Le biografie dei filosofi che partecipano alla partita di calcio
John Locke nasce a Wrington il 29 agosto 1632 e morirà a Hight Laver il 28 ottobre 1704. Il padre di John Locke, anche lui di nome John, era un avvocato. Era stato un capitano di cavalleria al servizio delle forze parlamentari durante la guerra civile inglese. La madre di John Locke, Agnes Keene, era, come il marito, cristiana puritana.
La madre di John Locke morì durante la sua infanzia. John e il suo unico fratello, Thomas, furono cresciuti dal padre, avvocato nella cittadina di Pensford vicino a Bristol, in Inghilterra.
Locke crebbe in una casa rurale dei Tudor a Belluton. John era di salute cagionevole e per lo scoppio della guerra civile, nel 1642, non frequentò una scuola, ma fu istruito a casa.
Nel 1646, all’età di quattordici anni, fu ammesso alla Westminster School dove rimase per sei anni. Alla scuola era sotto il patrocinio di Alexander Popham, un membro del parlamento e comandante di suo padre.
Nel 1652 a 21 anni fu ammesso alla Christ Church, Oxford, nell'autunno del 1652.
Nel 1658 fu eletto studente senior e come tale ha insegnato filosofia greca e morale nell’Università di Oxford. Per continuare la carriera di insegnante avrebbe dovuto essere consacrato (ministro di culto). Infastidito dalle opere classiche, sembra che preferisse i filosofi moderni, per questo passò a studiare medicina ottenendo una licenza per praticare. In quel tempo John Locke incontra Robert Boyle, uno scienziato fondatore della Royal Society, con cui intraprende lo studio delle scienze naturali.
Nel 1659 Locke scrive la sua prima lettera sulla tolleranza. Lettera inviata ad H. Stubbe. In questo trattato sulla tolleranza Locke esclude i cattolici perché, dando obbedienza allo Stato e al papa, potrebbero mettere in pericolo lo Stato obbedendo agli ordini del papa. Essendo le due autorità contrapposte, creano un conflitto intimo che si riversa inevitabilmente dentro la società civile e non dentro la chiesa cattolica. Per cui, a soffrire dell’assolutismo cattolico è la società civile mentre ad avvantaggiarsi della tolleranza civile è la chiesa cattolica.
Fra gli anni 1960 e 1962 Locke scrive due piccoli trattati sulla tolleranza. Questi scritti furono inediti fino al 1961 e trattavano il diritto dell’autorità politica di imporre cose o comportamenti diversi da quelli canonicamente religiosi durante le attività di culto. Erano scritti assolutisti ed integralisti. Il primo scritto era in inglese, datato 11 dicembre 1660, e intitolato "Domanda: se il magistrato civile possa legittimamente imporre e determinare l’uso di cose differenti in relazione al culto religioso". Il secondo è un breve trattato in latino e, come il primo, si intitola "Può il magistrato arrogarsi le cose differenti nei riti del culto e imporle al popolo?". In entrambi gli scritti la risposta era "sì". Sono scritti contro la tolleranza elaborati nel periodo della restaurazione. Scritti contro quel tentativo di separare le chiese dallo Stato impedendo alle religioni (cattolici, anabattisti, puritani, quaccheri ecc.) di costituirsi in comunità autonome dallo Stato sottraendosi al controllo giuridico dello stesso.
Queste tesi del controllo dello Stato saranno riviste parzialmente da Locke nello scritto sulla tolleranza del 1667. Locke non ha mutato prospettiva sui diritti dello Stato di imporre un culto o reprimerne altri, ha pensato che fosse più saggio agire chirurgicamente contro alcuni culti piuttosto che fare una legge generale che valga per tutti. E’ importante la "generale tolleranza religiosa" perché permette la pratica dell’intolleranza nei casi specifici.
Per ora mi limito a rilevare che manca la considerazione del diritto del singolo cittadino rispetto alle associazioni religiose. Si parla di religioni e di Stato, non si parla di uomini di quello Stato in relazione alle religioni. Non si parla del diritto del singolo individuo rispetto alla religione, ma solo dei diritti sociali della religione come ente.
Nel 1668 fu nominato membro della Royal Society.
Nel 1667, a 35 anni inizia la sua attività politica diventando segretario di Lord Ashley che diventerà il conte di Shaftesbury.
Com’era il conte di Shaftesbury?
Di quello che sarebbe stato il primo conte di Shaftesbury è stato detto che «sembra quasi che se lo sia inventato Marx». Ed effettivamente questo grande proprietario che era al tempo stesso grande Imprenditore, « democratico» nella madrepatria e mercante di schiavi nelle colonie, realista all'inizio della guerra civile, poi parlamentare quando le forze del Parlamento cominciavano a prendere il sopravvento, poi di nuovo realista, e fautore tra i principali della Restaurazione, in ultimo «sovversivo» ed organizzatore di uno sfortunato complotto inteso ad evitare l'ascesa al trono di un re cattolico; presbiteriano in un primo tempo, conformista anglicano dopo l'Act of Uniformity, ma fondamentalmente irreligioso; curioso di scienza empirica, sostenitore della tolleranza per ragioni esclusivamente politiche ed economiche, promotore della guerra, a sfondo commerciale, contro l'Olanda e al tempo stesso desideroso di emulare il sistema politico olandese; questo grande libertino che era al tempo stesso un uomo d'affari scrupoloso ed impegnato, appare davvero l'incarnazione del capitalismo « progressivo». Ora, Ashley era persuaso che i veri nemici dell'Inghilterra non fossero i dissenzienti protestanti, ma i cattolici. Nel corso della sua intera vita politica, egli perseguì, sia nella politica interna che nella politica estera, l'annientamento dell'influenza del «partito papista», giungendo fino a montare, attraverso un uso cinico delle false testimonianze, un inesistente «complotto papista» che portò all'esecuzione di una ventina di cattolici innocenti. Esisteva certamente, in Inghilterra, un partito cattolico: esso faceva capo addirittura all'erede al trono, Giacomo, duca di York, notoriamente filocattolico e senz'altro convertito dopo il 1673. E « papismo » era una parola dalle risonanze sinistre: evocava, più ancora della società anteriore alla Riforma, dissolta creando interessi costituiti che sarebbe stato difficile rimettere in discussione (sebbene, tra il 1672 e la Gloriosa Rivoluzione, alcuni temessero anche questo), e più ancora della breve restaurazione cattolica di «Maria la Sanguinaria», la fase filocattolica della chiesa anglicana, dominata dalla figura dell'arcivescovo Laud: un periodo che ogni protestante inglese avrebbe voluto dimenticare. Ma, agli occhi di Ashley e della maggior parte della società inglese della Restaurazione, il papismo significava soprattutto la Francia di Luigi XIV; e una politica non rigorosamente antipapista poteva significare la scelta di una posizione subalterna, innanzitutto sul piano commerciale, rispetto a questa grande potenza economica, politica e militare, infinitamente più solida (anche se meno efficiente) dell'Olanda ormai sostanzialmente battuta. Per il capitalismo imperialistico di cui Ashley era esponente, una scelta di questo genere sarebbe stata rovinosa per i propri diretti interessi nelle grandi compagnie commerciali, che estivano, in regime di monopolio, i traffici d'oltremare; di più, Ashley e i suoi pari avevano buon gioco quando identificavano l'interesse nazionale inglese con l'interesse delle grandi compagnie (cioè col loro).
Tratto dall’introduzione a Locke, Scritti sulla tolleranza, Utet, 2005, p. 27 – 28
Lord Ashley era un assassino che inventava complotti per assassinare persone ed era un trafficante di schiavi. Questo è l’uomo di riferimento del filosofo John Locke.
Per comprendere la vita e la filosofia di John Locke è necessario che definiamo che cos’è un "liberale" e in che cosa consiste il pensiero "liberale".
In parole stringenti e concise: l’ideologia liberale è l’ideologia che pretende la libertà dell’uomo di possedere altri uomini ridotti in schiavitù. L’uomo che possiede altri uomini ridotti in schiavitù vuole essere libero rispetto a condizioni imposte da una monarchia assoluta che, in nome di Dio, pretende che tutti gli uomini siano ugualmente in ginocchio davanti al monarca. Il liberale sarà colui che farà guerra al monarca per essere libero di poter possedere uomini ed usarli a piacimento e farà guerra agli uomini affinché accettino di essere posseduti per soddisfare i propri bisogni.
Per capire il pensiero e la filosofia di John Locke dobbiamo comprendere questo meccanismo ideologico che in quegli anni, fra il 1600 e il 1700 si stava imponendo in Europa.
E’ il regime borghese che inizia ad imporsi sulla monarchia assoluta.
Scrive nell’introduzione (forse D. Marconi) a Locke "Scritti sulla tolleranza":
Carlo II era stato chiamato al trono da una coalizione d'emergenza tra alcuni generali e alcuni grandi interessi economici: si trattava quindi di un sovrano «assunto». Tuttavia, la sua assunzione era stata senza condizioni: la stessa Dichiarazione di Breda si limitava a garantire il rispetto di diritti largamente consolidati, che comunque sarebbero stati difesi con la forza. E Carlo II era ben deciso a regnare concedendo il meno possibile ai condizionamenti parlamentari, conformemente alla tradizione (la cui scarsa fortuna avrebbe dovuto insegnargli qualcosa) della casa Stuart, a cui apparteneva. Ora, che il re pensasse di governare indipendentemente dal Parlamento, se non contro di esso, era comunque pericoloso, in Inghilterra; ma era addirittura grottesco nel caso di un re che, per la sua politica di ogni giorno, dipendeva completamente dai prestiti dei banchieri e dei mercanti della City. Quando Carlo II, cessando il pagamento degli interessi su una parte del debito pubblico, pretese di imporre un suo assoluto diritto sul denaro del sudditi (Stop of the Excbequer, 1672) venne posto uno dei presupposti più importanti della Gloriosa Rivoluzione. Dopo di allora, infatti, non si ristabilì mai più un rapporto di fiducia tra la corona e i gruppi finanziari più forti.
Tratto dall’introduzione a Locke, Scritti sulla tolleranza, Utet, 2005, p. 25 – 26
Quando Locke incontra Asley l’unica esperienza politica che aveva fatto era un’ambasceria a Cleve nel Brandenburgo fatta nel 1665 in una missione diplomatica guidata da Sir Walter Vane legata alla guerra anglo-olandese ancora in atto. In quella città Locke constatò che varie confessioni religiose come i luterani, i calvinisti, gli anabattisti e i cattolici convivevano.
Nel 1672 Lord Asley viene nominato cancelliere e John Locke può partecipare attivamente alla politica di governo dell’Inghilterra.
La figura di Lord è una figura abbastanza ambigua. Entrato a far parte del Parlamento Corto, istituito da Carlo II, in rappresentanza di Tewkesbury nel Gloucestershire, fu rappresentante di Poole nel Parlamento Lungo. Allo scoppio della guerra civile si schierò prima dalla parte del re e poi divenne un sostenitore di Oliver Cromwell. Alla caduta di Cromwell nel 1660 appoggiò il ritorno del re Carlo II. Con Carlo II ritornarono gli Stuart e ricevette il titolo di barone diventando primo barone Ashley di Wimborne St. Giles nel Dorset e poi ebbe l’incarico di Cancelliere dello scacchiere. Come ministro era in lotta con il capo del governo Lord Clarendon spesso per questioni religiose. Nel 1663 fu nominato come uno degli otto nominati Lords Proprietors nell'America del Nord. In seguito alla sua posizione sulla legge Exclusion Bill (che voleva impedire ai cattolici di succedere agli anglicani) fu costretto a fuggire nei Paesi Bassi dove morì nel 1683.
Nel 1675 John Locke si reca in Francia dal momento che il conte suo protettore era entrato in disgrazia e si dedica a scrivere il Saggio.
Nel 1679 John Locke è al seguito del conte di Shaftesbury tornato al potere, ma quando il conte ricade in disgrazia accusato di tradimento, deve fuggire in Olanda, dove morirà nel 1682, Locke, sospettato di complicità nel 1683 fugge anche lui in Olanda dove vi rimane fino al 1688
Nel 1688 prenderà parte ad una nuova rivolta che porterà sul trono dell’Inghilterra Guglielmo d’Orange e la moglie Maria mentre il re Giacomo II (come re di Scozia è Giacomo VII), cattolico, è costretto alla fuga. Si rifugerà in Francia e dopo un tentativo di invasione dell’Irlanda tornerà esiliato in Francia presso il re cattolico francese. In Francia morirà nel 1701. Solo e abbandonato farà il penitente in un convento che lo ospita e morirà in seguito per una emorragia cerebrale.
Nel 1688 inizia l’invasione dell’Inghilterra da parte di Guglielmo d’Orange e Locke accompagnò Maria II, la moglie e futura regina d’Inghilterra, in Inghilterra nel 1688.
Da allora Locke vive nella casa di Lady Masham nell’Essex e seguirà i suoi lavori. Divenne un eroe ideologico del partito Whig. Il Whig era uno dei più importanti partiti politici in Inghilterra fra la fine del seicento e la metà dell’ottocento e rappresentava l’alta borghesia, la finanza, le banche e la nobiltà inglese.
Nel 1696 John Locke fu nominato Commissioner del Board of Trade. L’organismo, creato appunto nel 1696 si occupava di sovraintendere all’insieme dei problemi della manifattura, del commercio e delle colonie. Soprattutto si occupava dell’utilizzazione produttiva dei poveri. In sostanza, di come usare i poveri ridotti in stato di schiavitù.
Il 28 ottobre del 1704 John Locke muore. Ricordo che John Locke non si sposò né ebbe dei figli. Il suo grande amore fu Lord Ashley che divenne conte di Shaftesbury.
Alcuni accenni al pensiero di John Locke.
John Locke criticò l’innatismo.
Riporta il dizionario di filosofia della Garzanti alla voce Locke:
… non esiste affatto un consenso universale, cioè un accordo di tutti gli uomini, nel riconoscere quelle idee e verità che si pretende siano innate (l'idea di Dio, i principi speculativi a partire da quello di non contraddizione, i principi morali). Ci sono popoli primitivi che mancano dell'idea di Dio e altri ne hanno immagini ridicole e comunque assai diverse le une dalle altre. Altrettanta varietà si riscontra nelle concezioni morali, alcune poi eccentriche e ripugnanti. I principi speculativi, infine, sono sconosciuti ai fanciulli, agli idioti ecc. e in genere a chi non abbia avuto occasione di apprenderli. Questi esempi mostrano che non esistono idee innate consapute esplicitamente da tutti gli uomini. Se poi per innatismo si intende la tesi che sia innata la capacità di pervenire a determinate idee e conoscenze, Locke ribatte che ciò è vero per qualsiasi idea o conoscenza (sicché è più ragionevole pensare che tutte derivino dall'esperienza) e che inoltre non ha senso affermare che la mente possiede un'idea finché questa non sia attualmente presente al pensiero. Quanto all'innatismo morale e religioso, Locke argomenta che gli uomini ritengono innate o naturali quelle credenze che hanno ricevuto dalla prima educazione, avendole assimilate senza consapevolezza alcuna di come esse siano penetrate via via nel loro animo. Da questa illusione spontanea deriva la dogmatica convinzione che ci siano credenze che si garantiscono da sé, senza bisogno di un esame razionale, e questa è anche la radice di ogni fanatismo e intolleranza.
Tratto da: Enciclopedia di filosofia, voce Locke, Garzanti, 1999 p. 650
Quanto afferma Locke sulla formazione delle idee rientra nella sua guerra al cattolicesimo e per la necessità di liberare il dominio borghese dall’assolutismo monarchico la cui idea proviene da Dio. Mentre i dogmatici cristiani affermano che ci sono delle idee innate a fondamento della produzione delle idee sociali e religiose, quelli che, in tempi più recenti, Jung definirà "archetipi" mentre Hillman "Dèi", Locke afferma che l’uomo nasce come una tabula rasa e che la formazione della sua coscienza e del suo modo di guardare il mondo si fonda sull’esperienza.
E’ indubbio che l’uomo nasce privo di esperienza, ma non è una tabula rasa: è "ogni cosa" in potenza e questa "ogni cosa" viene selezionata mediante l’esperienza che viene vissuta mediante il corpo che abita un mondo di infiniti fenomeni in una continua battaglia che il soggetto mette in atto per costruire e adattare sé stesso alle condizioni del mondo. La lotta dell’individuo per adattarsi al mondo non è fatta mediante forze archetipe che abitano il corpo, ma è più vicina agli Dèi che abitando il corpo rispondono ai fenomeni del mondo.
Questa idea di Locke non è inserita in un contesto di liberazione dell’uomo, inteso come soggetto abitatore del mondo, dalle forze che condizionano la formazione della sua coscienza e della sua capacità di agire nel mondo, ma è inserita nella tecnica di dominio dell’uomo sull’uomo in funzione del dominio della finanza e della borghesia sull’uomo.
In sostanza, Locke sta mettendo a punto un’idea d’azione della società sull’uomo per costruire un uomo adattato alla società stessa svincolato dall’azione della chiesa cattolica (i cristiani in generale, ma nel suo caso dalla chiesa cattolica) che violenta e plasma l’individuo in funzione del proprio dominio nella società.
L’idea liberale propria della borghesia consiste nel liberarsi dall’ideologia feudale, che mette al centro delle trasformazioni dell’uomo la religione, la religione cattolica, come agente che violenta e condiziona il futuro servo del feudo.
Una volta che Locke afferma che
"Se poi per innatismo si intende la tesi che sia innata la capacità di pervenire a determinate idee e conoscenze, Locke ribatte che ciò è vero per qualsiasi idea o conoscenza (sicché è più ragionevole pensare che tutte derivino dall'esperienza) e che inoltre non ha senso affermare che la mente possiede un'idea finché questa non sia attualmente presente al pensiero."
E’ sufficiente all’industria o alla finanza costruire un’esperienza che incontri la necessità soggettiva dell’individuo per attivare nell’individuo quelle e solo quelle idee che agiscono nella coscienza dei soggetti che dominano.
E il concetto è chiaro nella quarta lettera sulla tolleranza in cui Locke scrive:
Un'altra ipotesi falsa su cui vi basate è questa: che la religione vera è sempre abbracciata con l'assenso più fermo. E’ ben difficile che ci sia qualcuno che ha così poca dimestichezza col mondo da non essersi imbattuto in esempi di uomini irremovibilmente fiduciosi e pienamente sicuri di una religione che non era vera. E tra le molte religioni assurde che ci sono al mondo quasi non ce n'è una che non trovi devoti disposti a scommettere la loro vita su di essa: e se non è solida persuasione e sicurezza piena quella che è più forte dell'amore per la vita, ed ha abbastanza forza da indurre un uomo a gettarsi tra le braccia della morte, c'è da chiedersi che cosa sia solida persuasione e sicurezza piena. Ebrei e maomettani hanno spesso fornito esempi di questo grado massimo di persuasione; e in Oriente la religione dei Bramini è, professata dai suoi seguaci con non minore sicurezza della sua verità, dal momento che non è insolito che alcuni di loro si gettino sotto le ruote di un gran carro, su cui, nei giorni solenni, essi portano in processione l'effige del loro Dio, per esservi schiacciati a morte, sacrificando così la loro vita in onore del Dio in cui credono. Se si obbietta che questi sono esempi di uomini comuni, di umile condizione, mentre i grandi del mondo, i capi delle società, non si danno altrettanto facilmente ad una bigotteria impenitente, io rispondo che palesemente la persuasione che essi hanno della verità della loro religione è abbastanza forte da far sì che essi mettano a repentaglio se stessi ed usino la forza nei confronti degli altri in base alla fede che hanno in essa. I sovrani sono fatti come gli altri uomini: credono in base alle stesse ragioni degli altri uomini, ed in base a quella fede agiscono con passione non minore, ancorché le ragioni della loro persuasione non siano in se stesse molto chiare, o possa sembrare ad altri che esse non possiedano il massimo della solidità. Gli uomini agiscono per la forza della loro persuasione, anche se non sempre essi collocano la loro persuasione ed il loro assenso là dove risiede, in realtà, la forza della verità. Ragioni non meditate, non ascoltate, non correttamente afferrate, non debitamente valutate, non fanno alcuna impressione sull'intelletto: e la verità, per quanto possa esserne riccamente provvista, non può ricevere l'assenso, e rimane negletta. Su questo punto, l'unica differenza tra i sovrani e gli altri uomini è questa: che i sovrani sono in genere più perentori in materia di religione, ma meno istruiti. La mollezza ed i piaceri della corte, a cui sono abbandonati in genere quando sono giovani, e gli affari di stato, che li occupano completamente quando sono uomini fatti, raramente lasciano a qualcuno di loro il tempo di riflettere ed esaminare, sì da poter abbracciare la vera religione. E qui il vostro disegno, sulla base della vostra ipotesi, presenta un errore fondamentale, che lo butta all'aria. Voi affermate infatti che la forza, adoperata a modo vostro, è il mezzo necessario ed adeguato per condurre gli uomini alla vera religione; e d'altra parte lasciate privi i magistrati di questi mezzi necessari ed adeguati per essere condotti alla vera religione, benché sia quella la via più rapida, anzi, stando al vostro progetto, l'unica via per condurre ad essa gli altri uomini: voi la sostenete affermando che è il solo metodo. Ma per andar oltre, voi sarete forse pronto a replicare che non dite semplicemente che gli uomini non possono credere ed abbracciare religioni false altrettanto fermamente della vera, ma che non possono farlo altrettanto fermamente e razionalmente. Questo, sia vero quanto si vuole, non avvantaggia in nulla la vostra causa. Vi si ripropone infatti, qui, la domanda (che voi non potete non prendere in considerazione, data la vostra maniera di argomentare): a chi spetta giudicare se il magistrato abbraccia e crede la sua religione razionalmente, oppure no? Se è lui stesso il giudice, allora certamente egli agisce razionalmente, e la cosa non può non svolgersi, nel suo caso, come se fosse la più razionale del mondo; se tocca a voi giudicare per lui, se la sua credenza è razionale oppure no, per quale ragione non è possibile che siano altri a giudicare per lui, così come voi? o almeno che egli giudichi per voi, come voi per lui: almeno fino al momento in cui avrete esibito la vostra patente di infallibilità, e il mandato di sovrintendente alla fede dei magistrati della terra, e mostrato il mandato in virtù del quale siete nominato direttore spirituale dei magistrati del mondo, per quanto riguarda il loro credere qual è, o non è, la vera religione.
John Locke, Scritti sulla tolleranza, Utet, 2005, p. 757 – 759
Il meccanismo di Locke è abbastanza semplice. Esistono idee costruite nell’infanzia che determinano le idee religiose anche le più assurde. Il magistrato (inteso come sistema giuridico dell’insieme della società civile) giudica tali idee e determina le regole per imporre la "vera religione" che, agendo nell’infanzia, modifica le idee religiose in funzione delle necessità della società. Tutte le altre religioni non sono vere, sono ridicole o tali da condannare come quella ebrea, musulmana, dei Bramini o gli atei.
Qual è l’idea religiosa che interessa a Locke? Quella funzionale alla finanza, al sistema industriale, al sistema di commercio, al sistema coloniale fino alla manipolazione degli uomini che vende come schiavi al fine di assicurare la ricchezza dei proprietari nelle colonie.
Per Locke è importante che lo schivo comperato e venduto nelle colonie sia in possesso di una mentalità da schiavo che lo renda dipendente dalla propria condizione e non deve immedesimarsi in Dio e pretendere di diventare il padrone dei suoi padroni.
Ogni religione è oggettivamente falsa nella misura in cui sottomette l’uomo ad un soggetto esterno che ne determina la morale, l’etica e le idee sulla vita. Ogni religione è oggettivamente vera nel momento stesso in cui le sue regole e i suoi dogmi tendono a rimuovere gli ostacoli che si presentano nella vita dell’uomo. Ma questo tipo di religione è al servizio dell’uomo come soggetto in sé, vivente e abitante il mondo e non distingue razza, classe economica, sesso ecc. E’ l’uomo in quanto tale. Il metro di misura della realtà oggettiva di una religione è la qualità della vita degli uomini socialmente più fragili in quella società. Il vero e il falso di una religione, non è ciò che è oggettivamente vero o oggettivamente falso, ma ciò che è soggettivamente utile e per Locke è soggettivamente utile dominare l’uomo in funzione della finanza, delle banche dell’industria e della nobiltà inglese.
Locke espone il suo pensiero sulla formazione delle idee.
Scrive il Dizionario di Filosofia della Garzanti:
Locke distingue inoltre tra sostanze materiali e spirituali, ma rifiuta l'identificazione cartesiana dell'essenza delle prime con l'estensione e delle seconde col pensiero. Poiché non conosciamo i corpi più di quanto conosciamo le anime, è ingiustificata l'ipotesi materialistica, anche se non si può escludere che Dio possa aver dotato certi corpi della facoltà di pensare (ammissione che verrà ripresa da Voltaire per propagandare il materialismo).
Tratto da: Enciclopedia di filosofia, voce Locke, Garzanti, 1999.
Ciò che Locke non può escludere è l’unica cosa che può essere negata aprioristicamente in quanto non ha nessun riferimento nei dati di realtà, ma peggio ancora non ha nessuna giustificazione dall’esistenza della realtà: l’intervento di Dio sulla realtà.
In secondo luogo, non si possono affermare "dati spirituali" se non come manifestazione di un corpo. E, anche se noi non conosciamo esattamente il corpo, col corpo noi viviamo e col corpo costruiamo le nostre esperienze. Locke, trafficando in schiavi, non traffica in "sostanze spirituali", ma traffica in "corpi viventi", materiali che, anche se non li conosce, li pesa e li misura.
E’ proprio dell’ideologia liberale che ha nell’idea di proprietà il mezzo per possedere gli individui come "carne da lavoro" o "carne da macello" far propria l’idea platonica e cristiana della divisione corpo e anima che, nell’idea di Locke, serve ad un doppio controllo sugli uomini ridotti ad oggetti di possesso: il corpo controllato per i profitti del lavoro e lo spirito controllato mediante il cristianesimo. In questo modo si giustifica una doppia macellazione degli uomini: perché cedano al proprietario il frutto del loro lavoro e perché cedano il loro "spirito" al cristianesimo. E’ solo la logica colonialista che ha distrutto le società.
Per il discorso di Locke su pensiero e il linguaggio, scrive il dizionario di filosofia della Garzanti:
Gli universali, le idee generali, si trovano solo nella mente degli uomini. Essi sono tradotti in segni linguistici per le necessità della comunicazione, cui obbediscono appunto le lingue. Al rapporto tra il pensiero e il linguaggio è dedicato il libro del Saggio: le parole sono segni delle idee, e non direttamente delle cose; il rapporto tra le idee e le parole è del tutto arbitrario (e a maggior ragione tra le parole e le cose), anche se l'abitudine lo fa passare per naturale. Ne deriva che in un pensiero non controllato criticamente l'oscurità e l'indeterminatezza delle parole viene a sostituirsi alle idee: questo errore è l'origine della maggior parte delle dispute filosofiche e dei conflitti religiosi e civili che hanno travagliato l'umanità. La minuziosa analisi dedicata da Locke alla genesi e al valore delle idee ha appunto lo scopo di liberare l'uomo da tale errore e dalle sue nefaste conseguenze.
Tratto da: Enciclopedia di filosofia, voce Locke, Garzanti, 1999.
Il pensiero, il linguaggio e le parole nelle idee di Locke è direttamente funzionale alla sua ideologia del possesso. Colui che possiede non può accettare discorsi "astratti" da parte dei posseduti perché il valore delle parole, in tali discorsi, è del tutto arbitraria e, dunque, le pretese degli oggetti posseduti nei confronti di chi li possiede è un pensiero "non controllato criticamente" dove "l’oscurità e l’indeterminatezza delle parole viene a sostituirsi" alle idee che legittimano il possesso. "Questo errore" dice Locke "è l'origine della maggior parte delle dispute filosofiche e dei conflitti religiosi e civili che hanno travagliato l'umanità" solo perché gli uomini non hanno voluto sottostare a chi li trasformava in oggetti di possesso e in oggetti d’uso.
Un valore ha il discorso per cui Locke contende all’assolutismo cristiano il diritto di possedere individui e un altro conto è la pretesa di Locke di giustificare il suo possesso di individui. Da qui la giustificazione del traffico di schiavi a cui Locke ha partecipato e al quale partecipano gli industriali e la grande finanza internazionale assieme alla finanza Vaticana supportata dall’ideologia cristiana.
Locke affronta anche il discorso sula conoscenza umana e sulle possibilità.
Scrive l’enciclopedia della filosofia:
La conoscenza è la percezione dell'accordo o disaccordo tra le idee. Essa è di due tipi: intuitiva (immediata e chiara, perciò non bisognosa di alcuna prova); dimostrativa, o per prova (ottenuta mediante una serie più o meno complicata di passaggi, ognuno dei quali però, singolarmente considerato, è pur sempre di carattere intuitivo). La conoscenza non può quindi andare al di là delle idee che possediamo e non può avere la pretesa di estendersi all'intero universo. Possiamo tuttavia pervenire alla conoscenza della esistenza reale delle cose, e ciò in tre modi: conosciamo intuitivamente, senza bisogno di prova, la nostra propria esistenza; dimostrativamente, quella di Dio (poiché è logicamente necessario postulare una causa prima del mondo); per sensazione, infine, l'esistenza delle cose fuori di noi. […] Anche la fede religiosa deve essere subordinata a un'analisi razionale: sia perché è pur sempre la ragione a decidere l'attendibilità di chi riferisce la rivelazione, sia perché le proposizioni in contrasto con la conoscenza certa sono inaccettabili. Far tacere la ragione di fronte alla pretesa rivelazione è come cavarsi gli occhi nell'illusione di vederci meglio, illusione che dà luogo al fanatismo («entusiasmo»).
Tratto da: Enciclopedia di filosofia, voce Locke, Garzanti, 1999.
Il fanatismo di Locke gli fa affermare l’esistenza di Dio in quanto "poiché è logicamente necessario postulare una causa prima del mondo". Un conto è pensare ad "una causa prima del mondo" e un altro conto è attribuire quella "causa prima" pensando ad un soggetto di nome "Dio" che viene manifestato mediante gli attributi della bibbia.
Non si tratta di "illogicità" si tratta di "pensiero criminale". Perché non si tratta di un pensiero fine a sé stesso, ma si tratta di formulare un mezzo con cui sottomettere le persone a "Dio" giustificandone l’esistenza con una presunta "causa prima" del mondo.
A proposito delle idee di Locke sullo Stato, scrive l’enciclopedia di filosofia:
Dei Due trattati sul governo il primo critica l'assolutismo (nella versione biblico-patriarcale di Robert Filmer), il secondo elabora una teoria liberale dello stato. A fondamento di entrambi c'è il concetto di «legge di natura» (norme dettate dalla ragione per garantire a ogni uomo la vita, la libertà e la proprietà, cioè quei diritti fondamentali la cui violazione va punita). Particolarmente innovatrice è la tesi lockiana del carattere naturale del diritto alla proprietà, in quanto fondato sul lavoro personale e il legittimo possesso dei suoi frutti. Prima dell'instaurazione dello stato politico, nel cosiddetto «stato di natura», è già possibile una vita sociale, ma quel che ancora manca è un giudice imparziale che dirima i conflitti tra i singoli.
Enciclopedia di filosofia Gazanti, voce Locke, 2003.
John Locke legittima lo Stato coloniale e la rapina che in quanto genera "proprietà" diventa in sé legittima. Lo Stato deve garantire alle persone, secondo Locke, la vita, la libertà e la proprietà. In sostanza, secondo l’ideologia di Locke, lo Stato deve garantire la libertà di trasformare uomini in un proprietà privata e questa proprietà privata, secondo Locke, è legittima. Attraverso questa idea Locke si occupa di traffico di schiavi e fa guadagni con i proventi del traffico di schiavi.
Questa idea di Locke viene coniugata nell’industria moderna in cui gli operai sono proprietà privata dell’industriale che nella sua fabbrica sospende tutti i diritti sociali per sottomettere gli operai al suo volere. Infatti, la situazione nelle fabbriche manifatturiere Inglesi era una situazione schiavista che vedeva bambini costretti al lavoro da schiavi e questa forma di sfruttamento dell’oggetto umano posseduto era comune in tutta Europa.
Le idee sullo Stato di Locke non solo hanno fatto milioni di morti sia nelle colonie che in Inghilterra (estendendo l’orrore in tutta Europa), ma tutt’ora continuano ad essere praticate dagli industriali con la complicità delle Istituzioni che anziché obbedire alla Democrazia preferiscono disarticolare la società civile.
L’assolutismo patriarcale della bibbia, rappresentato dalla monarchia assoluta, può limitare l’attività dell’industriale nella gestione della sua proprietà umana e per questo Locke vuole spostare la funzione dello Stato come garante della libertà con cui disporre degli Esseri Umani trasformati in bestiame sottomesso.
Questa idea sarà l’idea di Stato a fondamento dell’ideologia della Massoneria e diventa idea a fondamento degli Stati Uniti dopo la rivoluzione americana.
A questo punto è interessante conoscere alcuni aspetti del pensiero di John Loche a proposito del concetto di "tolleranza" e di "tolleranza religiosa in particolare".
Come si è ricordato all’inizio di questa biografia il pensiero di Locke era assolutista e fortemente intollerante rispetto a forme religiose, pur cristiane, diverse dalla propria. Due categorie religiose vengono particolarmente avversate da Locke e sono i cattolici e gli atei. I cattolici vengono avversati per le guerre di religione del periodo storico in cui vive Locke dove protestanti inglesi e cattolici scozzesi sono in guerra per contendersi il trono. Gli atei vengono vessati perché negano la realtà del dio dei cristiani.
Anche quando Locke cambierà atteggiamento rispetto all’assolutismo e scriverà il "saggio sulla tolleranza" e le sue quattro lettere sulla "Tolleranza", rispetto a questi due gruppi religiosi Locke sarà sempre intollerante. Allora è da chiedersi: che cosa tollerava Locke diverso da sé?
Scrive Locke nel suo Saggio sulla Tolleranza:
Dato che gli uomini acquisiscono abitualmente la loro religione all'ingrosso, e fanno proprie le opinioni del loro partito in un sol mucchio, avviene spesso che essi mescolino col loro culto religioso e con le opinioni speculative altre dottrine assolutamente distruttive per la società in cui vivono, come è evidente nel caso dei cattolici romani che siano sudditi di un sovrano diverso dal papa. E perciò costoro, in quanto mescolano con la loro religione opinioni siffatte, le rispettano come verità fondamentali e si sottomettono ad esse come ad articoli della loro fede, non devono essere tollerati dal magistrato nell'esercizio della loro religione, a meno che egli possa avere la garanzia di poter ammettere una parte senza che si diffonda l'altra, e che quelle opinioni non saranno assorbite e assunte da tutti coloro che sono in comunione con loro nel culto religioso; cosa che, suppongo, è ben difficile che avvenga. E 15 ciò che può renderli ancor meno passibili di tolleranza si verifica quando essi dispongono del potere di un sovrano vicino, della loro stessa religione, che approvi e sostenga in ogni occasione queste dottrine pericolose per il governo. L'obiezione che normalmente si avanza contro la tolleranza è che è compito principalissimo del magistrato difendere la pace e la tranquillità del governo; e perciò egli è tenuto a non tollerare nel suo paese religioni diverse, poiché, essendo queste distinzioni in forza delle quali gli uomini si uniscono e si associano in corpi separati da quello pubblico, esse possono essere occasioni di disordine, di cospirazioni e di sedizioni nella società politica e così mettere in pericolo il governo. Rispondo che, se tutte le cose che possono occasionare disordine o cospirazione in una società politica non devono esservi sopportate, allora si devono togliere di mezzo tutti gli uomini scontenti ed attivi, ed il bisbiglio deve essere meno tollerato della predicazione, in quanto è più probabile che esso persegua e fomenti una cospirazione. E se ogni accolita di uomini associati in una unione o corporazione distinta dalla società pubblica non deve essere sopportata, devono essere necessariamente soppressi gli statuti di tutte le città, particolarmente di quelle grandi. Gli interessi degli uomini che si uniscono nella religione sono rivolti altrettanto poco e forse meno contro il governo di quelli di coloro che si uniscono nei privilegi di una corporazione. Di questo sono certo: che sono meno pericolosi, perché sono maggiormente dispersi e non organizzati in un ordinamento del genere. D'altronde le opinioni umane sono tanto svariate nelle questioni religiose, e tanto sottili e scrupolose nelle cose che riguardano l'interesse eterno, che là dove gli uomini sono indiscriminatamente tollerati e non vengono costretti a stare insieme dalla persecuzione né dalla forza essi sono propensi a dividersi e suddividersi in così tante piccole comunità, sempre caratterizzate alla massima ostilità per coloro da cui per ultimi si sono separati o a cui sono più vicini, che gli uni costituiscono una protezione nei confronti degli altri, e la collettività non può avere niente da temere da loro fintantoché essi partecipano equamente della comune giustizia e protezione. E se l'esempio dell'antica Roma (in cui tante differenti opinioni, differenti Dèi e differenti forme di culto erano indiscriminatamente tollerate) ha qualche peso, abbiamo ragione di immaginare che nessuna religione possa essere sospettata dallo Stato di avere cattive intenzioni nei suoi confronti fino al momento in cui il governo per primo, usandole un trattamento parziale, diverso da quello del resto dei sudditi, manifesta le sue cattive intenzioni nei confronti di chi ne fa professione, e di conseguenza ne fa una questione politica.
John Locke, Scritti sulla tolleranza, Utet, 2005, p. 104 – 107
Non siamo davanti alla tolleranza per i diversi culti religiosi. Non siamo davanti alla tolleranza per i diversi. In Locke c’è la richiesta ai cittadini di essere tolleranti nei confronti della violenza arbitraria dello Stato nei loro confronti.
Non si dice che alcune pratiche possono essere vietate, ma si dice che può apparire nello Stato l’idea che un determinato culto religioso possa essere pericoloso e perciò va represso dallo Stato in quanto culto religioso, non in quanto pratiche del culto non ammesse.
E tanto più dice Locke, quando essi hanno un capo o un re che possa favorirne le pratiche religiose o una possibile idea di sovversione nei confronti dello Stato. L’idea di sovversione non è il prodotto di azioni in atto, ma è il prodotto di un’idea aprioristica della religione che domina lo Stato.
In Locke non troviamo mai la tolleranza nei confronti dei cittadini che partecipano ad una religione differente a quella dominante, ma siamo nella condizione in cui Locke chiede ai cittadini la tolleranza nei confronti della violenza fatta dalla religione dominante.
Questo è il Saggio sulla tolleranza di Locke. E si tratta della guerra di religione fra puritani, quacqueri, anglicani, cattolici con l’intervento dei protestanti. Stiamo parlando sempre di una condizione di libertà conchiusa nel cristianesimo in cui il cristiano Locke nega la libertà religiosa ad altri cristiani perché li ritiene pericolosi per lo Stato.
Come già abbiamo visto in una diversa citazione, il cristiano Locke tratta con disprezzo sia i musulmani che gli induisti che, guarda caso, diventeranno possedimenti coloniali Inglesi.
In sostanza, si può dire che Locke predica l’intolleranza.
Nella lettera sulla tolleranza indirizzata al sig. T.A.R.P.T.O.L.A. scrive Locke:
Ma, per scendere maggiormente nei particolari, dico in primo luogo che il magistrato non deve tollerare nessun dogma avverso e contrario alla società umana o ai buoni costumi, che sono necessari alla conservazione della società civile. Ma esempi di questo genere sono rari in ogni chiesa; nessuna setta infatti suole giungere a tal punto di follia da giudicare che si debbano insegnare come dogmi della religione cose che palesemente sovvertono i fondamenti della società, e perciò sono condannati dal giudizio unanime del genere umano, e a causa loro il suo stesso interesse, la sua pace, la sua buona fama non possono essere al sicuro. In secondo luogo, un male più nascosto, ma anche più pericoloso per lo stato è rappresentato da coloro che arrogano a se stessi e ai membri della loro setta una qualche prerogativa particolare, contraria al diritto civile, nascosta da un involucro di parole fatte apposta per trarre in inganno. Quasi in nessun luogo si troverà chi insegni brutalmente e apertamente che non si deve mantenere la parola data, che ogni setta può rovesciare il sovrano dal suo trono, che il dominio di tutte le cose spetta a loro soltanto. Infatti, se queste idee fossero esposte così apertamente e senza veli, subito risveglierebbero l'attenzione del magistrato, e immediatamente farebbero rivolgere gli occhi e l'impegno dello stato a far sì che questo male nascosto nel suo seno non serpeggi più. Si trova però chi con altre parole dice la stessa cosa. Infatti che altro intendono quelli che insegnano che non si deve mantenere la parola data agli eretici? Vogliono, è chiaro, che sia loro concesso il privilegio di venir meno alla parola data, dal momento che tutti coloro che sono estranei alla loro comunità sono dichiarati eretici, o possono esserlo quando se ne dia l'occasione. Il principio per cui i re scomunicati decadono dal regno, a che mira se non ad arrogare a sé l'autorità di spogliare i re del loro regno, dal momento che riconoscono il diritto di scomunica soltanto alla loro gerarchia? Che il potere sia fondato sulla grazia, finisce con 1'attribuire la proprietà di tutte le cose ai sostenitori di questo principio, che non nuoceranno a se stessi fino al punto di non voler credere e professare di essere veramente pii e fedeli. Sicché costoro e gli altri simili a questi, che attribuiscono ai fedeli, ai religiosi, agli ortodossi, cioè a se stessi, un privilegio o un'autorità in materia civile che li distingue dagli altri mortali, o rivendicano a se stessi, col pretesto della religione, una qualche autorità sugli uomini estranei alla loro comunità ecclesiale, o da essa in qualsiasi modo separati, non possono avere nessuno diritto ad essere tollerati dal magistrato; come neppure quelli che rifiutano di insegnare che anche i dissenzienti dalla loro religione devono essere tollerati. Che altro insegnano infatti costoro e tutti quelli come loro, se non che, non appena si dia loro l'occasione, essi attaccheranno il diritto dello stato, e la libertà e i beni dei cittadini? E chiedono al magistrato soltanto di concedere loro indulgenza e libertà fino a che avranno truppe e forze sufficienti ad osare quell'impresa. In terzo luogo, non può aver diritto ad essere tollerata dal magistrato quella chiesa in cui tutti coloro che sono ammessi passano per ciò stesso al servizio di un altro sovrano, e a lui devono obbedienza. Infatti a questo patto il magistrato darebbe luogo ad una giurisdizione straniera nel suo territorio e nelle sue città, e accetterebbe che si arruolassero soldati tra i suoi cittadini, contro il suo stato. Né reca alcun rimedio a questo male la futile e fallace distinzione tra corte e chiesa, dal momento che entrambe sono ugualmente sottoposte al potere assoluto dello stesso uomo, che può persuadere i membri della sua chiesa di tutto ciò che gli piace, o in quanto cosa spirituale o in quanto ordinata a cose spirituali, ed anzi può imporlo, minacciando la pena del fuoco eterno. è inutile che uno dica di essere maomettano soltanto per ciò che concerne la religione, e per il resto suddito fedele del magistrato cristiano, se ammette di dovere obbedienza cieca al Muftì di Costantinopoli, il quale, obbedientissimo a sua volta all'imperatore ottomano, inventa e pronunzia gli oracoli della religione secondo la sua volontà. Ancorché questo turco tra i Cristiani ripudierebbe assai più apertamente lo stato cristiano, se riconoscesse che il medesimo uomo che è capo dell'impero è anche capo della sua chiesa. In quarto e ultimo luogo, non devono in nessun modo essere tollerati coloro che negano che esista una divinità. Per un ateo, infatti, né la parola data, né i patti, né i giuramenti, che sono i vincoli della società umana, possono essere stabili o sacri; eliminato Dio anche soltanto col pensiero, tutte queste cose cadono. Inoltre, chi elimina dalle fondamenta la religione per mezzo dell'ateismo, non può in nome della religione rivendicare a se stesso il privilegio della tolleranza. Per quanto concerne le altre opinioni pratiche, anche se non del tutto esenti da errori, se esse non aspirano al potere o all'impunità nella società civile, non si può dare nessuna ragione per cui le chiese in cui sono insegnate non debbano essere tollerate.
John Locke, Scritti sulla tolleranza, Utet, 2005, p. 170 – 172
In sostanza, Locke predica l’intolleranza di tutto ciò che non funziona rispetto alla sua idea di religione o di Stato. Va perseguito ogni "dogma" avverso alla religione dello Stato e se io dico "Gesù è un delinquente" per Locke devo essere perseguitato perché la mia affermazione esprime un dogma avverso al dogma dello Stato.
Lo stesso vale per gli atei, per gli epicurei, per i musulmani e per gli induisti che sono, secondo Locke, delle religioni "ridicole".
A cosa si riduce la tolleranza tanto decantata da Locke? All’uso della religione, della religione cattolica, protestante, anglicana, puritana, ecc. come strumento di offesa nei confronti di chi ha una diversa religione o convinzioni diverse che deve essere ricondotto alla fede cristiana.
Il concetto di tolleranza di Locke è l’imposizione alle persone di tollerare la violenza della religione cristiana, di quella specifica religione cristiana, che si fa magistrato nei confronti degli uomini.
Dopo la prima lettera sulla tolleranza che segue il saggio sulla tolleranza, Locke scrive una seconda lettera sulla tolleranza in risposta a Jonas Proast un ecclesiastico anglicano cappellano del collegio All Souls che aveva scritto "Brevi considerazioni e risposte all’argomento della "Lettera sulla tolleranza". Questa lettera è datata 27 maggio 1690.
Scrive fra l’altro John Locke:
L'altra vostra argomentazione è questa: se è vero che è necessario usare la forza e le punizioni, «si deve allora riconoscere che esiste da qualche parte il diritto di fame uso; a meno che vogliamo affermare (che non può dirsi senza empietà) che il sapiente e benevolo Ordinatore e Reggitore di tutte le cose non ha provvisto l'umanità dei mezzi adeguati alla promozione del suo onore nel mondo, e del bene delle anime». Se il vostro modo di argomentare fosse valido, sarebbe una dimostrazione del fatto che non è necessario usare la forza. Infatti, seguendo il vostro schema, io argomento così: dobbiamo riconoscere che non è necessario l'uso della forza, (a meno che si voglia dire (che non può essere detto senza empietà) che il saggio Ordinatore e Reggitore di tutte le cose per più di trecento anni dopo Cristo non ha provvisto la sua chiesa di mezzi idonei alla promozione del suo onore nel mondo, e del bene delle anime». Sta a voi valutare se queste argomentazioni sono concludenti o no. Ma di questo sono certo: che l'una è concludente quanto l'altra. Del resto, se l'utilità che presupponete colloca da qualche parte il diritto di fame uso, ditemi, vi prego, in quali mani lo colloca in Turchia, in Persia, o in Cina, o in ogni altro paese in cui i Cristiani delle varie chiese vivono come sudditi di un sovrano pagano o maomettano. E se non siete in grado di dirmi in che mani lo colloca in quei luoghi, dato che ritengo che avrete una certa difficoltà a farlo; sembra allora che ci siano alcuni luoghi in cui, sulla base del vostro presupposto, che la forza è necessariamente utile, « il saggio e benevolo Reggitore e Ordinatore di tutte le cose non ha provvisto gli uomini di mezzi idonei alla promozione del suo onore e del bene delle anime»; a meno che ammettiate che « il saggio e benevolo Ordinato re e Reggitore di tutte le cose ha posto nei prìncipi maomettani o pagani, al fine di promuovere il suo onore e il bene delle anime, il potere di punire i Cristiani, per far sì che essi prendano in considerazione ragioni e argomentazioni adatte a persuaderli ». Questi sono i vantaggi di una pregevole invenzione, qual è quella dell'utilità indiretta e a distanza della forza; la quale utilità, se dobbiamo credervi, mette nelle mani dei principi maomettani o pagani il diritto di usare la forza contro i cristiani: per paura che in quei paesi l'umanità sia sprovvista di mezzi di promozione dell'onore di Dio e del bene delle anime. Così infatti argomentate: «Se la forza è tanto utile, allora esiste da qualche parte il diritto di fame uso; e se c'è da qualche parte un tale diritto, dove dovrebbe risiedere, se non nei sovrani civili?», Chi può negare ora che voi vi siate preso cura, una gran cura, della promozione della verità e della religione cristiana? Ma tuttavia non è meno difficile per me, lo confesso, e, credo, per altri, concepire come possiate pensare di rendere un servizio qualsivoglia alla verità e alla religione cristiana mettendo nelle mani dei maomettani o dei pagani il diritto di punire i cristiani; tanto quant'era difficile per voi concepire come l'autore potesse pensare «di rendere un servizio qualsivoglia alla verità e alla religione cristiana » esonerando dalle punizioni i suoi adepti in ogni luogo, per il fatto che al mondo ci sono più sovrani pagani, maomettani o eterodossi che non ortodossi; a prendere il mondo come lo si trova, è, sicuro che la verità e la religione cristiana saranno punite e represse più dell'errore e della menzogna.
John Locke, Scritti sulla tolleranza, Utet, 2005, p. 244 – 245
Le considerazioni di Locke sulla tolleranza, in questa seconda lettera, appaiono abbastanza chiare. In risposta al prete anglicano Locke ribatte che se si rende legittimo l’uso della forza per portare le persone alla "vera religione", nulla vieta a maomettani o ai pagani di fare altrettanto con i cristiani. Dal momento che l’azione colonialista cristiana sta devastando il mondo, come nell’America del nord, nulla poteva impedire ai nativi del nord America di usare la forza contro i cristiani per portarli alla loro "vera religione".
Le considerazioni di Locke sono ben lontane dall’auspicare la tolleranza religiosa. Sono, al contrario, un mezzo per negare la tolleranza religiosa e legittimare l’imperialismo religioso cristiano contro tutti i popoli.
La tolleranza come definita da Locke è uno strumento di guerra ideologica. La tolleranza viene imposta ai popoli affinché tollerino le violenze con cui i cristiani impongono la loro religione.
Dopo la seconda lettera sulla tolleranza, Locke scrive una terza lettera sulla tolleranza. Una lettera molto lunga in risposta a Proast.
Scrive John Locke:
E se uno vi richiedesse una dimostrazione delle verità della vostra religione, che fareste, vi prego: rinneghereste la vostra asserzione che si può conoscere che essa è vera, oppure tentereste di dimostrargliela? E quanto alla decadenza della vita e dello spirito stesso del Cristianesimo, e alla diffusione dell'epicureismo in mezzo a noi, io domando che cosa può tendere alla loro promozione più della dottrina, reperibile nella medesima lettera, secondo cui è lecito presumere che chi si conforma lo faccia a ragion veduta e per convinzione. Quando sarete in grado di fare un esempio di affermazione, della prima o della seconda lettera sulla tolleranza, altrettanto tendente alla promozione dello scetticismo religioso e dell'epicureismo, avremo ragione di pensare che ciò che dite ha qualche fondamento. Quanto all'epicureismo, la cui diffusione voi imputate parimenti al rilassamento delle vostre moderate leggi penali, esso, nella misura in cui si distingue dall'ateismo, penso riguardi più la vita degli uomini che la loro religione, cioè le loro opinioni teoriche in merito alla religione e alle forme del culto, che è ciò che intendiamo per religione in quanto essa ha a che fare con la tolleranza. Quanto alla tolleranza della corruzione dei costumi e della dissolutezza, né il nostro autore né io peroriamo la sua causa; diciamo anzi che è compito specifico del magistrato reprimerle ed eliminarle mediante le punizioni. Quindi io non biasimo il vostro zelo contro l'ateismo e l'epicureismo. Senonché, dandone la colpa alla tolleranza voi rivelate grande zelo contro qualche altra cosa; mentre è in potere del magistrato reprimerli ed eliminarli mediante leggi più efficaci di quelle a favore della conformità religiosa. Vi si dirà, infatti, che la professione esteriore della religione nazionale, anche quando essa sia la vera religione, non è contraria né incompatibile con l'ateismo o l'epicureismo più dell'adesione ad un'altra religione, particolarmente una confessione cristiana, differente da essa. E dunque invano voi imputate l'ateismo e l'epicureismo al rilassamento di leggi penali che non esigono più della conformità esteriore alla chiesa nazionale. Quanto alle sette e alle divisioni contrarie allo spirito cristiano (vi possono essere infatti altre divisioni, senza pregiudizio per il Cristianesimo) vi ho mostrato altrove a chi debbano essere principalmente attribuite. Una cosa non posso fare a meno di rilevare qui: che, dopo aver nominato «le sètte, le eresie, l'epicureismo, l'ateismo e la decadenza dello spirito e della vita del Cristianesimo» come frutti del rilassamento (e ve ne dava testimonianza l'esperienza passata), aggiungete queste parole: «Per non parlare (a scanso di offese) di cose che di questi tempi i nostri occhi non possono evitare di vedere». Chi è, ditemi, che temete tanto di offendere parlando di «epicureismo, ateismo e decadenza dello spirito e della vita del Cristianesimo» in mezzo a noi? Vedo che chi per una parte della sua lettera è tanto modesto che non vuole arrogarsi di insegnare ai legislatori e ai governanti neppure ciò che essi non possono sapere se non sono ammaestrati da lui, cioè che cosa egli intenda per pene o forza moderata, in un'altra parte della medesima lettera, con volgari insinuazioni, rivolge rimproveri che è difficile pensare non abbiano per destinatari i legislatori e i governanti. Ma, chiunque sia il destinatario, il fatto è che, nel caso di accuse che sono più facilmente insinuate che decifrate, è almeno consigliabile mettere in giro la calunnia in termini generali e lasciare ad altri il riferimento preciso, per timore che chi è nominato, e dunque legittimamente offeso da una falsa imputazione, si senta in diritto di domandare, come in questo caso, da che cosa risulta che « le sètte e le eresie si sono moltiplicate, l'epicureismo e l'ateismo si sono diffusi, la vita e lo spirito del Cristianesimo sono decaduti » in questi due anni più di quanto avvenisse prima; e che tutto questo disastro è dovuto al recente rilassamento delle leggi penali contro i dissenzienti protestanti.
John Locke, Scritti sulla tolleranza, Utet, 2005, p. 585 – 587
Appare evidente, da quanto scrive Locke, che la questione non è mai quella di tollerare l’altro, ma quella di imporre un tipo di mentalità morale consona allo Stato ai cittadini.
Non si tratta mai di tollerare o di riconoscere, ma di cercare il mezzo migliore per ridurre i dissidenti religiosi o sociali alla volontà dello Stato che è il detentore della vera religione. Nello stesso tempo, come abbiamo visto per la seconda lettera, si tratta di impedire ad altri Stati di fare altrettanto per imporre la loro "vera religione" ai cristiani. L’intolleranza verso l’epicureismo e contro gli atei è intolleranza verso stili di vita che allontanano le persone dall’assoggettamento al cristianesimo e, allontanandosi dal cristianesimo, si sottraggono anche al controllo di chi detiene il potere religioso nello Stato.
In Locke non esiste la tolleranza come oggi noi la pensiamo nel sistema di libertà di pensiero che considera ogni confessione religiosa uguale davanti alla legge, ma esiste l’uso furbesco della legge per reprimere comportamenti, propri di quelle forme religiose, che possono indurre le persone ad allontanarsi dal giogo del controllo cristiano.
La tolleranza in Locke è "repressione selettiva" per soddisfare le esigenze del controllo di Locke. Questa "repressione selettiva" di Locke viene a scontarsi col concetto di "repressione generalizzata" del prete anglicano Proast. Il lettore viene indotto a di fare per un "sistema repressivo selettivo" piuttosto che per un "sistema repressivo generalizza", ma si tratta sempre di un sistema repressivo e intollerante. Chiamare "tolleranza" l’intolleranza, non modifica la qualità dell’intolleranza, serve solo a presentare l’intolleranza e la violenza con un volto amichevole.
Con la terza lettera sulla tolleranza Locke pensa di aver esaurito la contrapposizione. Ed in effetti Proast non rispose a questa terza lettera sulla tolleranza se non dopo dodici anni. Dodici anni dopo lo scritto di Proast era rivolto essenzialmente contro lo scritto di un amico di Locke, John Shute che aveva scritto "Diritti dei dissenzienti protestanti", ma nella sua replica Proast incluse la terza lettera sulla tolleranza di Locke.
Locke scrisse una quarta lettera sulla tolleranza. Ormai era vecchio e la lettera rimarrà un’incompiuta.
In questa lettera scrive Locke:
Qui voi mi dite che concedete che la mia inferenza è valida in questo senso: «Che ogni magistrato che crede in base a ragioni giuste e sufficienti che la sua religione sia vera è vincolato ad usare la forza per condurre ad essa gli uomini». Con questo voi concedete che ogni magistrato, senza sapere che la sua religione è vera, è tenuto, sulla base del fatto che crede che sia vera, ad usare la forza per condurre ad essa gli uomini; è vero che aggiungete «che crede che essa è vera in base a ragioni giuste e sufficienti». Così avete ottenuto una distinzione, e questo serve sempre a dar lustro ad un disputante, anche se molte volte non è di nessuna utilità per la sua argomentazione. Infatti, consentitemi qui di domandarvi chi dev'esser giudice se le ragioni in base alle quali crede che la sua religione sia vera sono giuste e sufficienti. Dev'essere il magistrato stesso a giudicare per sé, o siete voi che dovete giudicare per lui? Un terzo che concorra in questo giudizio non so dove potrete trovarlo, che faccia al caso vostro. Se ogni magistrato deve giudicare per sé se le ragioni per cui egli crede che la sua religione sia vera sono ragioni giuste e sufficienti, avreste potuto risparmiarvi la vostra limitazione dell'uso della forza a quelli soltanto che credono in base a ragioni giuste e sufficienti, salvo che serva d'ornamento al vostro stile e alla vostra cultura: infatti essa lascia intatta la mia inferenza, in tutta l'estensione con cui l'ho espressa, relativamente ad ogni magistrato; perché, in base a questa vostra distinzione, non c'è un solo magistrato che sia escluso dall'obbligo di usare la forza per condurre gli uomini alla sua personale religione. Se infatti ogni magistrato che creda che la sua religione sia vera in base a ragioni giuste e sufficienti è tenuto ad usare la forza per condurre gli uomini alla sua religione, e ogni magistrato è egli stesso giudice del fatto che le ragioni in base alle quali crede siano giuste e sufficienti, è palese che ogni magistrato è tenuto ad usare la forza per condurre gli uomini alla sua religione: dal momento che chiunque creda che una religione è vera non può che giudicare giuste e sufficienti le ragioni in base alle quali egli crede che sia vera; se infatti giudicasse diversamente, non potrebbe credere che è vera. Se dite invece che siete voi a giudicare per il magistrato, allora quel che concedete è questo: che ogni magistrato che crede che la sua religione è vera in base a ragioni che voi giudicate essere giuste e sufficienti è tenuto ad usare la forza per condurre gli uomini alla sua religione. Se è questo che intendete, e sembra che non sia molto lontano da questo, fareste bene a dirlo esplicitamente, in modo che tutti i magistrati sappiano a chi far ricorso, nella difficoltà che voi accollate loro, dichiarando che essi sono sottoposti all'obbligo di usare la forza per condurre gli uomini alla vera religione, che essi né possono conoscere con certezza, né devono arrischiarsi a far uso della forza per condurre ad essa gli uomini, in base alla loro personale convinzione della sua verità: e d'altra parte essi non dispongono di nulla che possa determinare la loro scelta, se non di una di queste due cose, cioè la conoscenza, oppure la credenza che la religione che essi promuovono sia vera. In ultimo, la necessità vi ha convinto (se non volete che il magistrato agisca nell'oscurità, e faccia uso della sua forza in maniera del tutto casuale) a concedere che il magistrato può usare la forza per condurre gli uomini alla religione che egli crede essere vera; ma, voi dite, «la sua credenza deve fondarsi su ragioni giuste e sufficienti». Permane però ancora la stessa necessità: ed essa deve convincervi a fare un passo in più, e a dirmi se il magistrato dev'essere giudice del fatto che le ragioni in base alle quali egli crede che la sua religione è vera sono giuste e sufficienti, o se siete voi che dovete giudicare per lui.
John Locke, Scritti sulla tolleranza, Utet, 2005, p. 748 – 749
Ora la questione è personale. La sfida è fra Locke e il prete anglicano che ribadisce la necessità dell’uso della forza per condurre le persone alla sua vera religione. Locke avverte il pericolo nell’idea di legittimare la "repressione generalizzata" per imporre l’anglicanesimo. Poi, questo legittima altre confessioni religiose ad applicare il medesimo sistema. Per Locke ora è una questione personale. Locke si trova nella spiacevole posizione in cui il prete anglicano può indicarlo come il soggetto a cui deve essere applicata la "repressione generalizzata" per condurlo alla vera religione.
Già nella terza lettera la questione era diventata una questione personale. Non si tratta più di pensare allo Stato o alle relazioni fra le persone, qui si tratta della guerra fra Proast e Locke. E’ cessato il progetto sociale, c’è il progetto personale: Proast che legittima l’uso della forza in nome della religione e Locke che per difendere le sue precedenti lettere sulla tolleranza, ormai malato e vicino alla morte, pensa a sé stesso.
Non è più il Locke che gestiva gli interessi di Lord Ashley, è l’uomo morente che vede messa in discussione una sua idea alla quale intende aggrapparsi come ultima possibilità in cui può sopravvivere una briciola del suo onore di uomo.
In questa lettera emerge una sorta di insofferenza contro la gerarchia ecclesiastica, rappresentata dal prete anglicano Proast, che ha generato il potere assoluto, quella monarchia, che tanta guerra civile ha prodotto in quel secolo in Inghilterra.
La quarta lettera rimarrà incompiuta e sarà pubblicata solo due anni dopo la morte di John Locke.
Marghera, 16 gennaio 2019
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Claudio Simeoni
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