era essenzialmente storicismo, cioè tendenza a spiegare la storia, e invece in Italia tutti quelli che si chiamano positivisti, fatta eccezione di un solo, ossia dell'Angiulli, che in fondo veniva dalla scuola hegeliana, sono ricaduti nel materialismo innanzi Feuerbach, partono sempre dall'individuo e ricadono sempre nell'individuo e non afferrano perciò la morfologia storica; i nostri positivisti sono in generale al di sotto di Comte, il quale era tanto storicista da negare la possibilità di una psicologia individuale.
Antonio Labriola, Storia, filosofia della storia, sociologia e materialismo storico, in Tutti gli scritti filosofici, Bompiani, 2014, p. 1703 – 1704
Ora anche il nome di "materialismo storico" deve essere difeso negli ambienti culturali. Gli ambienti culturali riescono a cogliere il divenire della nuova cultura che interpreta la realtà e devono tentare di deviarne il corso delle trasformazioni. Così cominciano le obiezioni. Si comincia a denigrare le persone perché, incapaci di affrontare una teoria politica o economica, è più facile aggredire le persone. "Se il Materialismo Storico e Dialettico lo avesse definito Rosmini, sarebbe da prendere in considerazione, ma lo ha scritto Marx e, pertanto, non è da prendere in considerazione!". Esattamente come dice Gesù nei vangeli: "come potete parlar bene voi, malvagi come siete?". Ma il malvagio è Gesù che non è in grado di confrontarsi col "parlar bene" e così aggredisce le persone per dimostrare la sua pochezza.
Nel 1903 Antonio Labriola interviene sul dibattito relativo al divorzio attaccando il disegno di legge discusso in parlamento. Scrive a Benedetto Croce affermando che contro il pensiero scientifico sta rinascendo il cattolicesimo e lo spirito borghese che stanno inquinando le trasformazioni della storia in senso idealistico. Nel 1903 all’Università di Napoli Giovanni Gentile tiene una lezione su “La rinascita dell’idealismo”.
Il 02 febbraio 1904, dopo un intervento chirurgico alla gola, Antonio Labriola muore presso l’ospedale germanico di Roma.
Marghera, 13 luglio 2019
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Claudio Simeoni
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