Le biografie dei filosofi che partecipano alla partita di calcio
Parlare di David Hume significa parlare di un individuo che studia la filosofia e che è attratto più da un ragionamento in sé stesso che non a trasformare in filosofia la propria esistenza. Un individuo che cambierà il suo cognome da Home in Hume per favorire la pronuncia in lingua inglese.
David Hume, nato il 26 aprile 1711 ad Edimburgo, perde il padre, un avvocato, all'età di due anni. Hume sarà allevato dalla madre che non si risposerà. Anche David Hume non si sposerà mai.
David Hume ha frequentato la chiesa di Chirnside, dove George Home, il marito di sua zia, era il ministro.
Nel 1725 prese fuoco la casa di famiglia a Edimburgo. Questo mise fine alla carriera scolastica dei fratelli Home, David e John.
Senza la possibilità di intraprendere le classiche carriere statali riservate ai nobili della sua condizione, Hume fu costretto a seguire corsi di legge ad Edimburgo. Si affiancò ad un suo vicino, Henry Home (nessuna parentela) per imparare l'arte forense. Hanry Home diventerà Lord Kaimes.
Hume frequenterà un collegio di Edimburgo dove studierà cultura classica per essere avviato alla carriera forense, ma nel 1729 conclude il suo periodo di studi. Non si laureerà mai e agli studi di giurisprudenza preferisce interessarsi di filosofia. A Edimburgo Hume si dedicò più ai bordelli, alle taverne, alle compagnie e alle feste anziché dedicarsi agli studi.
Fino al 1933 si dedica a letture filosofiche. La sua vita è una lettura filosofica e una continua frequentazione di bordelli e taverne. Viveva di un piccolo sussidio destinatogli dalla famiglia, ma nel 1934 cade in depressione. Fino a 22 anni non c'è nessuna attività sociale, messa in essere da David Hume, degna di essere annotata. Non accumula esperienza personale, ma si limita alla lettura.
Hume ingrassa molto abbandonandosi ad una vita inattiva e sedentaria.
Depresso, provato nel fisico con tracce di scorbuto, si sottopone a pesanti cure mediche. In un momento in cui il senso di colpa lo pervase, Hume si accusò di essere un temperamento pigro. In quel momento gli sembrò che la filosofia non gli bastasse più e nel 1734 decise di partire per Bristol e di iniziare a lavorare nel mondo del commercio.
Per un breve periodo lavorò presso un commerciante di vino, Michael Miller. La collaborazione non durò a lungo. Hume era pervaso da quell'istinto di superiorità capace di attirargli le antipatie e presto la collaborazione finì
Dal 1734 si trasferisce in Francia dove rimarrà per tre anni.
In Francia studiò presso le biblioteche dei gesuiti in varie città francesi e sfruttando le biblioteche dei gesuiti scrive il "Trattato sulla natura umana".
Dai gesuiti Hume apprende le tecniche della manipolazione della struttura emotiva dell'infanzia con cui i gesuiti legano a sé le persone fin dalla primissima infanzia. Queste tecniche, apprese dai gesuiti, sono la fonte delle idee di Hume nel "Trattato sulla natura umana".
Il trattato sulla natura umana viene scritto da Hume in un ambiente dei gesuiti e dei gesuiti Hume ha tutta l'impostazione filosofica. L'uomo, secondo Hume, è creato da Dio e dunque la qualità della percezione degli oggetti dell'uomo è una costante uguale per tutti gli uomini per cui: tutti gli uomini percepiscono nello stesso modo le stesse cose. Con l'insegnamento dei gesuiti l'idea di Hume diventa: tutti gli uomini percepiscono nello stesso modo le stesse cose se li hai indotti fin dall'infanzia a percepire le cose allo stesso modo che tu vuoi siano percepite.
Ricordo che i gesuiti non solo avevano tecniche di manipolazione mentale dell'infanzia ("dammi un bambino da uno a sei anni e non potrà più vivere la sua vita senza confidare in Dio"), ma avevano una loro flotta con cui commerciavano schiavi fra l'Africa e le Americhe. Per farlo avevano sviluppato tutta una serie di idee razziste e di supremazia bianca che vengono fatte proprie da Hume e ritrasmesse per diventare un patrimonio ideale dei liberali.
Scrive Hume aprendo il primo libro del "Trattato sulla Natura umana":
Tutte le percezioni della mente umana si distinguono in due classi, che chiamerò IMPRESSIONI e IDEE. La differenza tra di esse consiste nel grado di forza e di vivacità con cui colpiscono la mente, e con cui penetrano nel pensiero o nella coscienza. Quelle percezioni che posseggono maggior forza e violenza, noi le chiamiamo impressioni; e con questo termine comprendiamo tutte le nostre sensazioni, passioni ed emozioni, così come esse appaiono per la prima volta nella nostra anima. Col termine idee intendo le immagini evanescenti delle impressioni sia nel pensare che nel ragionare; come sono, per esempio, tutte quelle percezioni stimolate da questo discorso, al di fuori di quelle che sorgono dalla vista o dal tatto, e a eccezione dell'immediato piacere o dolore che esso può provocare. Ritengo che non sarà necessario dilungarsi a spiegare questa distinzione. Ognuno da sé potrà percepire la differenza fra il sentire e il pensare. Si può distinguere facilmente la loro diversità di grado; tuttavia non è impossibile che in particolari circostanze essi possano trovarsi molto vicini l'uno all'altro. Perciò nel sonno, nella febbre, nella follia, o in qualunque violenta emozione dell'anima, le nostre idee possono avvicinarsi alle nostre impressioni: d'altronde, può capitare che esse siano così deboli ed evanescenti, che non le riusciamo a distinguere dalle nostre idee. Tuttavia, nonostante questa sporadica rassomiglianza, esse sono in generale così differenti, che non si può esitare a classificarle separatamente, e ad assegnare a ciascuna un nome speciale per evidenziarne la differenza. Esiste un'altra suddivisione delle nostre percezioni, che converrà osservare, e che comprende sia le impressioni che le idee: quella tra SEMPLICE e COMPLESSO. Le percezioni (impressioni e idee) semplici sono tali da non accettare distinzione né separazione. Le percezioni complesse, al contrario, si possono distinguere in parti. Per quanto un particolare colore, gusto e odore siano qualità tutte unite insieme in questa mela, si percepisce facilmente che sono diverse e, al limite, che si possono distinguere una dall' altra. Dopo aver conferito un ordine e una sistemazione ai nostri oggetti con questa suddivisione, possiamo ora considerarne più accuratamente le qualità e i rapporti. Prima di tutto, ciò che balza agli occhi è la grande rassomiglianza che le nostre impressioni e idee hanno in tutto, fuorché nel grado di forza e di vivacità: le une sembrano essere, in certo modo, il riflesso delle altre; così che tutte le percezioni della mente sono doppie, e appaiono sia come impressioni che come idee. Quando chiudo gli occhi e penso alla mia stanza, le idee che mi formo sono esatte rappresentazioni delle impressioni che ne ho ricevuto; non c'è circostanza nell'una che non si ritrovi nell'altra. Considerando le altre percezioni, si trova sempre la medesima rassomiglianza nella rappresentazione: idee e impressioni si corrispondono sempre. Questa circostanza mi sembra degna di nota, e vorrei approfondirla. Sulla base di un esame più accurato mi accorgo di essermi lasciato trasportare troppo lontano dalla prima apparenza, per cui ora devo distinguere le percezioni in semplici e complesse, per limitare l'affermazione precedente, ossia che tutte le nostre idee e tutte le nostre impressioni si somigliano. Mi capita di notare, infatti, che molte delle nostre idee complesse non ebbero mai impressioni corrispondenti, e, d'altra parte, che molte delle nostre impressioni complesse non vengono mai riprodotte esattamente nelle idee. Posso figurarmi, per esempio, una città come la Nuova Gerusalemme, le cui strade siano dorate e le mura tempestate di rubini, pur non avendola mai vista. Ho visto Parigi; ma posso forse formarmene un'idea che ne rappresenti perfettamente le strade e le case nelle loro proporzioni reali ed esatte? Per questo, sebbene in generale sussista una notevole rassomiglianza tra le nostre impressioni e idee complesse, mi accorgo che non è universalmente valida la regola per cui le une siano copie esatte delle altre. Considereremo ora come stiano le cose per le nostre percezioni semplici. Dopo un esame accurato, oso affermare che la regola non subisce, in questo caso, alcuna eccezione: a ogni idea semplice corrisponde una impressione semplice che le somiglia; ogni impressione semplice possiede un'idea corrispondente. L'idea del rosso che ci formiamo al buio e l'impressione che percepiamo alla luce del sole differiscono solamente in grado, non in natura. Che lo stesso si debba dire di tutte le nostre impressioni e idee semplici, non è dimostrabile con una loro enumerazione dettagliata. Ognuno può soddisfarsi a questo riguardo enumerandone quante ne voglia, Ma se qualcuno dovesse negare questa universale rassomiglianza, non saprei come convincerlo, se non pregandolo di mostrarmi una percezione semplice che non abbia un'idea corrispondente. Se egli non dovesse accettare la sfida, e certamente non la può accettare, dal suo silenzio e dalle nostre personali osservazioni riterremmo confermata la nostra tesi, Dunque, tutte le nostre idee e impressioni semplici si assomigliano; e dal fatto che le percezioni complesse sono composte da quelle, possiamo affermare che, in generale, queste due specie di percezioni si corrispondono perfettamente. Scoperta questa relazione, che non richiede ulteriore analisi, sono curioso di trovare qualche altra loro proprietà. Consideriamo dunque come si comportino in rapporto all'esistenza e quali, fra impressioni e idee, siano cause e quali effetti. La trattazione completa della questione è l'argomento di questo trattato; perciò ci basterà stabilire, per ora, una proposizione generale, che tutte le idee semplici, nella loro prima apparizione, derivano dalle impressioni semplici corrispondenti e le rappresentano esattamente. Nel raccogliere fenomeni a conferma di questa proposizione, trovo solamente quelli appartenenti alle due classi sopraddette; ma in ognuna di esse i fenomeni sono evidenti, numerosi e decisivi. Per cominciare, essi mi confermano quel che ho già affermato: che ogni impressione semplice si accompagna a un'idea semplice, e viceversa. Da questa unione costante di percezioni simili, poi, concludo senz'altro che sussista una solida connessione tra impressioni e idee corrispondenti, e che l'esistenza delle une influenzi considerevolmente l'esistenza delle altre. Un'unione così costante, in un numero tale di casi, non può essere casuale; essa dimostra chiaramente una dipendenza delle impressioni dalle idee, oppure delle idee dalle impressioni. Per sapere da che parte risieda questa dipendenza, considero l'ordine del loro primo presentarsi; e trovo, per costante esperienza, che le impressioni semplici precedono sempre le idee corrispondenti, mentre non appaiono mai nell'ordine inverso. Per dare a un bambino l'idea del rosso scarlatto o dell'arancione, del dolce o dell'amaro, gli presento oggetti, o, in altre parole, gli procuro queste impressioni; ma non commetto l'assurdità di produrre le impressioni suscitandone le idee. Le nostre idee, nel presentarsi, non producono impressioni corrispondenti a loro, né percepiamo alcun colore o sensazione semplicemente pensando a loro. Invece scopriamo che tutte le impressioni, della mente o del corpo, sono costantemente seguite da idee somiglianti, e che differiscono solo nel grado di forza e di vivacità. L'unione costante di percezioni somiglianti è una prova convincente che le une sono la causa delle altre; e questa priorità delle impressioni è parimenti una prova che le impressioni sono le cause delle idee, e non viceversa. A conferma di ciò, considero un altro fenomeno ovvio e convincente: dovunque, per una fatalità, le facoltà responsabili delle impressioni siano impedite nelle loro operazioni, come nel caso di qualcuno cieco o sordo dalla nascita, non si perdono soltanto le impressioni, ma anche le idee corrispondenti; così che di nessuna delle due restano tracce nella mente. Questo non succede solo nel caso che gli organi sensoriali siano completamente danneggiati, ma anche quando non sono stati sollecitati a produrre una particolare impressione. Non possiamo figurarci una idea precisa del sapore dell'ananas, se non l'abbiamo già assaggiato di fatto. In contraddizione a ciò, a ogni modo, esiste un fenomeno in grado di provare che non è totalmente impossibile per le idee precedere le impressioni corrispondenti. Credo si ammetterà prontamente che le varie distinte idee dei colori che riceviamo tramite gli occhi, o quelle dei suoni che ci sono trasmesse dall'udito, siano realmente differenti le une dalle altre, sebbene si assomiglino. Ora, se questo è vero a riguardo dei diversi colori, lo dovrebbe essere anche per le stesse sfumature del medesimo colore, ciascuna delle quali produrrebbe un'idea distinta dalle altre. Se questo venisse negato, sarebbe possibile, grazie alle gradazioni continue delle sfumature, far slittare impercettibilmente un colore in: quello che vi è più lontano; e, se non si ammetterà che ciascun colore intermedio è differente, non si potrà negare senza assurdità che i colori estremi sono uguali. Supponiamo, a questo punto, che una persona abbia goduto della vista per trent' anni, e che si sia abituata perfettamente ai colori di tutti i generi, a eccezione di una particolare sfumatura di blu, per esempio, che non gli è mai capitato di vedere. Mostriamogli tutte le diverse sfumature di quel colore, tranne quella che ignora, in ordine discendente, dalla più scura alla più chiara. Ebbene, egli percepirà uno spazio vuoto dove è richiesta quella sfuma- tura, e avvertirà che tra i colori contigui c'è in quel punto una distanza superiore che in qualunque altro. Chiedo, dunque: è possibile, grazie alla propria immaginazione, che riesca a compensare tale mancanza, e che riesca a formarsi l'idea di quella particolare sfumatura, sebbene non l'abbia mai percepita tramite i sensi? Poche persone, credo, saranno dell'opinione che possa; e questo basta a provare che le idee semplici non derivano sempre dalle impressioni corrispondenti. Il caso è tuttavia così particolare e insolito, che è appena degno di essere osservato, e non merita che alteriamo la nostra massima generale a causa sua. A parte questa eccezione, non ci si allontanerebbe dal vero sottolineando che il principio della priorità delle impressioni sulle idee deve essere compreso con un'altra limitazione: che, come le nostre idee sono immagini delle nostre impressioni, così possiamo figurarci idee secondarie, che siano immagini di quelle primarie; come risulta da questo ragionamento intorno a esse. Questa non è, propriamente, un'eccezione alla regola, quanto una spiegazione. Le idee riproducono le immagini di loro stesse in nuove idee; ma dal momento in cui si ammette che le prime idee derivino dalle impressioni, rimane sempre vero che tutte le idee semplici procedono mediatamente oppure immediatamente dalle loro impressioni corrispondenti. Questo è dunque il primo principio che io stabilisco nella scienza della natura umana; né dobbiamo disprezzarlo per la semplicità del suo apparire. Poiché la presente questione, se le impressioni precedano le idee o viceversa, è la medesima che ha suscitato tanto scalpore quando si discuteva, in altri termini, se ci fossero idee innate, o se tutte le idee derivassero dalla sensazione e dalla riflessione. E' possibile osservare che, per provare che le idee di estensione e di colore non sono innate, i filosofi non fanno che mostrare che ci vengono trasmesse dai sensi. Per provare che le idee di passione e desiderio non sono innate, essi osservano che possediamo una esperienza precedente di queste emozioni in noi stessi. Ora, se esaminiamo attentamente questi argomenti scopriremo che provano solamente che le idee sono precedute da altre percezioni più vivaci, dalle quali derivano, e che esse rappresentano. Spero che la chiarezza di queste affermazioni dissiperà tutte le dispute al riguardo, e che ci permetterà di utilizzare questo principio nei nostri ragionamenti più spesso di quanto sia accaduto finora.
David Hume, "Trattato sulla natura umana" Bompiani, 2016, p. 27 – 37.
Con "L'origine delle nostre idee" si apre il primo libro del "Trattato sulla natura umana". Il trattato è pubblicato in tre libri. I primi due libri vengono pubblicato nel 1739.
Percepire con i sensi viene distinto dal mondo delle idee, dal mondo del pensiero, che viene associato al sentimento, ad un'anima, sottolineando la differenza e la separazione fra anima e corpo. Hume sottolinea la differenza fra sentire e pensare come se dell'uno si possa parlare senza coinvolgere l'altro. Nella gabbia in cui Hume è rinchiuso, il pensiero è la parola creatrice di Dio, un'espressione dell'anima che necessariamente è associata a Dio. Ma come, se "Hume è ateo"? Ha il concetto di anima e associa la parola, il logos all'anima, separa il sentire, il percepire la realtà con i sensi, dal pensare la realtà. Quella stessa realtà che viene prodotta dal pensiero di Dio, il Logos quando Dio la pensa.
Hume non è ateo, tenterà di dimostrare che non è la religione che determina la morale dell'uomo, ma c'è una morale naturale che viene assunta dalla religione (dal cristianesimo nel suo caso) per controllare i comportamenti umani.
Dice Hume: "Per quanto un particolare colore, gusto e odore siano qualità tutte unite insieme in questa mela, si percepisce facilmente che sono diverse e, al limite, che si possono distinguere una dall' altra."
Hume ignora la questione: qual è la mia capacità di percepire la mela? La mela è oggetto in sé e io descrivo la mela in base a delle caratteristiche che colgo nella mela. Ma se io fossi cieco? O se io fossi daltonico? Se io fossi munito di un diverso modo di percepire la forma? Io non descrivo la mela come non descrivo nessun oggetto, ma descrivo ciò che io percepisco dell'oggetto per definirlo nella comunicazione verbale. La mela non ha delle qualità. Le persone individuano nella mela delle qualità. La mela è! Come tale la mela rappresenta il suo divenuto nel mondo. Io guardo la mela e la definisco per le sue qualità ma il fatto che io affermo di individuare delle qualità della mela, lo faccio in base al mio divenuto, al mio giudizio, alle mie predilezioni non in base all'oggetto mela in sé. In sostanza, io definisco l'altro per la qualità delle relazioni che io coltivo con l'altro, non penso all'altro come oggetto in sé, per sé stesso né, tanto meno, sono in grado di pensare l'altro come oggetto in sé e per sé sottratto dalla relazione che io ho con lui.
Io penso me stesso come modello del mondo ed io sono il soggetto che pensa il mondo, come afferma Hume:
" A parte questa eccezione, non ci si allontanerebbe dal vero sottolineando che il principio della priorità delle impressioni sulle idee deve essere compreso con un'altra limitazione: che, come le nostre idee sono immagini delle nostre impressioni, così possiamo figurarci idee secondarie, che siano immagini di quelle primarie; come risulta da questo ragionamento intorno a esse."
In questa dimensione Hume dimentica l'altro. Lui è colui che ha impressioni. Lui è colui che ha idee; lui è colui che ha immagini. Per Hume non esiste né un patrimonio di conoscenze collettive di società da trasmettere ai nuovi nati e nemmeno influenze sociali che determinano impressioni, idee che nascono dall'uomo. La stessa manipolazione mentale messa in atto dai gesuiti non agisce su come le idee si esprimo, ma agisce sulla struttura emotiva affinché manifesti quelle e solo quelle idee.
Di Hume e le sue idee sociali in relazione allo schiavismo, scrive un sito internet:
Almeno rispetto a questa materia scottante e sanguinosa, anche uno dei più grandi esponenti dell’illuminismo e del liberalismo inglese, David Hume (1711/1776), un acuto filosofo di matrice razionalista e scettica e secondo il quale andava messo in discussione lo stesso concetto di causa/effetto, abbandonò gran parte dei suoi raffinati dubbi gnoseologici quando affrontò senza mezzi termini, in uno scritto del 1754 intitolato Sui caratteri nazionali, l’annosa questione della disuguaglianza eterna e “naturali” tra le razze e, a catena, la legittimità della schiavitù. Egli rilevò che “sospetto i Negri e in genere le altre specie umane” (gialli, bruni, ecc.) “di essere naturalmente inferiori alla razza bianca. Non vi sono mai state nazioni civilizzate di un altro colore che il colore bianco. Né individuo celebre per le sue azioni o per la sua capacità di riflessione… Non vi sono tra di loro “ (tra le razze non bianche, sempre secondo lo scettico e imparziale filosofo liberale inglese) “né manifatture” (nella Cina del Settecento, nessuna manifattura?) “né arti, né scienze” (nell’India e nella Cina del Settecento, “né arti né scienze”? In che mondo fatato viveva, lo scettico David Hume?). “Senza fare menzione delle nostre colonie” (le colonie britanniche del 1754, con i loro ormai numerosissimi schiavi/traffico legale di schiavi) “vi sono dei Negri schiavi dispersi attraverso l’Europa” (si, signor Hume, molto spesso trasportati in condizioni orrende proprio dalle navi schiaviste della liberale Gran Bretagna del Settecento); ma “non è mai stato scoperto tra di loro il minimo segno di intelligenza”. Certo, come si può dubitare di tali “tesi” e opinioni, ben poco scettiche? Rispetto alla proprietà privata e alla sua legittimità, in una Scozia in cui ancora alla fine del Settecento esisteva la schiavitù per i minatori, Hume sosteneva che “la proprietà è una convenzione umana nata dal comune interesse che guida ogni uomo, insieme con gli altri, a un piano o sistema generale di azioni che tende alla pubblica utilità”; in altre parole, le leggi sulla proprietà sono elaborazioni giuridiche che gli esseri umani decidono di seguire perché è nel loro comune interesse. Pur dichiarandosi in sintonia con la tesi che ciò che un uomo realizza servendosi della natura gli appartiene, Hume affermò che il diritto alla proprietà privata va sostenuto non perché si fondi su un qualche diritto naturale, ma perché si tratta di un’“utile abitudine”; analogamente, la proprietà può essere oggetto di libero scambio nel mercato perché ciò è vantaggioso per la società umana”. [tratto da: J. Rifkin, La società a costo marginale zero, ed. Mondadori, p. 87] Con estrema “intelligenza” e assai pochi dubbi scettici, la “linea nera” all’interno della filosofia britannica e francese pertanto difese e legittimò, più o meno direttamente, la schiavitù fino alla seconda metà del Settecento: il pensiero iperclassista di Nietzsche, che esamineremo più avanti, non risulta altro che una derivazione teorica estrema e il punto di approdo filosofico più conseguente di una tradizione teorico-politica di durata bimillenaria che, partendo da alcuni sofisti greci e da Aristotele, arrivò fino al moderno liberalismo borghese di grandi pensatori classisti quali Locke, Voltaire e Hume.
Tratto dal sito: mondorosso.wordpress.com/pitagora-marx-e-i-filosofi-rossi/la-linea-nera-da-marsilio-a-hume/
L'idea di società in Hume è coerente con la vita che viveva Hume. Ed è coerente con le idee di Hume sulle idee e sulla percezione.
La pubblicazione dei primi due libri del "Trattato sulla natura umana" nel 1739 sono un fallimento. I libri vengono ignorati e lo stesso Hume afferma che il trattato è nato morto.
Scrive Hume all'inizio del secondo libro del "Trattato sulla natura umana" che tratta delle passioni:
Come tutte le percezioni della mente possono essere suddivise in impressioni e idee, così è possibile suddividere le impressioni in originarie e secondarie. Questa divisione delle impressioni è identica a quella precedentemente adoperata per distinguere fra impressioni di sensazione e impressioni di riflessione. Le impressioni originarie o impressioni di sensazione non sono precedute da alcuna percezione, e sorgono nell'anima dalla costituzione del corpo, dagli spiriti animali, o dalla sollecitazione che gli oggetti imprimono sugli organi esterni. Le impressioni secondarie, o di riflessione, derivano da alcune di quelle originarie, o immediatamente e per mediazione delle loro idee. Appartengono al primo genere tutte le impressioni dei sensi, e tutti i dolori e piaceri corporei; al secondo genere, invece, appartengono le passioni, e tutte le altre emozioni simili. è certo che la mente, nelle sue percezioni, deve pur iniziare da qualcosa; e che, siccome le impressioni precedono le loro idee corrispondenti, devono allora esistere alcune impressioni che appaiono nell'anima senza nulla che le introduca. Poiché queste dipendono da cause naturali e fisiche, il loro esame mi allontanerebbe troppo dal mio presente argomento, verso le scienze anatomiche e la filosofia naturale. Per questa ragione mi limiterò qui a quelle altre impressioni che ho chiamate secondarie e di riflessione, poiché sorgono o dalle impressioni originarie, o dalle loro idee. I dolori e i piaceri corporei sono l'origine di molte passioni, sia quando vengono provati sia quando sono considerati dalla mente; eppure sorgono originariamente nell' anima, o nel corpo, comunque lo si voglia chiamare, senza alcun pensiero o percezione che li preceda. Un attacco di gotta produce una lunga serie di passioni, come l'angoscia, la speranza, la paura; che tuttavia non deriva immediata- mente da alcuna affezione o idea. Le impressioni di riflessione si possono suddividere in due generi: quelle calme e quelle violente. Appartengono al primo genere il senso del bello e del deforme nelle azioni, nelle composizioni, e negli oggetti esterni. Al secondo genere, invece, appartengono le passioni di amore e d'odio, di angoscia e di gioia, di orgoglio e d'umiltà. Questa suddivisione è tutt'altro che esatta. I rapimenti della poesia e della musica assurgono spesso alle vette più alte; mentre le altre impressioni, che propriamente si chiamano passioni, possono degradarsi in un'emozione tanto scialba da diventare, in certo modo, impercettibile. Ma, siccome le passioni sono, generalmente, molto più violente delle emozioni sorte dal bello o dal deforme, comunemente si distinguono queste impressioni le une dalle altre. Essendo la mente umana un argomento tanto denso e vario, intendo qui adottare questa distinzione volgare e pretestuosa, per procedere poi con il maggiore ordine possibile: avendo già espresso tutto ciò che ritenevo necessario riguardò alle nostre idee, non mi resta ora che spiegare le passioni e le emozioni violente, la loro natura, l'origine, le cause e gli effetti. Se gettiamo uno sguardo alle passioni, non possiamo che dividerle in dirette e indirette. Per passioni dirette io intendo quelle che sorgono immediatamente dal bene o dal male, dal dolore o dal piacere. Per indirette, invece, quelle che derivano dai medesimi princìpi, ma unite ad altre qualità. Non mi è possibile, per ora, giustificare o spiegare ulteriormente questa distinzione. Posso soltanto osservare che, generalmente, le passioni indirette comprendono l'orgoglio, l'umiltà, l'ambizione, la vanità, l'amore, l'odio, l'invidia, la in pietà, la malizia, la generosità, con tutto ciò che ne deriva. Le passioni dirette, d'altronde, comprendono il desiderio, l'avversione, l'angoscia, la gioia, la speranza, il terrore, la disperazione e la fiducia. Inizierò trattando le prime. Dal momento che le passioni di ORGOGLIO e UMILTà sono impressioni semplici e uniformi, non è possibile, come del resto per tutte le altre passioni, definirle in modo corretto, a prescindere dal numero di parole impiegate. Tutt'al più, possiamo ambire a descriverle enumerando le varie circostanze che le accompagnano: ma poiché le parole orgoglio e umiltà sono di uso generale, e poiché le impressioni che rappresentano sono più che comuni, chiunque, allora, sarà di per sé in grado di formarsene un'idea esatta, senza pericolo di errore. Per questa ragione, dunque, non mi dilungherò in preliminari, dedicandomi immediatamente all' esame di queste passioni. E' evidente che l'orgoglio e l'umiltà, sebbene direttamente contrari, si riferiscono pur sempre a uno stesso OGGETTO. Questo oggetto è l'io, ossia la successione di idee e impressioni collegate, di cui abbiamo intimamente memoria e coscienza. E' proprio qui, infatti, che si fissa il nostro sguardo quando siamo mossi da una di queste passioni. In funzione al fatto che la nostra idea di noi stessi sia più o meno favorevole, sentiamo una o l'altra di queste opposte affezioni, e saremo esaltati dall' orgoglio oppure afflitti dall'umiltà. A prescindere dagli altri oggetti che la nostra mente può prendere in considerazione, noi li consideriamo sempre in rapporto a noi stessi; altrimenti non potrebbero mai sollecitare queste passioni, né produrne il benché minimo aumento o diminuzione. Quando non consideriamo l'io, non c'è spazio né per l'orgoglio né per l'umiltà. Ma, per quanto queste due passioni abbiano sempre a oggetto la successione di percezioni connesse, che chiamiamo io, è pur sempre impossibile che questo possa essere la loro CAUSA, o che sia di per sé sufficiente a suscitarle. Poiché, infatti, queste passioni sono direttamente contrarie, avendo lo stesso oggetto in comune, se anche quest'oggetto fosse la loro causa, non potrebbe mai produrre una di queste passioni, senza suscitare allo stesso grado anche l'altra; e questa opposizione e contrarietà dovrebbe quindi distruggerle entrambe. E' impossibile che un uomo possa essere simultaneamente orgoglioso e umile: laddove egli avesse differenti ragioni per provarle entrambe, come spesso accade, queste passioni si succederebbero alternativamente; oppure, incontrandosi, una annichilirebbe l'altra, in funzione della sua forza, e soltanto ciò che resta della predominante proseguirebbe ad agire sulla mente. Ma qui nessuna delle due potrebbe mai prevalere sull' altra; se infatti supponiamo che a suscitarle fosse soltanto l'aver di mira il nostro io, poiché gli è completamente indifferente sia l'una che l'altra, dovrebbe produrle entrambe esattamente nella stessa proporzione; ossia, in altre parole, non dovrebbe produrne nessuna. Sollecitare una passione, e insieme destare allo stesso grado la sua antagonista, corrisponde a distruggere quel che si era fatto, lasciando infine la mente perfettamente calma e indifferente.
David Hume, "Trattato sulla natura umana" Bompiani, 2016, p. 551 – 557
Hume tenta di dare un senso alle idee sulla manipolazione mentale dell'infanzia messo in atto dai gesuiti. Non parla contro la manipolazione mentale dell'infanzia, vuole cercare filosoficamente i meccanismi e le spiegazioni delle motivazioni per estenderle all'intera società. Vuole trovare delle spiegazioni al meccanismo della relazione fra idee e passioni. L'azione dei gesuiti nella manipolazione mentale dell'infanzia è un'azione pratica. Un'azione che ha la sua origine tecnica nella bibbia (Deuteronomio 6, 6 – 9) ma che si realizza mediante la coercizione e solo in presenza del bambino costretto alla coercizione.
Hume vuole "spiegare", ma non dispone di elementi concreti su cui basare le proprie deduzioni e finisce per farneticare proiettando sul mondo il proprio desiderio che il mondo (idee e passioni, in questo caso) siano e si esprimano come lui vuole che siano e che si esprimano. Questo desiderio, espresso da Hume, è il fondamento del colonialismo, del razzismo e dello schiavismo. Infatti, per lo schiavista il diritto di prevaricazione è ciò che lui vuole che sia e non ciò che desidera lo schiavo.
Quelle di Hume non sono delle idee, ma sono un tentativo di interpretare la realtà della manipolazione mentale sull'infanzia mediante spiegazioni che portino il lettore ad accettare l'idea della separazione dell'anima dal corpo.
Hume non puntava a diffondere delle idee, ma puntava su un successo editoriale capace di procurargli fama e ricchezza. Fallito il successo economico, Hume dichiara che le sue idee sono nate morte. Hume non risente del fallimento in quanto, per paura della critica, aveva pubblicato i libri come anonimo.
Nel 1740 Hume pubblica il terzo libro del "Trattato sulla natura umana" dal titolo "Un tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento nei soggetti morali".
Questo terzo libro è iniziato da Hume affermando:
Ogni ragionamento astruso è accompagnato dall'inconveniente che può ridurre al silenzio un avversario pur senza convincerlo, e che, per riconoscerne la forza, bisogna impiegare la stessa intensità di studio inizialmente necessaria per inventarlo. Quando lasciamo il nostro studio, e ci dedichiamo ai soliti affari della vita, le sue conclusioni sembrano svanire, come i fantasmi della notte al sorgere del sole: ci è difficile mantenere perfino quella convinzione che avevamo conquistato con difficoltà. Risulta ancora più manifesto in una lunga catena di ragionamenti, in cui dobbiamo quindi conservare fino alla fine 1'evidenza delle prime proposizioni, e in cui spesso perdiamo di vista le più condivise massime, sia quelle filosofiche sia quelle desunte dalla vita comune. Non dispero comunque che questo sistema filosofico acquisterà nuova forza nel suo sviluppo; e che i nostri ragionamenti sulla morale corroboreranno tutto quel che abbiamo detto sull'intelletto e sulle passioni. La moralità è un argomento che interessa più di ogni altro: immaginiamo che ogni decisione che la riguarda coinvolga la pace sociale stessa; ed è evidente che questo coinvolgimento debba fare in modo che le nostre speculazioni sembrino più reali e solide, rispetto a quando 1'argomento ci è in gran parte indifferente. Tutto ciò che ci coinvolge intensamente, noi concludiamo che non può mai essere una chimera; e siccome la nostra passione è impegnata da entrambi i fronti, ci è naturale pensare che la questione risieda nelle capacità della comprensione umana; di cui, in altri casi di questo genere, noi siamo spesso inclini a dubitare. Senza questo vantaggio non mi sarei mai avventurato a scrivere un terzo volume di una filosofia così astrusa, in un'età in cui la maggior parte degli uomini sembra concorde nel trasformare la lettura in un divertimento, e a rifiutare tutto quel che richiede, per essere compreso, un grado considerevole di attenzione. Si è già osservato che alla mente non si presentano che percezioni; e che tutte le azioni della vista, dell'udito, del giudizio, dell'amore, dell'odio, e del pensiero, sono tutte comprese da questa denominazione. La mente non può mai esprimersi in un'azione che non sia possibile comprendere con il termine di percezione; e quindi questo termine si può applicare tanto ai giudizi con cui distinguiamo il be- ne e il male morale, quanto a ogni altra operazione della mente. Approvare un carattere morale o condannarne un altro sono soltanto altrettante percezioni differenti. Ora, siccome le percezioni si distinguono in due generi, impressioni e idee, questa distinzione solleva una questione, con cui avvieremo la nostra indagine sulla morale: è dovuto alle idee oppure alle impressioni il fatto che noi distinguiamo la virtù dal vizio, e dichiariamo un'azione biasimevole oppure pregevole? Questo escluderà tutti i discorsi e le dichiarazioni arbitrarie, riconducendoci a qualcosa di preciso e di esatto in merito al presente argomento. Chi afferma che la virtù non è altro che una conformità alla ragione; che fra le cose esistono un'armonia e una disarmonia eterne, identiche per ogni essere razionale che le considera; che le misure immutabili di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato impongono un obbligo non soltanto alle creature umane, ma alla stessa Divinità: tutti questi sistemi convergono nell'opinione che la moralità, come la verità, discenda meramente dalle idee, per giustapposizione e per confronto. Allo scopo, dunque, di giudicare questi sistemi, noi dobbiamo solamente considerare se sia possibile, sulla base della sola ragione, distinguere tra il bene e il male morale, o se debba invece intervenire qualche altro principio perché noi possiamo compiere questa distinzione. Se la moralità non esercitasse naturalmente alcuna influenza sulle passioni e le azioni umane, sarebbe inutile impegnarsi tanto per inculcarla; e niente sarebbe più infruttuoso della molteplicità di regole e precetti di cui tutti i moralisti abbondano. Di solito la filosofia viene distinta in speculativa e pratica; e siccome la morale è sempre inclusa nella seconda, si suppone che possa influenzare le nostre passioni e azioni, e che trascenda i calmi e indolenti giudizi dell'intelletto. D'altronde è l'esperienza comune a confermarcelo, informandoci che gli uomini sono spesso governati dai loro doveri, e così la supposizione che certe azioni siano ingiuste li distoglie dal compierle, mentre sono costretti a compierne altre che ritengono obbligatorie. Dunque, poiché la morale influenza le azioni e le affezioni, ne segue che non possono derivare dalla ragione; poiché, come abbiamo già provato, la sola ragione non può mai esercitare una simile influenza. La morale suscita le passioni, producendo o impedendo determinate azioni. La ragione è di per sé impotente al riguardo. Le regole della moralità, quindi, non sono affatto conclusioni della nostra ragione. Nessuno, io credo, negherà la correttezza di questa inferenza; né è possibile eluderla senza negare il principio su cui si fonda. Finché si riconosce che la ragione non esercita alcuna influenza sulle nostre passioni e azioni, sarà inutile pretendere che la morale venga scoperta soltanto per una deduzione di ragione. Un principio attivo non può mai fondarsi su di uno inattivo; e se la ragione fosse in sé inattiva, dovrebbe rimanere tale in tutte le sue forme e sembianze, sia manifestandosi in argomenti naturali o morali, sia considerando i poteri dei corpi esterni, o le azioni degli esseri razionali. Sarebbe tedioso ripetere tutti gli argomenti con cui ho già provato che la ragione è perfettamente inerte, e non può mai impedire né produrre un'azione o un'affezione. Sarà facile ricordare ciò che abbiamo già detto a questo proposito. Mi limiterò a rievocare soltanto uno di quegli argomenti, che cercherò di rendere ancora più decisivo, e maggiormente applicabile al presente argomento. La ragione è la scoperta della verità o della falsità. Verità o falsità consistono in un accordo o in un disaccordo sia con le reali relazioni di idee, sia con 1'esistenza e con i dati di fatto reali. Perciò, tutto quel che non va soggetto a questo accordo o disaccordo, non può essere vero o falso, e non può mai essere oggetto della nostra ragione. Ora, è evidente che le nostre passioni, volizioni, e azioni, non sono suscettibili di un tale accordo o disaccordo; poiché sono fatti e realtà originarie, complete in sé, e tali da non implicare alcun riferimento ad altre passioni, volizioni, e azioni. E' quindi impossibile poterle dichiarare vere o false, né contrarie o conformi alla ragione. Questo argomento comporta un duplice vantaggio per il nostro scopo attuale. Esso infatti prova direttamente che le azioni non derivano il loro merito dal conformarsi alla ragione, né la loro spregevolezza dall'esserle contrarie; e prova la stessa verità in modo indiretto, mostrandoci che, siccome non può mai impedire o produrre immediatamente un'azione contraddicendola o approvandola, la ragione non può essere la fonte della distinzione tra il bene e il male morale che invece esercitano proprio una tale influenza. Le azioni possono essere lodevoli oppure spregevoli; ma non possono mai essere ragionevoli oppure irragionevoli: l'essere lodevoli o spregevoli, perciò, non coincide con l'essere ragionevole o irragionevole. Il merito e il demerito delle azioni spesso contraddice e talvolta controlla le nostre propensioni naturali. La ragione, invece, non esercita una simile influenza. Le distinzioni morali, quindi, non sono un parto della ragione. La ragione è del tutto inattiva, e non può mai generare un principio tanto attivo come la coscienza, o il senso morale.
David Hume, "Trattato sulla natura umana" Bompiani, 2016, p. 901 – 907
Hume non disperava, nonostante il fallimento della pubblicazione dei primi due libri, che il suo sistema di pensiero acquisterà nuova forza e i suoi ragionamenti sulla morale confermeranno quello che ha detto sull'intelletto e sulle passioni.
Secondo Hume la morale è importante in quanto ogni decisione che la riguarda porta alla pace sociale. Ma di quale pace sociale parla Hume? La pace del re o la pace degli schiavi? Ha mai trattato Hume le ragioni dei "selvaggi" o degli "schiavi"? Dunque, lui non ha trattato la "natura umana", ma ha trattato la natura umana del dominatore di uomini. Non ha trattato dell'intelligenza umana perché non ha mai parlato dell'intelligenza del "selvaggio" o dell'intelligenza dello "schiavo". Hume non ha mai trattato l'uomo, ma solo il padrone di uomini al di là della gerarchia in cui Hume colloca il padrone di cui parla.
Riconosce che la sua filosofia è "astrusa", ma possiamo dire "inconcludente" come è inconcludente Hume che si pone al di sopra degli uomini perché, mentre loro alla sua età leggono per diletto, lui non si rifiuta di affrontare ciò che richiede grande attenzione.
La mente, la ragione, la coscienza, sono tutti oggetti che dentro di noi vengono sospesi quando il nostro corpo passa all'azione. L'azione sospende, sia pur per un attimo, mente coscienza e ragione. Solo quando l'azione diventa inevitabile o dopo l'azione, la mente, la coscienza e la ragione riprendono il controllo dell'individuo. La ragione tenterà di spiegare il perché dell'azione e la coscienza sarà modificata in seguito all'esperienza che l'azione ha prodotto.
Nella necessità di controllare l'uomo, dopo aver riaffermato il suo meccanismo di idea e di impressioni, Hume afferma: " è dovuto alle idee oppure alle impressioni il fatto che noi distinguiamo la virtù dal vizio, e dichiariamo un'azione biasimevole oppure pregevole?".
No! Noi distinguiamo fra virtù e vizio a seconda dell'interesse che ne traiamo censurando un'azione come vizio o chiamando un'azione come virtù. L'interesse consiste nel controllare l'uomo che per vivere è costretto a mettere in atto delle azioni, spesso rispondendo alle proprie tensioni pulsionali che il padrone di uomini vuole rubare all'uomo sottomesso.
Si tratta di "vile interesse monetario" che porta a classificare delle azioni come virtuose o come viziose. L'azione non è un oggetto in sé, è espressione di un individuo che abita i mondo in cui vive e che in quel mondo agisce. Dall'interesse monetario procede tutto il discorso sulla morale di Hume: il suo interesse monetario.
Come quando Hume afferma:
"La ragione è la scoperta della verità o della falsità. Verità o falsità consistono in un accordo o in un disaccordo sia con le reali relazioni di idee, sia con 1'esistenza e con i dati di fatto reali."
La ragione non scopre una verità o una menzogna, la ragione descrive, per come può, un dato di realtà. Che questa descrizione sia vera o falsa, alla ragione non importa purché sia funzionale a rispondere ai "perché" dell'uomo. Alla ragione non interessa se è il sole che gira attorno alla terra o la terra attorno al sole. Ogni spiegazione, per la ragione, è indifferente purché essa, padrona di quell'individuo, possa continuare ad esistere, descrivere il mondo senza troppa conflittualità e allontanare l'uomo dalla ricerca di risposte più articolate o complesse della realtà in cui vive (ricerca scientifica).
E "Il trattato sulla natura umana" viene concluso da Hume:
E' necessaria una minima conoscenza delle faccende umane, per percepire che un qualche senso morale è un principio inerente all'anima, e che costituisce uno dei princìpi più potenti della sua configurazione. Ma questo senso deve certamente acquisire nuova forza, quando, riflettendo su se stesso, approva i princìpi da cui deriva, e trova soltanto ciò che è grande e buono al suo originario sorgere. Chi risolve il senso morale in un istinto originario della mente umana può difendere con sufficiente autorità la causa della virtù; pur mancando il vantaggio che arride a chi spiega quel senso morale attraverso una simpatia estensiva per il genere umano. Secondo questo ultimo sistema, non soltanto bisogna approvare la virtù, ma anche il senso della virtù: e non soltanto quel senso, ma anche i princìpi da cui deriva. In questo modo da ogni lato si presenta soltanto ciò che è lodevole e buono. Questa osservazione la si può estendere alla giustizia, e alle altre virtù di quel tipo. Sebbene la giustizia sia artificiale, il senso della sua moralità è naturale. E' la combinazione degli uomini, in un sistema di condotta, a rendere un atto di giustizia benefico per la società. Ma una volta che un atto possiede quella tendenza, noi lo approviamo naturalmente; e se non lo facessimo, sarebbe impossibile per una combinazione o convenzione produrre quel sentimento. La maggior parte delle invenzioni umane sono soggette a cambiamento. Dipendono infatti dall'umore e dal capriccio. Sono di moda per un certo periodo, e poi sprofondano nell'oblio. Si potrebbe forse paventare che, riconoscendola come un'invenzione umana, anche la giustizia dovrebbe essere posta sullo stesso piano. Ma i casi sono assolutamente differenti. L'interesse su cui si fonda la giustizia è il più grande che si possa immaginare, e si estende a ogni tempo e ogni luogo. Nessuna altra invenzione potrebbe adeguarglisi. E' infatti ovvio, e si svela al primo formarsi della società. Tutte queste cause rendono le regole di giustizia salde e immutabili; immutabili almeno quanto la natura umana. E se si fondassero su di un istinto naturale potrebbero essere ancora più stabili? Lo stesso sistema può aiutarci a formare una nozione esatta tanto della felicità quanto della dignità della virtù, e può interessare ogni principio della nostra natura ad abbracciare e sollecitare quella nobile qualità. Chi infatti non prova una accesso di alacrità nella sua ricerca di conoscenza e di capacità di ogni tipo, quando considera che oltre al vantaggio che risulta immediatamente da queste acquisizioni, possono anche dargli nuovo lustro agli occhi del genere umano, e si accompagnano universalmente a stima e approvazione? E chi può pensare che un vantaggio della fortuna sia un compenso sufficiente per la minima infrazione delle virtù sociali, quando consideriamo che non soltanto il suo carattere riguardo agli altri, ma anche la sua intima pace e soddisfazione dipendono completamente dalla loro stretta osservanza; e che l'animo di una persona che abbia mancato di svolgere il suo ruolo verso il genere umano e la società, non sarà mai in grado di sopportare la vista di se stesso? Ma eviterò di insistere su questo argomento. Queste riflessioni richiedono un lavoro separato, molto diverso dall'ingegno necessario per questa indagine. L'anatomista non dovrebbe mai emulare il pittore: e nelle sue accurate dissezioni e nelle descrizioni delle parti più minute del corpo umano non dovrebbe mai pretendere di conferire alle sue figure un'attitudine o un'espressione graziose o attraenti. Dal punto di vista di ciò che rappresenta si trova persino qualcosa di ripugnante, o per lo meno minuzioso; ed è necessario che gli oggetti siano disposti a maggiore distanza e che siano celati alla vista, per renderli attraenti per l'occhio e per l'immaginazione. E' tuttavia ammirevole il fatto che un anatomista sia in grado di consigliare un pittore; ed è persino impraticabile eccellere in quest'ultima arte, senza l'assistenza della prima. Dobbiamo infatti possedere una conoscenza esatta delle parti, della loro collocazione e della loro connessione, prima di poterle disegnare con una certa eleganza e precisione. E così le speculazioni più astratte sulla natura umana, per quanto aride e per niente affascinanti, diventano sussidi importanti per la morale pratica; e possono rendere quest'ultima scienza più corretta nei suoi precetti, e più persuasiva nelle sue esortazioni.
David Hume, "Trattato sulla natura umana" Bompiani, 2016, p. 1217 – 1219
Il trattato termina con il riconoscimento della preminenza dell'anima sul corpo. Un'anima che per Hume manifesta naturalmente un "qualche senso morale" che è, secondo Hume, uno dei principi più potenti della configurazione dell'anima. Un'anima che "approva i principi da cui deriva e trova soltanto ciò che è grande e buono al suo originario sorgere".
Tutto questo non è filosofia, tutto questo è "delirio". Un delirio composto di affermazioni anziché di argomentazioni. Dove la contrapposizione fra il pittore e l'anatomista è pura e semplice sofistica come se l'uno e l'altro fossero in contrapposizione e non potessero coesistere l'uno nell'altro.
In conclusione, il trattato non porta a nessuna conclusione. Hume nel scrivere il trattato volle fare una bella figura, ma non aveva idea per la quale scrisse il trattato e quale utilità poteva avere il trattato per gli uomini.
Nel 1741, psicologicamente abbattuto dopo il fallimento della pubblicazione del "Trattato sulla natura umana", Hume si ritira a vita privata a Ninewells dove si dedica a scrivere delle raccolte di "Saggi morali e politici". L'anno seguente aggiunge una seconda raccolta di saggi. La pubblicazione ha un buon successo e decide di fare carriera universitaria.
Nel 1744 presenta la propria candidatura per la cattedra di Etica e filosofia pneumatica all'Università di Edimburgo. Hume viene accusato di essere un ateo e uno scettico. L'accusa priva Hume della cattedra che viene assegnata a William Cleghorn.
Persa la cattedra Hume è costretto ad accettare vari impieghi. Diventa tutore del marchese di Annandale e segretario del generale di Sto Clair col quale viaggia in ambasciata a Vienna e Torino. Questa attività impegna Hume fra il 1745 e il 1747.
Nel 1748 pubblica " Philosophical Essays Concerning Human Understanding" (Saggi filosofici riguardanti l'intesa umana) rimaneggiando il "Trattato sulla natura umana" nel tentativo di renderlo più appetibile al pubblico.
Nel 1758 lo stesso libro sarà pubblicato col titolo " An Enquiry Concerning Human Understanding" (Un'inchiesta concernente l'intesa umana). Il tentativo è quello di separare la propria persona dal coinvolgimento ideologico delle idee espresse nel trattato. Vuole che il trattato appaia come uno studio sull'intesa politica degli uomini e non come le sue idee sulle relazioni fra gli uomini. Continuano a circolare le accuse ad Hume di essere ateo e quando nel 1752 vorrebbe pubblicare i " Dialogues Concerning Natural Religion" (Dialoghi sulla religione naturale) viene sconsigliato da Adam Smith. I dialoghi saranno pubblicati solo nel 1772 dopo la sua morte.
Sono da ricordare, per inciso, che le idee di Adam Smith (che poi riflettono quelle di Hume) partono dal presupposto che Dio governa la società attraverso la Provvidenza imprimendo alle cose un ordine naturale in ottemperanza all'ideologia di Paolo di Tarso o della lettera di Pietro:
"Schiavi, obbedite in ogni cosa ai vostri padroni secondo la carne, non solo quando vi vedono, come per piacere agli uomini, ma con sincerità di cuore, per timore del signore. Tutto quello che fate, fatelo di cuore, come per il signore e non per gli uomini, sapendo che riceverete in ricompensa l'eredità dalle mani stesse di dio. E' a cristo signore che voi servite. Chiunque, invece, commette ingiustizia, commetterà secondo l'ingiustizia commessa: non vi sarà accettazione di persone."
Paolo di Tarso, lettera ai Colossesi 3, 22-25
"Servi siate sottomessi con ogni rispetto ai vostri padroni, non solo a quelli che sono buoni o ragionevoli, ma anche a quelli di carattere intrattabile. poiché piace a dio che si sopportino afflizioni per riguardo verso di lui, quando si soffre ingiustamente. infatti che gloria vi è nel sopportare di essere battuti, quando si ha mancato? Ma se voi, pur avendo agito rettamente, sopportate sofferenze, questo è gradito davanti a dio. Anzi è appunto a questo che voi siete stati chiamati, perchè Cristo pure ha sofferto per voi, lasciandovi un esempio affinché ne seguiate le orme." I Pietro 2, 18-21
Applicando quest'ideologia in campo economico, Adam Smith ritiene che ogni individuo è spinto da una mano invisibile (Dio) ad agire rispetto a fini che lui non progetta ma che, inevitabilmente, è costretto a perseguire. Da qui il disprezzo di Adam Smith per ogni persona che cerca la giustizia sociale contro l'ordine imposto da "Dio". Per questo motivo, secondo Adam Smith, è necessario concedere ad ogni uomo della società il diritto di arricchirsi anche trafficando in schiavi e costringendo altri uomini alla sottomissione.
Scrive Hume per dare un senso ai "Dialoghi sulla religione naturale" in apertura:
Dopo essermi congiunto alla compagnia che trovai riunita nella biblioteca di CLEANTE, DEMEA fece dei complimenti a CLEANTE per la grande attenzione che dedicava alla mia educazione, oltre che per la perseveranza instancabile e la fedeltà in tutte le sue amicizie. Il padre di PANFILO, disse, era vostro intimo amico, il figlio è vostro discepolo, anzi si potrebbe considerarlo come il vostro figlio adottivo, se dovessimo giudicare dall'impegno profuso nel trasmettergli la conoscenza di ogni utile branca della letteratura e della scienza. Sono convinto che la prudenza non vi manchi più dell'operosità. Perciò vi farò conoscere una massima che ho osservato nei confronti dei miei figli, per capire quanto sia conforme alla vostra pratica. Il metodo da me seguito nella loro educazione si basa sul detto di un autore antico, e cioè che «gli studenti di filosofia debbono prima apprendere la logica, poi l'etica, quindi la fisica e per ultima la natura degli Dei». Giacché questa scienza della teologia naturale è, secondo lui, la più profonda e astrusa di tutte, essa richiede da coloro che la studiano la più grande maturità di giudizio, e nessuno, se non una mente nutrita di tutte le altre scienze, può dedicarvisi in tutta sicurezza. Tardate tanto, disse FILONE, a istruire i vostri figli nei principi della religione? Non c'è il rischio che essi tralascino o addirittura rifiutino quelle opinioni di cui hanno sentito dire tanto poco in tutto il corso della loro educazione? Ritardo lo studio della teologia naturale, rispose DEMEA, solo in quanto essa è scienza soggetta ai ragionamenti e alle dispute degli uomini. E' mia cura precipua abituare sin dalla giovinezza le loro menti alla pietà e, servendomi di precetti e insegnamenti continui oltre che, si spera, dell'esempio, imprimo a fondo nelle loro tenere menti tutti i principi della religione. E a mano a mano che percorrono tutte le altre scienze, sottolineo ancora l'incertezza di ogni loro parte, le eterne controversie degli uomini, l'oscurità dell'intera filosofia e le strane, ridicole conclusioni che i più grandi geni hanno ricavato dai principi della semplice ragione umana. Dopo avere così abituato la loro mente a una giusta sottomissione e a diffidare di se stessa, non ho più alcuno scrupolo a introdurli nei più grandi misteri della religione, né temo più alcun pericolo da quell'aria arrogante propria della filosofia che potrebbe indurli a rifiutare le dottrine e le opinioni più solide.
David Hume, Dialoghi sulla religione naturale, BUR, 2013, p. 121 – 123
L'intento è la manipolazione della struttura dei ragazzi per indurli alla sottomissione e all'obbedienza sottraendoli all'aria arrogante della filosofia e alla loro capacità di deduzione.
La religione naturale di Hume non è altro che cristianesimo che viene separato dal libro, dalla rivelazione, per manifestarsi naturalmente nella natura umana.
E' l'idea dei gesuiti. Discutere il cristianesimo partendo dalla rivelazione come scritta nella bibbia e nei vangeli significa esporre il cristianesimo alla critica. Una critica che investe Gesù e Dio stesso. Molti si immedesimano in Dio mentre stermina gli abitanti di Sodoma e Gomorra, ma qualcuno potrebbe vedere in questa azione di Dio la massima ferocia e condannare Dio per la sua malvagità. Ma se gli stessi principi di sottomissione che il cristianesimo usa per aggredire gli uomini non sono il risultato della rivelazione della bibbia e dei vangeli, ma sono considerati come manifestazione della natura umana ecco che quegli stessi principi non possono essere messi in discussione in quanto sono "principi naturali". Ma soprattutto, non può essere accusato Dio di sottomettere gli uomini in quanto questi si sottomettono per natura. Come il "selvaggio" che Hume sottomette per venderlo come schiavo in quanto non ha mai visto "in un nero" un barlume di intelligenza.
Anche se Hume non pubblica i "Dialoghi sulla religione naturale" gli viene impedito di prendere il posto di Adam Smith all'università di Glasgow nel 1751.
Nel 1752 Hume trova lavoro come conservatore della biblioteca degli avvocati di Edimburgo (Advocates' Library di Edimburgo). Lavorando in biblioteca ha a disposizione una notevole quantità di documenti che usa per scrivere "La storia dell'Inghilterra" il cui primo volume è pubblicato nel 1754 ed è dedicato a Giacomo III e Carlo I.
La storia d'Inghilterra sarà pubblicata in vari volumi in anni successivi. Il secondo volume nel 1756, nel 1759 il terzo volume e il quarto, che completerà l'opera, nel 1761.
L'History of England sarà un buon successo editoriale.
Nel febbraio del 1757 Hume pubblica "Four Dissertations" (Quattro dissertazioni) relative alla "storia della religione", "della passione", "della tragedia", "dello standard del gusto". A queste quattro dissertazioni dovevano esserne aggiunte altre due, "dell'immortalità" e "del suicidio", ma le polemiche che suscitarono costrinsero Hume a ritirarle.
Fra il 1763 e il 1766 Hume occupa il ruolo di segretario d'ambasciata di Lord Hertford e questo gli permette di trascorrere tre anni a Parigi dove frequenta i salotti di marchese e contesse come quello della marchesa di Deffand, di Madame de Lespinasse o la contessa de Bouffiers. In quei salotti incontra Diderot, D'Holbach e D'Alembert. Incontra anche Rousseau che alle offerte di Hume di ospitarlo in Inghilterra risponde con ostilità.
Hume, tornato in Inghilterra nel 1767 viene incaricato di assumere l'incarico di sottosegretario di Stato per gli affari del Nord e per gli affari interni nel governo di William Pitt.
Nel 1768 torna ad Edimburgo con una ricca rendita finanziaria annuale.
Fra il 1768 e il 1775 Hume si dedicherà a sistemare i suoi scritti. Hume fu criticato dai filosofi della scuola scozzese, Beattie James (1735-1803) e Thomas Reid (1710-1796), per il suo scetticismo. La scuola scozzese è la scuola filosofica del "senso comune" cioè: la realtà non è diversa da ciò che noi diciamo che sia. Da qui l'idea della scuola scozzese secondo cui "Babbo Natale porta i regali" perché lo afferma il senso comune.
Le critiche di Beattie e Reid mettono paura a Hume che si rivolge al proprio editore per pubblicare delle precisazioni interpretative del " Essays and Treatises" (Saggi e trattati) distinguendo un'interpretazione giovanile dei suoi scritti da un'interpretazione che Hume vuole presentare come "più matura".
Nel 1775 a David Hume viene diagnosticato un tumore allo stomaco.
Il 25 agosto 1776 David Hume muore.
Marghera, 6 giugno 2019
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Claudio Simeoni
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