Le biografie dei filosofi che partecipano alla partita di calcio
Marco Tulio Cicerone nasce nel 106 a. c. ad Arpino vicino a Roma. La famiglia di Cicerone era una famiglia benestante anche se non era una famiglia patrizia o plebea. Il padre era un "semi-invalido" e non potendo partecipare alla vita politica si era dedicato allo studio acquisendo una buona conoscenza letteraria. Della madre di Cicerone, Helvia, si sa poco o nulla anche se sembra aderisse al modello romano di "donna della casa".
Il padre spinse Marco Tulio a studiare sia il greco che il latino. Ebbe come insegnanti il poeta greco Aulo Licino Archia e il retorico Apollonio Molone che incontrerà in seguito a Rodi per perfezionare la sua arte retorica.
Nell'85 a.c. Filone di Larissa, allora a capo dell'Accademia di Atene, arrivò a Roma e Cicerone ne seguì le lezioni. Filone di Larissa fu l'ultimo scolarca dell'Accademia di Atene. Filone di Larissa iniziò ad abbandonare l'orientamento "scettico" dell'Accademia per costruire un sincretismo con gli stoici e riprendere tesi di Platone. Dopo Filone di Larissa l'accademia di Atene cessò di esistere e alcune accademie furono fondate ad Alessandria d'Egitto. Con Filone la storia dell'Accademia cambia. L'ultimo scetticismo di Filone di Larissa fu una degenerazione razionalistico-retorica dello scetticismo di Pirrone. Pirrone con Anassarco aveva seguito Alessandro Magno nella spedizione in India e imparò lo scetticismo dalla via alla conoscenza dei Gimnosofisti. La pratica della sospensione del giudizio rispetto alla percezione divenne l'elemento con cui costruire un nuovo atteggiamento soggettivo davanti al mondo che fu chiamato "scetticismo". Lo scetticismo di Pirrone serviva per sospendere il giudizio nei confronti della percezione e costringere il soggetto ad indagare sia sulla sua percezione che sull'oggetto percepito.
Nel tardo periodo lo scetticismo era diventato un sistema in grado con cui mettere in discussione ogni opinione fondendosi sia con la retorica sofistica, sia con i deliri immaginifici di Platone. Lo scetticismo perse il carattere di mezzo per conoscere e divenne uno strumento del retorico con cui mettere in discussione ogni opinione dell'avversario. Una prova di questo la dette Carneade a Roma quando con un discorso esaltò la giustizia come modo di relazionarsi fra gli uomini e il giorno dopo denigrò la giustizia come mezzo per creare ingiustizia.
L'arte dell'inganno è ciò che Filone di Larissa insegnò a Cicerone, una tecnica per avere ragione sui suoi possibili avversari.
Cosa fece Cicerone fino a 27 anni? Politicamente fu coinvolto nella guerra fra Mario e Silla? E da che parte stava Cicerone?
Fra il 90-88 a. c., Cicerone aiutò sia Pompeo Strabone che Lucio Cornelio Silla durante le guerre civili in Italia contro Mario prima e contro i generali democratici poi. Nell'80 Cicerone era una sorta di beniamino dei democratici e per questo nel 79 a.c., per paura delle ritorsioni di Silla (tornò dalla Grecia e a Roma fece macellare tutti i suoi avversari politici) partì per la Grecia. Silla morirà nel 79 a. c.
In Grecia Cicerone non rimase molto, tornò a Roma nel 78 a. c. dopo essere passato a Rodi da Apollonio Morone che affinò ulteriormente la sua arte oratoria.
Cicerone sposò Terenzia dalla quale ebbe due figli, Tullia e Marco. Terentia era della famiglia dei Terento una ricca famiglia nobile Plebea. La sposò sicuramente solo per il denaro che gli serviva per le sua ambizioni sociali e politiche. Con Terenzia divorzierà dopo circa trenta anni nel 51 a. c. A Cicerone il divorzio costa caro in quanto deve rifondere la dote a Terentia e per questo, qualche anno dopo, Cicerone sposa Publilia una ragazzina molto ricca che era stata una sua allieva. Ragazzina molto ricca e con i cui proventi della sua dote risarcisce Terentia. Questo matrimonio non durerà a lungo.
Nell'80 Cicerone difese in tribunale Roscio Amerino accusato di parricidio. L'arringa di Cicerone mirò ad aggredire gli accusatori, a dimostrare che l'accusato non aveva interesse ad ammazzare il padre e che gli accusatori erano persone dedite al crimine. Cicerone accusò Lucio Cornelio Crisogono, che aveva accusato Roscio Armerino, di aver ucciso il padre e di essere un corrotto. E' interessante constatare come questo meccanismo, messo in atto da Cicerone è uno dei principi fondamentali su cui sono costruiti i vangeli cristiani:
"O voi ammettete che l'albero è buono e allora sarà buono anche il frutto, o ammettete che l'albero è cattivo e allora sarà cattivo anche il frutto, perché dal frutto si riconosce l'albero. Razza di vipere, come potete parlare bene voi, cattivi come siete? Poiché la bocca parla per la sovrabbondanza del cuore.
Vangelo di Matteo 12, 33 – 34
E' il senso della retorica ciceroniana, appresa dagli stoici e dai retorici, che ha il solo scopo di sconfiggere un avversario gettando discredito. L'abilità del retorico consiste nello screditare al meglio chi si vuole distruggere.
Nel 75 Cicerone diventa "questore" un tirocinante in carriera nella pubblica amministrazione. Fu mandato nella Sicilia occidentale dove dimostrò le proprie capacità nell'amministrazione della cosa pubblica. Per questo i siciliani chiesero a Cicerone di essere l'accusatore nel procedimento penale contro Gaio Licinio Verre già governatore della Sicilia e responsabile di numerosi saccheggi. Verre venne condannato ma era già partito per l'esilio e venne assassinato a Marsiglia.
Questa vittoria forense fece aumentare il prestigio di cui Cicerone godeva. La carriera politica di Cicerone fu rapida: nel 75 a. c., a 31 anni, divenne questore; fu eletto edile nel 69 a. c., a 37 anni; divenne pretore nel 66 a.c., a 40 anni; fu nominato presidente della corte "Reclamation" (o estorsione). Cicerone fu eletto console all'età di 43 anni.
Nel 63 Cicerone, eletto console, si scontrò con Catilina. Cicerone fu arruolato nel partito degli " Optimates" il partito di nobili aristocratici che stava assieme solo per la gestione del potere mediante vere e proprie reti di interesse mafioso con cui garantirsi i privilegi. A questa organizzazione aderirono Lucio Cornelio Silla, Marco Licinio Crasso, Marco Porcio Catone detto Il Censore e Catone Uticense, Marco Tullio Cicerone, Tito Annio Milone, Marco Giunio Bruto e, a parte il periodo del Triumvirato, Gneo Pompeo.
Agli "Optimates" si opponeva il partito dei "Populares" che era organizzato per difendere i diritti della Plebe e dei cittadini romani contro i soprusi degli "Optimates". Il momento più cupo fu il genocidio dei "Populares" perpetrato da Silla tornato dalla Grecia. Silla limitò il potere dei Tribuni della Plebe e il potere delle assemblee popolari mentre aumentò il potere del Senato, degli "Optimates", raddoppiandone i membri e aumentando i loro privilegi.
In questo scontro fra "Optimali" e "Populares" si inquadra lo scontro fra Cicerone e Catilina a capo dei Populares.
In questa biografia non parlerò molto di Catilina se non per sottolineare l'attività di aggressione e di diffamazione messa in atto da Cicerone come capo di un'oligarchia che impediva ogni allargamento alla popolazione dei diritti di cui godevano gli aristocratici.
E' importante capire come la retorica Ciceroniana fu usata per diffamare perché quel tipo di retorica sarà fatta propria dal cristianesimo. Cicerone con il partito degli oligarchi, è il padrone di Roma. Nel 63 Cicerone è eletto console dagli oligarchi che detengono il potere a Roma, contro Catilina. Cicerone difese e fece assolvere Gaio Rabirio (130 a. c. 60 a.c.) responsabile dell'assassinio di Saturnino che aveva denunciato la corruzione messa in atto da Mitridate (re del Ponto e in guerra con Roma) per comperarsi i senatori e avere disposizioni favorevoli alla sua politica di espansione. Saturnino, inoltre, fece approvare una legge agraria che redistribuiva le terre dei Cimbri appena sconfitti da Mario. Nella legge Saturnino fece inserire una norma che impegnava i senatori ad applicare la legge, pena l'espulsione dal Senato, entro cinque giorni dalla promulgazione. Aveva fatto approvare anche una legge per il contenimento del prezzo del grano.
Saturnino era in odio al partito oligarchico degli "Optimali" che aveva assoldato Cicerone per combattere i "Populares".
La retorica di Cicerone è finalizzata alla diffamazione pertanto Cicerone non è una fonte attendibile per quanto riguarda i fatti storici. Sta di fatto che Gaio Rabirio aveva dichiarato egli stesso di aver ammazzato Saturnino e per questo era sotto processo. Questo è l'unico fatto reale, quelle di Cicerone sono illazioni dal contenuto diffamatorio contro Saturnino finalizzate ad alimentare un linciaggio, ma prive di contenuto sostanziale. Appunto: retorica!
Cicerone è chiamato dagli oligarchi per opporsi a Catilina. Dopo che gli oligarchi hanno tentato di fermare Catilina istruendo processi fasulli nei quali Catilina viene assolto, nel 64, per fermare Catilina, che era estremamente popolare a Roma, gli oligarchi arruolano Cicerone. Cicerone è "Homo novus", un individuo che non discende da una famiglia gentilizia, e come tale è uomo in vendita.
Cicerone fin da quando è "candidato" alla carica di console inizia l'attività di diffamazione nei confronti di Catilina. Incapace di opporre argomenti politici, usa la sua retorica per diffamare Catilina. Nell'arte della retorica la diffamazione non è mai circoscritta in sé stessa, ma è l'atto preliminare per giustificare l'omicidio e il genocidio.
Scrive Cicerone nella prima dissertazione contro Catilina:
7 Ricordi? Il 21 ottobre ho dichiarato in Senato che in un giorno ben preciso, cioè il 27 ottobre, Caio Manlio, tuo complice e collaboratore in questa pazzia, avrebbe dato inizio alla rivolta armata. Mi sono forse sbagliato, Catilina, non dico su un'azione di tali proporzioni, così atroce e incredibile, ma, cosa molto più sorprendente, sulla sua data? Sono stato sempre io a denunciare in Senato che avevi stabilito di massacrare gli aristocratici il 28 ottobre, giorno in cui molti dei principali cittadini sono fuggiti da Roma non per cercare scampo, ma per fermare i tuoi piani. Puoi forse negare che proprio quel giorno, bloccato dalle mie misure difensive, non hai potuto attentare allo Stato? E quel giorno non dicevi che ti saresti accontentato di uccidere me, che ero rimasto, mentre tutti gli altri erano partiti? 8 E quando eri convinto di occupare Preneste di notte, con un colpo di mano, il 10 novembre, non ti sei accorto che, su mio ordine, quella colonia aveva ricevuto i rinforzi della mia guarnigione, delle mie guardie, delle mie sentinelle? Nulla di quanto fai, ordisci, mediti, sfugge alle mie orecchie e ai miei occhi, tanto meno alla mia mente. Rievochiamo insieme i fatti dell'altra notte: capirai subito che sono più risoluto io nel vegliare sulla sicurezza dello Stato che tu sulla sua rovina. Denuncio che l'altra notte ti sei recato in via dei Falcarii (non lascerò nulla nell' ombra) in casa di Marco Leca, dove si erano riuniti molti complici della tua pazzia, della tua scelleratezza." Osi negarlo? Perché taci? Te lo dimostrerò, se neghi. Vedo, infatti, che sono qui in Senato alcuni uomini che erano con te. 9 O dèi immortali! In che parte del mondo ci troviamo? Che governo è il nostro? In che città viviamo? Qui, sono qui in mezzo a noi, padri coscritti, in questa assemblea che è la più sacra, la più autorevole della terra, individui che meditano la morte di tutti noi, la fine di questa città o piuttosto del mondo intero. Io, il console, li vedo e chiedo il loro parere su questioni politiche: uomini che bisognava fare a pezzi con la spada, non li ferisco nemmeno con la parola. Così, Catilina, sei stato da Leca, quella notte. Hai diviso l'Italia tra i tuoi; hai stabilito la destinazione di ciascuno; hai scelto chi lasciare a Roma e chi condurre con te; hai fissato quali quartieri della città dovevate incendiare; hai confermato la tua partenza imminente; hai detto che avresti aspettato ancora un po' perché ero vivo. Sono stati trovati due cavalieri disposti a liberarti di questa incombenza e a prometterti di uccidermi nel mio letto, quella notte stessa, poco prima dell'alba. 10 Ho saputo tutto non appena avete sciolto la riunione. Allora ho protetto, difeso casa mia con misure più efficaci; non ho fatto entrare chi, al mattino, avevi inviato a salutarmi avevo del resto preannunciato a molti autorevoli cittadini che, per quell'ora, costoro si sarebbero recati da me. Se le cose stanno così, Catilina, porta a termine quanto hai cominciato! Lascia una buona volta la città! Le porte sono aperte. Vattene! L'accampamento di Manlio, il tuo accampamento, da troppo tempo aspetta te, suo generale. Porta via anche tutti i tuoi; se non tutti, quanti più puoi. Purifica la città! Mi libererai da una grande paura quando ci sarà un muro tra me e te. Non puoi più stare in mezzo a noi! Non intendo sopportarlo, tollerarlo, permetterlo. 11 Dobbiamo grande riconoscenza agli dèi immortali e a Giove Statore, antichissimo custode della nostra città, per essere sfuggiti ormai molte volte a un flagello" così spaventoso, orribile, abominevole per lo Stato. Un solo individuo non dovrà più metterne a repentaglio 1'esistenza. Finché, Catilina, hai attentato alla mia vita, quando ero console designato, mi sono difeso ricorrendo a misure private, non alla forza pubblica. Quando poi, in occasione degli ultimi comizi consolari, in pieno Campo Marzio hai cercato di uccidere me, il console, e i tuoi competitori, ho sventato i tuoi tentativi criminali con la protezione e la forza di amici, senza suscitare disordini pubblici. Infine, tutte le volte che hai sferrato un colpo contro di me, l'ho parato con le mie forze: eppure vedevo che la mia fine avrebbe comportato una grave calamità per lo Stato. 12 Ma ormai attacchi apertamente tutto lo Stato; vuoi portare alla totale distruzione i templi degli dèi immortali, gli edifici di Roma, la vita di tutti i cittadini, l'Italia intera. Perciò, dal momento che non oso ancora fare quel che sarebbe urgente e rientrerebbe nei poteri della mia carica e nella tradizione degli antenati, prenderò un provvedimento meno severo, ma più utile alla sicurezza comune. Se infatti ti condannerò a morte, rimarrà nello Stato il gruppo dei congiurati. Ma se tu, come ti esorto da tempo, te ne andrai, la città si libererà dei tuoi numerosi e infami complici, fogna dello Stato. 13 E allora, Catilina? Esiti a fare su mio ordine quel che stavi per fare di tua volontà? Il console ingiunge al nemico di lasciare la città. «E' esilio», mi chiedi? No, non te lo posso ordinare, ma, se vuoi il mio parere, te lo suggerisco. Del resto, Catilina, cosa può ancora piacerti in questa città, dove non c'è nessuno che non ti tema, nessuno che non ti detesti, tranne gli uomini perduti che aderiscono alla tua congiura? Quale marchio di degradazione morale non è impresso a fuoco sulla tua vita? Quali scandali privati non si legano al tuo nome? Quale oscenità si è mai tenuta lontana dai tuoi occhi, quale delitto dalle tue mani, quale indecenza dal tuo corpo? C'è giovane, da te irretito nei piaceri della depravazione, a cui tu non abbia consegnato il pugnale dell'omicidio o la fiaccola di amori perversi? 14 E ancora: poco tempo fa, quando ti sei sbarazzato della tua prima moglie per poterti risposare, non hai forse aggiunto a questo un secondo inconcepibile delitto? Non intendo soffermarmi; preferisco tacere perché non sembri che nella nostra città è stato commesso un crimine tanto immane ed è rimasto impunito. Non intendo parlare del tuo dissesto finanziario, che sentirai pesarti addosso alla prossima scadenza dei debiti. Vengo piuttosto a fatti che non riguardano i vergognosi vizi della tua vita privata, né le tue difficoltà economiche, né la tua immoralità, ma gli interessi superiori dello Stato, la vita e la sicurezza di tutti noi. 15 Come puoi apprezzare, Catilina, la luce o 1'aria di questo cielo quando sai che nessuno dei presenti ignora che il 31 dicembre dell' anno del consolato di Lepido e Tullo ti sei presentato armato nel comizio, che avevi predisposto un gran numero di uomini per uccidere i consoli e i maggiori esponenti della città e che alla tua folle impresa non si è opposto un tuo ripensamento o una tua paura, ma la Fortuna del popolo romano? Ebbene, sorvolo anche su questi fatti: non sono ignoti e in seguito ne hai commessi molti altri. Quante volte hai attentato alla mia vita quando ero console designato! Quante volte quando ero entrato in carica! A quanti attacchi sono sfuggito con un leggero scarto del corpo, come si dice, ed erano diretti in modo da sembrare infallibili! Non concludi nulla, non ottieni nulla, eppure non desisti dal tentare e dal volere. 16 Quante volte ormai questo pugnale ti è stato strappato dalle mani! Quante volte, per caso, ti è caduto, ti è scivolato a terra! [ma non te ne stacchi neppure un rnomento] A quali misteri tu lo abbia consacrato e dedicato io non so, dal momento che ritieni inevitabile piantarlo nel corpo del console. Dimmi: che vita è adesso la tua? Ti parlerò, ormai, non come se fossi mosso dall'odio, eppure dovrei, ma da una compassione di cui non sei affatto degno. Poco fai sei venuto in Senato. In un'assemblea così affollata, tra tanti amici e conoscenti, chi ti ha salutato? Se, a memoria d'uomo, nessuno è stato mai trattato così, ti aspetti forse parole di ingiuria quando già sei schiacciato dal durissimo giudizio del si1enzio? Che dire di più? Al tuo arrivo questi seggi si sono svuotati. Non appena hai preso posto, tutti gli ex consoli, che tu hai condannato a morte tante volte, hanno lasciato vuoto, deserto questo settore dei banchi. Insomma, con che animo pensi di sopportare? 17 Se, ai miei servi, incutessi tanta paura quanta tu ne incuti alla cittadinanza intera, riterrei inevitabile lasciare la mia casa. E tu non pensi di dover lasciare la città? Se poi mi accorgessi di essere, anche a torto, gravemente sospettato e disprezzato dai miei concittadini, preferirei sottrarmi alla loro vista piuttosto che essere oggetto di sguardi di disapprovazione. Tu, invece, che sei consapevole dei tuoi crimini e riconosci che l'odio di tutti è giusto e meritato da tempo, esiti a sottrarti alla vista, alla presenza di chi ferisci nella mente e nel cuore? Se i tuoi genitori provassero paura di te e ti odiassero, se tu non potessi in alcun modo riconciliarti con loro, scompariresti dalla loro vista, immagino. Ora a odiarti e ad aver paura di te è la patria, madre comune di tutti noi, e già da tempo ritiene che tu non mediti altro che la sua morte. E tu non rispetterai la sua autorità, non seguirai il suo giudizio, non avrai paura della sua forza? 18 Catilina! La patria ti si presenta innanzi e, senza bisogno di parole, ti dice: «Da anni, ormai, non c'è delitto che non sia stato commesso se non da te, non c'è scandalo senza di te. Per te soltanto il massacro di molti cittadini, per te ruberie e soprusi a danno degli alleati sono state azioni libere e impunite. Tu non solo sei stato capace di trasgredire alla legge e alla giustizia, ma addirittura di sovvertirle, di annientarle. Sono cose del passato. Benché non fossero tollerabili, tuttavia le ho sopportate, come ho potuto. Ora, però, che io sia completamente terrorizzata solo a causa tua, che si tema Catilina al minimo rumore, che si abbia l'impressione che qualsiasi complotto contro di me non sia alieno dalla tua mente criminale, ebbene non intendo sopportarlo! Perciò vattene e liberami da questa paura, perché non ne sia schiacciata, se è vera, o smetta di temere, se è infondata!».
Cicerone, Contro Catilina, Garzanti, 1996, p. 7 – 15
Si tratta di un lungo monologo farneticante che ha al suo centro l'attacco alla persona di Catilina. Cicerone non contesta le istanze popolari di Catilina, non è in grado di farlo, per questo aggredisce Catilina accusandolo di voler distruggere lo Stato Romano di cui Cicerone, in quanto oligarca, si ritiene un padrone nei confronti dei cittadini romani. E' Catilina che ha molto da rimproverare a Cicerone e agli aristocratici che intentavano processi pretestuosi contro di lui per impedirgli di essere eletto nelle cariche politiche. Sono gli oligarchi e Cicerone che non rispettano le leggi e attentano allo Stato di Roma.
L'odio di Cicerone non va letto in funzione della difesa dello Stato, ma nel tentativo di annientare un concorrente che non è in grado di affrontare, ma solo di diffamare per incitare al linciaggio.
Diffamare Catilina davanti al Senato e costruire un proprio eroismo basato sul nulla.
Diverso è se avesse portato prove di assassini fatti da Catilina davanti al senato. Ma non ne ha portati, ha solo affermato e l'affermazione è di per sé un'ingiuria aggravata dal ruolo Istituzionale che Cicerone occupa e che ha usato per gli interessi dell'oligarchia contro i diritti dei cittadini romani.
La domanda che deve essere posta è questa: cosa ha fatto Cicerone per il benessere di Roma? Cosa ha proposto a parte una guerra feroce contro i Populares per impedire il benessere della città?
Catilina è il male che giustifica sia l'inefficienza del Senato Romano che il potere assoluto esercitato dall'oligarchia massicciamente presente in Senato. Un potere assoluto che ha bisogno di trovare un mostro con cui giustificare provvedimenti emergenziali e violazione di ogni legge.
L'uso mafioso della legge è un motivo ricorrente delle oligarchie ciceroniane come nelle oligarchie di oggi. Le leggi non proteggono i cittadini, ma sono uno strumento delle oligarchie con cui reprimere le istanze sociali dei cittadini e quando la legge vieterebbe alcune azioni di prevaricazione contro i cittadini la legge cessa di essere applicata. Pompeo, un Optimale, dichiara: "Ma che invocate la legge quando io ho la spada!".
E' un motivo acquisito in toto dal cristianesimo in cui la legge garantisce l'impunità di Dio per i suoi delitti ma viene ignorata quando riguarda le persone contro gli interessi di Dio. Infatti, troviamo nella bibbia le stesse dichiarazioni del Dio degli ebrei e dei cristiani nei confronti degli uomini che Dio vuole macellare col diluvio universale o nella città di Sodoma e Gomorra.
Il metodo usato da Cicerone contro Catilina è lo stesso metodo usato dal Dio degli ebrei e dei cristiani per ammazzare gli uomini. Appare evidente che il malvagio non è Catilina, ma Cicerone come nella bibbia dei cristiani i malvagi non sono gli uomini, ma il Dio degli ebrei e dei cristiani.
Scrive Cicerone nella seconda orazione contro Catilina:
1 Finalmente, Quiriti, Lucio Catilina, pazzo nella sua audacia, ansante nel suo crimine, empiamente teso a ordire la rovina della patria, a minacciare col ferro e col fuoco voi e questa città, lo abbiamo cacciato da Roma, o, se volete, lo abbiamo lasciato partire, o, meglio ancora, lo abbiamo accompagnato alla partenza con i nostri saluti. E' andato, partito, fuggito, sparito. Quell' essere spaventoso non provocherà più alcuna catastrofe dentro le mura contro le stesse mura! Lui, il solo capo della guerra civile, lo abbiamo vinto: non ci sono dubbi. Il suo pugnale non ci insidierà più al fianco. Nel Campo Marzio, nel Foro, nella Curia, tra le pareti domestiche non saremo più in preda al terrore. Cacciandolo dalla città, gli abbiamo fatto perdere la sua posizione. Apertamente, ormai, combatteremo contro il nemico una guerra regolare: nessuno ce lo impedirà. E' in discutibile che lo abbiamo annientato con una vittoria strepitosa, costringendolo a uscire da trame occulte e a portare allo scoperto la sua azione di bandito. 2 Non ha levato in alto una spada lorda di sangue, come voleva. Se n'è andato e noi siamo vivi. Gli abbiamo strappato il ferro dalle mani. Ha lasciato incolumi i cittadini e in piedi la città. Vi rendete conto di come sia abbattuto, prostrato da questa delusione? Ora è a terra vinto, Quiriti, si sente colpito e annientato e di certo volge spesso gli occhi a questa città che gli è stata strappata dalle fauci e se ne dispera. Ma la città mi sembra lieta di aver vomitato un male così grande, di averlo espulso da sé. 3 Se, poi, a proposito del motivo per cui le mie parole esultano e trionfano, qualcuno, spinto da sentimenti che dovrebbero essere unanimi, mi accusasse duramente di non aver fatto arrestare un nemico così mortale, ma di averlo lasciato partire, gli risponderei che la responsabilità non è mia, Quiriti, ma delle circostanze. Da tempo si doveva eliminare Lucio Catilina, condannarlo alla pena capitale: me lo chiedevano la tradizione avita, l'autorità dei miei poteri e l'interesse dello Stato. Ma quanti non avrebbero creduto ai fatti che denunciavo? Provate a pensarlo! Quanti li avrebbero persino giustificati? [Quanti li avrebbero sottovalutati per stoltezza?] [Quanti li avrebbero favoriti per disonestà?] Ma se, eliminato lui, mi fossi convinto di stornare da voi ogni pericolo, da tempo avrei ucciso Lucio Catilina non solo a rischio di suscitare la vostra disapprovazione, ma anche a rischio della mia vita. 4 Mi rendevo conto, però, che se lo avessi condannato a morte, come meritava, quando neppure per tutti voi il fatto era provato, non avrei potuto perseguire i suoi complici sotto il peso dell'impopolarità. Allora ho agito in modo che voi poteste combatterlo apertamente, perché vi era chiaro chi fosse il nemico. E quanto io ritenga temibile un nemico che non è più qui, potete capirlo, Quiriti, dal dispiacere che provo nel constatare che è partito dalla città con pochi uomini. Magari avesse portato con sé tutte le forze! Invece mi ha portato via Tongilio, che indossava ancora la pretesta quando si invaghì di lui, Publicio e Minucio, indebitati a tal punto nelle bettole da non poter scatenare nessuna rivoluzione! Che uomini ha lasciato! Con che debiti! Che nomi autorevoli e illustri! 5 E così, se confronto il suo esercito con le nostre legioni stanziate in Gallia, con gli uomini arruolati da Quinto Metelllo nel Piceno e in Gallia, con le truppe che addestriamo ogni giorno, non nutro che profondo disprezzo per quell' accozzaglia di vecchi disperati, di spacconi di campagna, di falliti di provincia, di gente che ha preferito disertare il tribunale per debiti piuttosto che un simile esercito. Basterà che li metta di fronte non dico ai nostri soldati, ma all'editto del pretore, e crolleranno tutti. Questi qui, invece, che vedo aggirarsi nel Foro, stare davanti alla Curia o addirittura presentarsi in Senato, che brillano di unguenti e sono smaglianti nella loro porpora, avrei preferito che se li fosse portati dietro come soldati. Se rimangono qui, ricordatevelo, questi che hanno disertato 1'esercito saranno ben più temibili dell'esercito stesso di Catilina! E bisogna temerli in misura maggiore perché non ignorano che io sono a conoscenza dei loro complotti, ma restano imperturbabili. 6 So a chi è stata assegnata la Puglia, chi controlla 1'Etruria, chi il Piceno, chi la Gallia, chi ha richiesto per sé 1'organizzazione degli attentati in città, cioè stragi e incendi. Sanno che mi sono stati riferiti tutti i loro programmi dell'altra notte: li ho denunciati in Senato, ieri. Persino Catilina è stato preso dal panico, è fuggito. E loro, che cosa aspettano? Sbagliano davvero se si illudono che l'indulgenza che ho mostrato in passato sia eterna! Quel che mi ero proposto, ormai l'ho conseguito: avete perfettamente chiaro che è stata organizzata una congiura contro lo Stato. O qualcuno ritiene che gli amici di Catilina nutrano altri propositi? Ormai non c'è più posto per l'indulgenza! E' la situazione a richiedere fermezza. Farò solo una concessione: se ne vadano, partano, non lascino che, Catilina si strugga nella loro mancanza! Mostrerò la strada. E partito per la via Aurelia; se si sbrigano, lo raggiungeranno verso sera. 7 Che fortuna per lo Stato, se si libererà da questa fogna! Gli è bastato ripulirsi solo di Catilina e mi sembra abbia acquistato serenità, fiducia. Quale delitto, quale crimine è possibile pensare, immaginare che Catilina non abbia compiuto? C'è, in tutt'Italia, avvelenatore, assassino, bandito, sicario, omicida, falsificatore di testamenti, truffatore, dissoluto, scialacquatore, adultero, prostituta, corruttore della gioventù, corrotto, vizioso che non ammetta di essere stato intimo amico di Catilina? Quale assassinio, in questi anni, è stato compiuto senza di lui? Quale nefanda violenza se non per mano sua? 8 Chi mai ha esercitato un simile potere di seduzione sulla gioventù? Amava gli uni nel modo più turpe, serviva gli altri in ignominiosi desideri, prometteva agli uni il frutto delle passioni, agli altri la morte dei genitori: lo faceva non solo con la promessa, ma anche con 1'aiuto materiale. E adesso, con che rapidità è riuscito a raccogliere un gran numero di disperati dalla città e addirittura dalla campagna! Chiunque fosse oberato di debiti, a Roma come in ogni angolo d'Italia, lui lo ha fatto entrare in questa inaudita congrega di criminali. 9 E perché possiate farvi un'idea della sua versatilità in campi diversi, nelle palestre non c'è gladiatore un po' più temerario nell'azione che non confessi di essere amico di Catilina; sulla scena, non c'è attore un po' più infido e depravato che non affermi di essere quasi un suo compagno. E lui, abituato dalla pratica di violenze e crimini a sopportare freddo, fame, sete e veglie, si è conquistato la fama di duro proprio tra questi individui, consumando le risorse della sua intraprendenza e le sue forze interiori nel sesso e nel delitto. 10 Se i suoi complici lo avessero seguito, se le infami schiere di questi disperati avessero lasciato Roma, che gioia per noi, che fortuna per lo Stato e che magnifica gloria per il mio consolato! Le loro passioni, infatti, superano ormai la misura. La lo- ro sfrontatezza non è umana, non è sopportabile. Stragi, incendi o rapine sono il loro unico pensiero. Hanno sperperato patrimoni, hanno ipotecato beni; da tempo hanno perso le sostanze, ora iniziano a perdere il credito; ma rimane in loro quella smania di godere che avevano nell'abbondanza. Se nel vino e nel gioco non cercassero che baldorie e prostitute, sarebbero dei casi disperati, eppure sopportabili. Ma chi potrebbe sopportare che degli inetti complottino contro gli uomini più validi, i più stupidi contro i più savi, gli ubriachi contro i sobri, gli storditi contro gli svegli? Individui che bivaccano nei conviti, che stanno allacciati a donne svergognate, che illanguidiscono nel vino, pieni di cibo, incoronati di serti, cosparsi di unguenti, debilitati dalla copula, vomitano a parole che bisogna far strage dei cittadini onesti e incendiare la città. 11 Sono sicuro che sul loro capo incombe un funesto destino e che sia imminente o per lo meno si stia avvicinando quel castigo che da tempo hanno meritato per la loro disonestà, dissolutezza, delinquenza e depravazione. Se il mio consolato, dal momento che non può farli ravvedere, li eliminerà, prolungherà la vita dello Stato non di qualche giorno, ma di molti secoli. Non c'è infatti nazione che temiamo, non c'è re che sia in grado di muovere guerra al popolo romano; all'estero tutto è in pace, per terra e per mare, grazie al valore di un solo uomo. Rimane la guerra civile: è all'interno che stanno i complotti, è all'interno, nel profondo, che sta il pericolo; è all'interno che sta il nemico. Bisogna combattere contro il vizio, contro la follia, contro il delitto. è questa guerra, Quiriti, che mi impegno a condurre, esponendomi all'odio di uomini perduti; risanerò in qualunque modo quel che potrà essere risanato; non permetterò che rimanga a danno della comunità quel che va reciso di netto. Perciò, se ne vadano oppure se ne stiano tranquilli, o, se rimangono in città e non mutano proposito, si aspettino quel che si meritano! 12 Ma c'è anche chi sostiene, Quiriti, che sono stato io a mandare in esilio Catilina. Se potessi ottenere un simile risultato con la parola, manderei in esilio proprio chi avanza simili insinuazioni. Un uomo così timoroso, così pieno di moderazione come Catilina non ha saputo sopportare la voce del console! Non appena gli è stato ordinato di andare in esilio, ha obbedito. Ma ascoltate: ieri, dopo aver rischiato la vita in casa mia, ho convocato il Senato nel tempio di Giove Statore e ho illustrato tutta la situazione ai senatori. Quando Catilina si è presentato, quale senatore gli ha rivolto la parola? Chi lo ha salutato? Chi non lo ha guardato come si guarda un cittadino corrotto, che dico, il peggior nemico? Non solo: i principali esponenti dell'ordine senatorio hanno lasciato completamente sgombro il settore dei seggi a cui lui si era avvicinato. 13 Allora io, il console famoso per la sua veemenza, io che con una parola esilio i cittadini, ho chiesto a Catilina se avesse partecipato alla riunione notturna in casa di Marco Leca o no. Poiché lui, che non ha eguali per sfrontatezza, ma era colpevole di fronte a se stesso, dapprima taceva, ho reso pubblico tutto il resto; ho denunciato che cosa avesse fatto quella notte, cosa avesse stabilito per la notte seguente, come avesse programmato tutta la guerra. Lui esitava, era confuso: allora gli ho chiesto perché non si decideva a raggiungere il luogo dove già da tempo aveva stabilito di recarsi, dove, come sapevo, si era fatto precedere da armi, scuri, fasci consolari, trombe, insegne militari e quell' aquila d'argento cui aveva dedicato un sacello in casa sua.
Cicerone, Contro Catilina, Garzanti, 1996, p. 27 – 35
Le affermazioni di Cicerone sono affermazioni vuote, prive di uno straccio di prova e spesso, nella veemenza dell'accusa, contraddittorie.
Catilina viene accusato di molti reati dopo il ritorno con Silla dalla guerra contro Mitridate. Silla a Roma fa strage dei Populares e questa strage viene presa a pretesto per accusare Catilina, ma nei processi subiti Catilina viene sempre assolto.
Morto Silla, il clima politico sta cambiando e in questa situazione Catilina ottiene i primi successi politici. Diventa Questore nel 78 e inviato in Macedonia nel 74. Diventa Edile nel 70, pretore nel 68 e nel 67 diventa governatore dell'Africa.
Nel 66 Catilina si candida alla carica di Console, ma contro Catilina viene intentato un processo per corruzione e abuso di potere. Catilina viene assolto nel procedimento penale ma di fatto questo impedisce l'elezione. Inoltre, sempre nel 66, viene imputato in un altro processo, ma nel 65 viene assolto quando lo stesso Cicerone era propenso a difenderlo in tribunale.
Catilina si presenta per la carica di Console nel 64. Catilina si era già spostato col partito dei "Populares" e la sua popolarità stava crescendo rapidamente. L'oligarchia senatoriale arruola Cicerone fra gli "Optimates" per opporlo a Catilina. Cicerone inizia a dipingere Catilina come un assassino, un depravato, un fallito e un incestuoso. Cicerone ricorre alla diffamazione l'unico modo che ha per opporsi alle richieste di maggiori diritti delle classi popolari rappresentate da Catilina.
Gli "Optimates" mobilitano le loro ricche risorse e comprano l'elezione a Cicerone.
Catilina si ricandida nel 62 a. c. dopo essersi procurato l'appoggio della plebe romana e dei veterani di guerra che erano stati ignorati dal senato. Fra le altre cose propone un editto per la remissione dei debiti (la stessa misura con cui Solone salvò la città di Atene) che mise in allarme le oligarchie della speculazione finanziaria di Roma.
Cicerone accusa Catilina di "ferocia, nel suo sguardo il delitto, nelle sue parole la tracotanza come se avesse già agguantato il consolato". Per capire l'attività di diffamazione di Cicerone leggiamo anche l'inizio della terza orazione contro Catilina di Cicerone.
Scrive Cicerone:
1 E' lo Stato, Quiriti, è la vita di voi tutti, sono i beni, le proprietà, le vostre mogli e i vostri figli, è la capitale di un impero al culmine della gloria, è Roma, città che gode della massima fortuna e prosperità, è tutto questo che, oggi, vedete strappato al fuoco e al ferro quasi alle fauci di un destino funesto: che vedete salvo e a voi restituito grazie alla suprema benevolenza che gli dèi immortali vi concedono e grazie ai miei sforzi, alle mie iniziative, ai pericoli che ho affrontato. 2 E se il giorno in cui abbiamo salva la vita non ci è meno caro e prezioso del giorno in cui nasciamo, perché è certa la gioia della salvezza, ma incerta la condizione del nascere, e perché nasciamo senza averne consapevolezza, ma ci salviamo con soddisfazione, dal momento che, per riconoscenza, abbiamo elevato al rango degli dèi immortali il fondatore di questa città, sarà doveroso, per voi e i vostri posteri, onorare chi ha salvato questa stessa città, una città che è cresciuta dai tempi della sua fondazione. Avevano quasi ormai appiccato i fuochi tutt'intorno a Roma, nei templi, nei santuari, nelle case, alle mura: li abbiamo spenti. Avevano sguainato le spade contro lo Stato: le abbiamo respinte. Avevano puntato i pugnali alla vostra gola: li abbiamo abbattuti. 3 lo ho scoperto, messo in luce, illustrato ogni cosa in Senato. Ora, non mi resta che esporvi brevemente i fatti: voi, che ne siete all'oscuro e desiderate esserne informati, potrete così valutarne l'entità, l'evidenza e in che modo siano stati investigati e controllati. Per prima cosa, non appena Catilina, pochi giorni fa, è sparito lasciando a Roma i complici della sua azione criminale, i capi più feroci di questa guerra nefasta, io, Quiriti, ho sempre vigilato e provveduto alla nostra salvezza, pur tra insidie tremende e oscure. Infatti, quando cercavo di esiliare Catilina (non temo più di suscitare disapprovazione nel dire "esiliare"; anzi, mi rimprovero che Catilina se ne sia andato vivo), dunque, quando volevo bandirlo, pensavo che tutto il gruppo dei congiurati lo avrebbe seguito oppure che chi rimaneva in città, senza di lui, avrebbe perso forza e sicurezza. 4 Ma, non appena ho visto che stavano in mezzo a noi, che erano rimasti a Roma gli individui più fanatici e più violenti, come sapevo bene, ho trascorso giorni e notti a spiare cosa facessero, cosa preparassero. Certo che l'enormità del loro crimine vi avrebbe impedito di credere alle mie parole, ho dovuto coglierli sul fatto perché voi, vedendo con i vostri occhi il loro delitto, avreste finalmente provveduto a salvarvi. Così, non appena sono stato informato che Publio Lentulo aveva cercato di corrompere gli ambasciatori degli Allobrogi perché provocassero una guerra al di là delle Alpi e dei tumulti in Gallia Cisalpina; che questi ambasciatori, con lettere e indicazioni a voce, venivano rimandati dal loro popolo in Gallia, sì, ma per la stessa strada che conduce da Catilina; che li accompagnava Tito Volturcio portando con sé lettere per Catilina, ho pensato che mi fosse offerta un'occasione difficilissima a ripetersi, ma che ho sempre chiesto agli dèi immortali: che tutto il complotto fosse colto sul fatto non solo da me, ma anche da voi e dal Senato. 5 Così, ieri ho convocato i pretori Lucio FIacco e Caio Pomptino, uomini di provato valore e della massima devozione allo Stato. Ho esposto loro la situazione. Li ho messi al corrente del mio piano. Subito, senza indugio, senza alcuna obiezione, perché nutrono per lo Stato i sentimenti più nobili, hanno accettato l'incarico e, sul far della sera, si sono recati segretamente al ponte Milvio. Lì, nascondendosi nelle case vicine, si sono divisi in due gruppi in modo da avere in mezzo il Tevere e il ponte. Senza generare il minimo sospetto, avevano portato con sé molti uomini intrepidi ed io avevo inviato dalla prefettura di Rieti un gruppo di giovani armati, ragazzi scelti della cui opera mi avvalgo spesso per difendere lo Stato. 6 Erano quasi le tre del mattino, quand'ecco arrivare al ponte Milvio gli ambasciatori degli Allobrogi, con grande seguito, e Volturcio. Vengono subito attaccati. Da entrambe le parti si snudano le spade. Solo i pretori erano al corrente di tutta la vicenda, gli altri la ignoravano. Allora, per intervento di Pomptino e FIacco, cessa lo scontro [che era iniziato]. Tutte le lettere trovate in possesso degli uomini del seguito sono consegnate ai pretori con i sigilli intatti. Gli arrestati vengono condotti da me all'alba lo mando a chiamare immediatamente il perverso ideatore di tutti questi crimini, Cimbro Gabinio, che non sospettava nulla. Poi convoco anche Lucio Statilio e, dopo di lui, Cetego. Per ultimo viene Lentulo forse perché, la notte prima, diversamente dalle sue abitudini, era stato sveglio per scrivere la sua lettera. 7 Al mattino, i più autorevoli esponenti della nostra città, venuti a conoscenza dell'accaduto, accorrono numerosi a casa mia e mi consigliano di aprire le lettere prima di portarle in Senato: se non avessero rivelato nulla di importante, avremmo evitato di creare inutili agitazioni in città. Mi sono rifiutato: era mio dovere, in una situazione di pericolo pubblico, rimettere la faccenda impregiudicata al Senato. E infatti, Quiriti, anche se non si fosse rivelato esatto quanto mi era stato riferito, ritenevo di non dover temere l'accusa di eccessiva scrupolosità trattandosi di seri pericoli per lo Stato. Ho convocato subito una seduta del Senato che, come avete visto, è stata affollata. 8 Nel contempo, su consiglio degli Allobrogi, ho mandato in casa di Cetego il pretore Caio Sulpicio, uomo di una certa tempra, a sequestrare le armi che avesse trovato. Ha requisito pugnali e spade a non finire. Introduco Volturcio senza i Galli. Col permesso del Senato, gli garantisco l'impunità. Lo esorto a rivelare senza paura quanto sa. Allora lui, riprendendosi a stento da una gran paura, dice di aver ricevuto da Publio Lentulo delle indicazioni e una lettera per Catilina in cui gli si diceva di ricorrere agli schiavi e dirigersi al più presto a Roma con l'esercito. La loro intenzione era di incendiare la città in ogni zona, come era stato stabilito in partenza, e di procedere al massacro della cittadinanza intera: Catilina doveva trovarsi sul posto per catturare i fuggiaschi e unirsi ai capi rimasti a Roma. 9 Dopo Volturcio è la volta dei Galli. Affermano che Publio Lentulo, Cetego e Statilio avevano prestato giuramento e consegnato loro delle lettere indirizzate al popolo allobrogico. Insieme a Lucio Cassio chiedevano ai Galli di inviare al più presto la cavalleria in Italia; la fanteria non sarebbe mancata. Lentulo, poi, aveva assicurato che, secondo gli oracoli sibillini e i responsi degli aruspici, era lui il terzo Cornelio destinato ad avere il supremo potere civile e militare su Roma: prima era toccato a Cinna e a Silla. Lentulo aveva pure aggiunto che, nell' anno in corso, il decimo dall'assoluzione delle Vestali e il ventesimo dall'incendio del Campidoglio, si sarebbe consumata l'ineluttabile caduta di Roma e dell'impero. 10 I Galli riferiscono anche di una discussione sorta tra Cetego e gli altri congiurati: questi ultimi e Lentulo proponevano di fissare il massacro e l'incendio della città per i Saturnali, Cetego trovava questa data troppo lontana. Per non dilungarmi troppo, Quiriti, facciamo portare le tavolette che ciascun congiurato avrebbe scritto. Il primo a c, vi mostriamo il sigillo è Cetego: lo riconosce. Tagliamo lo spago leggiamo. Aveva scritto di sua mano al Senato e al popolo degli Allobrogi che avrebbe mantenuto le promesse fatte agli ambasciatori; chiedeva agli Allobrogi di adempiere, a loro volta, agli obblighi presi dai loro rappresentanti. Allora Cetego, che sino a poco prima era riuscito a fornire spiegazioni sul rinvenimento in casa sua di spade e di pugnali, dichiarando di essere sempre stato un collezionista di armi pregiate, non appena leggiamo la sua lettera, tace di colpo, schiacciato, stroncato dalla consapevolezza del suo crimine. Viene introdotto Statilio che riconosce il suo sigillo e la sua scrittura. Gli sono lette le tavolette che presentano quasi il medesimo contenuto delle precedenti. Confessa. Allora mostro le tavolette a Lentulo e gli chiedo se riconosce il sigillo. Annuisce. «Lo riconosci certamente», gli dico. «Presenta l'effigie del tuo avo, uomo di grande valore che amò unicamente la patria e i suoi concittadini. Anche muta, questa effigie avrebbe dovuto trattenerti da un crimine così mostruoso!». 11 Gli viene letta la lettera, di analoga ispirazione, rivolta al Senato e al popolo degli Allobrogi. Gli concedo di parlare, se intende aggiungere qualcosa. Dapprima risponde di no, ma, poco dopo, quando la deposizione viene messa a verbale e letta, si alza in piedi. Chiede ai Galli di chiarire quali legami intercorressero tra di loro e perché fossero venuti a casa sua. Lo stesso fa con Volturcio. I Galli gli rispondono con brevità e con decisione, rivelando il nome di chi li aveva condotti da lui e il numero degli incontri. Gli chiedono, a loro volta, se non abbia niente da dire a proposito degli oracoli sibillini. Allora Lentulo, di colpo, perde la testa di fronte al suo crimine, mostrando quanto sia devastante averne coscienza. Poteva negare l'accusa. Invece confessa, all'improvviso, contro l'opinione di tutti. Così, non solo gli venne a mancare 1'acume e l'abilità oratoria, da sempre suoi punti di forza, ma, per la gravità e l'evidenza del suo crimine, lo abbandonarono anche quella protervia e quella mancanza di scrupoli che lo rendevano unico.
Cicerone, Contro Catilina, Garzanti, 1996, p. 49 – 57
Qui Cicerone non sta presentando delle prove davanti al Senato, sta facendo un'orazione senza la presenza degli accusati e senza che gli accusati possano replicare. Le prove le ha costruite lontano dal senato e al senato presenta le "sue conclusioni" come se il senato fosse stato presente alla sua azione militare.
Le prove contro Catilina sono state inventate perché non di prove si trattava, ma di menzogne e illazioni confezionate ad arte come unica risorsa per difendere i diritti dell'oligarchia contro i "Populares". Con queste condizioni imposte da Cicerone e con i brogli elettorali propri delle oligarchie finanziarie, Catilina è sconfitto alle elezioni da Murena. Murena è un altro esponente dell'oligarchia finanziaria. Parla di brogli elettorali Servio Sulpicio Rufo, che a sua volta non era stato eletto, e Catone che non era certo favorevole a Catilina.
Con la diffamazione e i brogli elettorali messi in atto per più tornate elettorali le oligarchie finanziarie che dominavano Roma erano riuscite a impedire che la plebe avesse dei rappresentanti consolari a lei favorevoli.
In quest'ottica Cicerone riveste la funzione dell'agente delle oligarchie finanziarie di Roma a tutela del loro dominio sulla città. Usa una sua guardia personale per aggredire e confezionare i falsi. Le lettere presentate da Cicerone erano dei falsi come erano dei falsi le accuse di Cicerone su accordi fra Catilina e i Galli. Catilina viene costretto a fuggire da Roma mediante la diffamazione come preludio al suo omicidio.
La Repubblica romana viene uccisa da Cicerone dove per Repubblica Cicerone intende il solo potere delle oligarchie contro i diritti del popolo romano. L'opposizione viene aggredita, annientata. Chi chiede diritti viene perseguitato da Cicerone.
Cicerone fece mettere a morte senza processo alcuni seguaci di Catilina che erano rimasti a Roma. Cicerone aveva paura di processarli dal momento che le prove presentate erano dei falsi.
Cicerone portò i suoi avversari politici al Tallianum e li fece strangolare. Publio Cornelio Lentulo Sura fu trascinato al Tallianum da Cicerone stesso che si macchiò di assassinio. Da allora Cicerone visse nella paura di essere processato per aver ammazzato dei cittadini senza un processo.
In quel momento la dittatura a Roma era legittimata. Ora non si trattava più di scegliere la qualità della Repubblica Romana, ma la qualità del dittatore che poteva impossessarsi di Roma anche se formalmente era ancora una Repubblica. Da questa condizione all'arrivo dell'imperatore, il passo è breve.
Dopo questo assassinio Cicerone promuove le carriere dei membri del partito degli Optimati e si ingrazia il sistema finanziario di Roma. Cicerone acquista nel 62 una grande casa a schiera sul colle Palatino già di proprietà del più ricco cittadino di Roma, Marco Licinio Crasso, che costava 3,5 milioni di sesterzi che ottenne da Marco Antonio in vista dei profitti che Marco Antonio avrebbe fatto con la carica di proconsole della Macedonia. Con la corruzione Cicerone si era assicurato la casa sul Palatino.
Publio Clodio Pulcro, tribuno della Plebe, nel 58 introdusse una legge che condannava all'esilio chiunque avesse ucciso un cittadino romano senza processo. Cicerone cercò di sottrarsi alla legge cercando l'appoggio del Senato e l'impunità, ma il Senato non lo appoggiò e Cicerone decise di andare in esilio.
Publio Clodio Pulcro fece requisire dallo Stato la casa di Cicerone, acquistò parte della casa di Cicerone e fece distruggere il rimanente sul quale fece erigere un tempio a Libertà.
In esilio Cicerone cade in depressione pensando più volte di suicidarsi.
Fu il tribuno Tito Annio Milone che, lavorando per conto di Pompeo, fece votare dal Senato il ritorno di Cicerone. Pompeo aveva bisogno di aiuto contro Clodio.
Nell'agosto del 57 Cicerone arrivò in Italia sbarcando a Brindisi. Subito intervenne nei confronti del collegio dei Pontefici per far sconsacrare la terra della sua proprietà e ottenne il diritto di ricostruire la sua villa sul Palatino.
Nel 56 a. c. Cicerone, costretto a sostenere il Triumvirato, pieno di paura per le possibili conseguenze, decise di ritirarsi dalla politica. Quasi tutte le opere di filosofia di Cicerone sono scritte in quel periodo dal 56 al 51 a. c.
Nel 51 Cicerone rientra in politica ed è nominato proconsole della Cilicia. Poi, lasciata la Cilicia a suo fratello che lo aveva accompagnato, ritornò nel 50 a Roma.
A Roma stava iniziando una nuova guerra civile fra Pompeo e Cesare. Cicerone si schierò con Pompeo in difesa dell'oligarchia. Quando Giulio Cesare entrò in Italia nel 49, Cicerone scappò da Roma e si fece accogliere prima da Giulio Cesare e poi fuggì in Illiria dove c'era Pompeo. Nel 48 a. c. è con le forze di Pompeo a Fasalo.
A Fasalo Cesare sconfisse Pompeo e Cicerone tornò a Roma dove fu riaccolto da Cesare e riammesso alla vita politica. Ma Cicerone non smise di tramare contro Cesare e metteva a punto delle strategie per modificare la situazione politica quando nel 44 i "Liberatores", alle idi di marzo, pugnalarono Cesare con l'assenso e la partecipazione morale di Cicerone. Cicerone fu invocato affinché restaurasse la "repubblica".
Dopo la morte di Cesare, Cicerone e Marco Antonio erano i personaggi più importanti a Roma. Marco Antonio come erede di Cesare e Cicerone che rappresentava l'oligarchia presente nel senato.
Cicerone iniziò con Marco Antonio lo stesso gioco che aveva fatto con Catilina iniziando a diffamare Marco Antonio accusandolo di infamità e tentando di metterlo contro Ottaviano figlio adottivo di Cesare. Sollecitò il senato a dichiarare Marco Antonio un nemico dello Stato. Scrisse le Filippiche contro Marco Antonio.
Il piano di Cicerone per scacciare Marco Antonio fallì. Marco Antonio e Ottaviano si accordarono e si allearono con Lepido per formare il secondo triunvirato.
Vennero formate liste di proscrizione e i seguaci di Cicerone vennero cercati ed ammazzati. Cicerone fu catturato il 7 dicembre del 43 mentre stava fuggendo dalla sua villa a Formia cercando di imbarcarsi per la Macedonia.
Fu ucciso, la testa mozzata e le mani, che avevano scritto le Filippiche contro Marco Antonio, furono inchiodate con la testa sui rostri del foro Romano come facevano Mario e Silla.
Cicerone morì il 7 dicembre del 43 a. c..
L'eredità di Cicerone sono le diffamazioni e le invettive che Cicerone ha fatto contro Catilina e contro Marco Antonio. Si tratta dell'arte della diffamazione che venne assunta come "arte della politica" da parte di tutti coloro che dominano gli uomini e temono ogni trasformazione sociale capace di mettere in pericolo il proprio dominio.
Quest'arte viene studiata in giurisprudenza e viene studiata in filosofia perché è l'arte dell'inganno, della prevaricazione, delle offese messe in atto con una tecnica tale che all'offeso, al calunniato, non rimangono parole per difendersi, tanto sono feroci e folli quelle accuse, al diffamato rimane la rabbia per l'ingiustizia infame che sta subendo e tende a ribellarsi fisicamente il che permette al calunniatore di accusarlo di essere un violento.
Questa è l'eredità di Cicerone che assunta dalla chiesa cattolica è arte della prevaricazione e della violenza con cui dominare gli uomini. E' la premessa sulla quale funzionavano i tribunali dell'inquisizione, le torture contro gli eretici, le stragi messe in essere dai cristiani dopo aver diffamato le vittime. Le stesse giustificazioni con cui nazisti sterminarono gli ebrei ebbero in Cicerone il maestro della retorica con cui accusare gli ebrei per soddisfare il loro desiderio di sterminarli.
Lo stesso vale per la situazione politica italiana o per lo sterminio degli iracheni messo in atto da Bush, Berlusconi e Blair: non avevano questi malvagi armi di distruzione di massa? Dunque, andavano sterminati.
La tecnica messa in atto da Cicerone contro Catilina è la stessa tecnica messa in atto da magistrati italiani per distruggere gli avversari politici. Vale la pena di ricordare Carlo Nordio e l'uso criminale che fece per creare allarme sulle "tangenti rosse", mettere sotto procedimento penale il Partito Comunista alimentando una propaganda d'odio le cui finalità erano quelle dell'eversione dell'ordine democratico. Non c'erano tangenti, il partito fu assolto, ma demolito da una feroce propaganda dell'oligarchia finanziaria che voleva far sparire gli effetti delle tangenti e della vera corruzione di cui si era macchiata. Il Partito Comunista fu assolto, anche Catilina fu assolto, ma nulla fu più come prima e l'Italia si avviava verso il disastro economico che il governo dell'oligarchia finanziaria fascista stava preparando per l'Italia con grande attività della P2 di Cefis.
Di Cicerone ci rimangono degli scritti filosofici scritti essenzialmente fra il 56 e il 51. Quella filosofia ha il solo scopo di legittimare l'oligarchia come struttura di dominio antipopolare e sé stesso come il filosofo a capo degli oligarchi. Testi come "Il paradosso degli stoici" fu scritto fra il 48 e il 47 a. c. quando Cicerone era ancora lontano dalla politica e poco prima della guerra civile fra Cesare e Pompeo. Cicerone scrisse "Il sommo bene e il sommo male" nel 50 a. c. o nel 49 tornato dalla Cilicia e preparato prima di partire per quella terra. Cicerone scrive "La natura divina" nel 44, un anno prima di morire. Nella Natura divina afferma in sostanza che gli Dèi non esistono e che la religione è uno strumento della politica.
Non si può pensare Cicerone come ad un filosofo. La filosofia non fa parte della vita di Cicerone. Si può pensare a Cicerone come ad un politico, un criminale, che usa la filosofia e la religione per legittimare i propri crimini contro il popolo romano. La filosofia di Cicerone è la filosofia del furbo, del retorico, del sofista, il cui unico scopo è trarre vantaggio nel rubare il futuro agli uomini.
Lo stesso vale per la filosofia di Cicerone. Una filosofia che ha lo scopo di giustificare e legittimare il suo assolutismo. Ha lo scopo di assolvere il suo mentire, il suo denigrare come spiega nella parte finale del suo libro "La Natura degli Dèi".
Scrive Cicerone:
Diogene cinico aveva l'abitudine di dire che Arpalo, un brigante che a quei tempi era considerato fortunato, costituiva una testimonianza contro gli dei perché visse in quella felice condizione così a lungo. Dionisio, che ho citato sopra, dopo aver saccheggiato il tempio di Proserpina a Locri, navigava verso Siracusa, e poiché viaggiava con un vento molto favorevole, disse ridendo: "Vedete, amici, che buona navigazione gli dei immortali concedono ai sacrileghi?". E da uomo acuto che era, comprese bene e con chiarezza la verità, e perseverava nella stessa convinzione. Approdò con la flotta nel Peloponneso, giunse al tempio di Giove Olimpios e gli sottrasse un mantello d'oro di grande peso con il quale il tiranno Gelone aveva ornato Giove grazie al ricavato della vendita del bottino dei Cartaginesi, e in questa occasione fece anche dello spirito, dicendo che il mantello d'oro era pesante d'estate e freddo d'inverno, e gli mise addosso un mantello di lana, dicendo che era adatto a ogni stagione. Inoltre fece togliere la barba d'oro di Esculapio a Epidauro, affermando che non si addiceva al figlio di portare la barba quando in tutti i templi il padre ne era privo. Poi fece portar via da tutti i templi le tavolette di argento sulle quali, secondo l'uso dell'antica Grecia, era scritto: "proprietà degli dei buoni", dicendo che voleva approfittare della loro bontà. Inoltre faceva asportare senza esitazione le piccole Vittorie d'oro e le coppe e le corone sorrette dalle mani tese delle statue, e diceva che non le portava via ma che le accettava, perché è follia pregare gli dei per ottenere benefici e quando ce li porgono e ce li offrono rifiutare di prenderli. Si dice poi che portò nel foro gli oggetti suddetti presi dai templi, li fece vendere all'asta e, dopo aver preso il denaro, ordinò che gli oggetti provenienti da luoghi sacri che ciascuno possedeva dovevano esser riportati nel loro tempio entro una data fissata: così all'empietà nei confronti degli dei aggiunse l'ingiustizia nei confronti degli uomini. Dunque egli non fu né colpito dal fulmine di Giove Olimpio né Esculapio lo fece morire a poco a poco di una malattia dolorosa e lunga; mori nel suo letto e fu portato sulla pira, e quel potere che lui stesso aveva acquistato con il crimine, lo lasciò in eredità al figlio come se fosse giusto e legittimo. Mi soffermo a trattare di questo argomento mio malgrado, perché sembra autorizzare a compiere il male; e ciò sembrerebbe giusto, se, anche senza alcun disegno divino, non ci fosse il peso della consapevolezza dei vizi e delle virtù, eliminata la quale tutto rovina. Né una famiglia né uno stato sembrano organizzati secondo un criterio razionale e una norma, se in essi non c'è alcuna ricompensa per le buone azioni né alcuna pena per i delitti; analogamente non c'è alcun controllo divino del mondo sugli uomini, se in esso non c'è alcuna distinzione tra buoni e malvagi. "Ma gli dei tralasciano le questioni secondarie, né si occupano dei campicelli e delle viti dei singoli individui, né Giove può aver fatto caso se la golpe o la grandine hanno danneggiato qualcuno; neppure nei regni i re si occupano di tutti i piccoli affari": così dite. Come se poco fa io mi fossi lamentato per il fondo di Publio Rutilio a Formia e non della perdita della sua sicurezza personale! In questo tutti i mortali sono così: dicono che i beni esterni, vigneti, messi, uliveti, l'abbondanza del raccolto e dei prodotti, insomma tutti i vantaggi, tutta la prosperità della vita vengono a loro dagli dei; ma nessuno ha mai detto di aver ricevuto da dio la virtù. E certamente a ragione, visto che riceviamo giuste lodi per la virtù e in essa abbiamo giusto motivo di vanto; il che non accadrebbe se quel dono ci venisse da dio e non da noi stessi. Ma se abbiamo ricevuto onori o beni familiari, o se abbiamo ottenuto qualche altro bene dalla sorte o abbiamo evitato qualche disgrazia, allora ringraziamo gli dei, allora riteniamo che nulla sia stato aggiunto al nostro merito. Forse qualcuno ha ringraziato mai gli dei per il fatto di essere buono? No, ma piuttosto per il fatto di essere ricco, onorato, salvo, e per questo motivo Giove è chiamato Ottimo Massimo, non perché ci rende giusti, temperanti, sapienti, ma perché ci rende sani, salvi, opulenti, ricchi; e nessuno ha promesso una decima a Ercole se fosse diventato sapiente - anche se si - dice che Pitagora immolò un bue alle Muse quando fece una scoperta in geometria. Ma non lo credo, perché non volle sacrificare una vittima neppure ad Apollo a Delo per non bagnare l'ara di sangue. Ma per ritornare al mio argomento, questo è il giudizio unanime dei mortali: la fortuna deve essere chiesta a dio, la saggezza deve essere trovata in noi stessi. Consacriamo pure templi a Mente, Virtù, Lealtà, tuttavia vediamo che queste qualità si trovano in noi stessi; il bene della speranza, della salvezza, della ricchezza, della vittoria deve essere chiesto agli dei. Dunque la prosperità e la fortuna dei malvagi, come diceva Diogene, confutano l'esistenza di ogni forza e di ogni potere divini. "Ma a volte i buoni hanno successo." Certo, e noi prendiamo questi casi e li attribuiamo senza motivo all'operato degli dei immortali. Diagora detto l'Ateo, quando giunse a Samotracia e un amico gli disse: "Tu che pensi che gli dei trascurino le cose umane, non vedi tutte queste tavole votive che testimoniano di quanti abbiano sfuggito la violenza della tempesta e siano arrivati sani e salvi al porto grazie ai loro voti?", "Certo" rispose "perché non c'è alcun ex voto di quelli che fecero naufragio e morirono in mare". E lo stesso Diagora, siccome durante un viaggio la ciurma terrorizzata e spaventata dal sopraggiungere di una tempesta diceva che non a torto capitava loro quella disgrazia, perché l'avevano imbarcato sulla stessa nave, mostrò loro molte altre navi in difficoltà sulla stessa rotta e chiese se pensavano che anche su quelle navi viaggiasse Diagora. Così infatti vanno le cose: non fa alcuna differenza per quanto riguarda la buona o la cattiva sorte quale tu sia o come hai vissuto.
Cicerone, La natura divina, BUR, 1992 p. 385 – 391
"Non fa nessuna differenza chi tu sia o come hai vissuto!" In questo c'è il riassunto di tutta la vita di Cicerone a cui non importavano gli uomini ma solo il proprio tornaconto personale.
Il discorso sugli Dèi ci chiarisce il modo in cui Cicerone è vissuto. Il modo in cui Cicerone ha fatto carriera politica e i fini che perseguiva mediante l'uso della retorica.
Cicerone ha voluto imporre la dittatura di sé stesso esattamente come Platone voleva imporre la dittatura dei filosofi al servizio delle oligarchie terriere e finanziarie. Nel farlo, Cicerone ha distrutto la Repubblica di Roma impedendo l'applicazione delle leggi, dell'onore e della giustizia. Gli oligarchi si sentivano in pericolo e Cicerone salvò gli oligarchi sacrificando la Repubblica.
I "Liberatori" uccisero Cesare che aspirava a diventare, forse, l'imperatore di Roma, ma nel farlo non ripristinarono i diritti dei Quiriti, dei cittadini romani, ma ripristinarono i diritti dell'oligarchia messa in pericolo da Cesare. Oggi come oggi diremmo che non fu quella di Cicerone e i "Liberatori delle idi di marzo" una "lotta contro la mafia", ma fu una "lotta di mafia" in cui un'associazione mafiosa voleva ripristinare il proprio controllo sul territorio.
Marghera, 16 maggio 2019
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Claudio Simeoni
Meccanico
Apprendista Stregone
Guardiano dell'Anticristo
Membro fondatore della Federazione Pagana
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