Le biografie dei filosofi che partecipano alla partita di calcio
Karl Marx nasce a Treviri il 5 maggio 1818, il padre di origine ebrea era un avvocato razionale e illuminista con una grande conoscenza di Rousseau e di Voltaire, non si legò mai agli ambienti giudaici e si convertì al luteranesimo facendo battezzare i figli.
Karl Marx nel 1835 si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, ma alla giurisprudenza preferisce la filosofia. Continuò gli studi presso l'Università Humboldt di Berlino,
Nel 1837 Marx abbandona gli studi giuridici per dedicarsi alla filosofia. Marx iniziò la partecipazione ad un circolo di Berlino nel 1937, il Doktorclub. Un circolo dalle idee monarchico-liberali che in breve tempo si trasformò in un circolo giacobino.
Nel 1835 Marx scrive un saggio dal titolo "L'unione dei credenti con Cristo" commentando una parte del vangelo di Giovanni, esattamente Giovanni 15, 1 – 14, che è una delle direttive criminali dell'ideologia cristiana che più di un secolo dopo legittimerà i campi di sterminio nazisti.
Fra il 1838 e il 1840 prepara la laurea che, dopo un progetto iniziale piuttosto impegnativo, si ridimensiona in una trattazione "Differenza fra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro".
Nella tesi riprende le citazioni Epicuro e fra l'altro, scrive Marx:
"Si può anche fare un breve cenno a come Epicuro, con la dottrina del clinamen, abbia prospettato un'immagine sfumata del mondo in cui trovano spazio anche l'imprevedibilità e l'indeterminazione, quasi come se fosse impossibile determinare ogni cosa: un'immagine che risulta incredibilmente vicina a quella avanzata, nel Novecento, dal fisico tedesco Werner Heisemberg, il quale ha affermato, nella formazione del suo celebre "principio di indeterminazione" che è impossibile conoscere simultaneamente la posizione esatta e l'esatta quantità di moto di una particella subatomica; tanto più esattamente conosciamo la posizione, tanto meno sicuri siamo della quantità di moto, e viceversa."
Karl Marx "Differenze fra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, Bompiani, 2004, p. 47
Nel 1842 Marx scrive un saggio dal titolo "Osservazioni sulle recenti istruzioni per la censura in Prussia", che però sarà pubblicato un anno dopo. L'esordio, come giornalista, avviene con un articolo dal titolo: "Dibattiti sulla libertà di stampa e sulla pubblicazione dei dibattiti alla Dieta".
Il 17 marzo 1843 Marx lascia la direzione del giornale e questo, il 21 marzo, viene chiuso per l'intervento del governo. Marx condanna il servilismo dei giornalisti.
Nel giugno del 1843 Marx parte per Parigi dopo essersi sposato.
Nel 1844 si apre la questione ebraica quando la sinistra hegeliana, opponendosi all'idea della religione di stato, chiedeva l'emancipazione politica degli ebrei. Bruno Bauer, contro la sinistra hegeliana, affermava di intendere la libertà politica come rinuncia ad ogni identità particolare ed era contro al riconoscimento di una identità, razziale o religiosa, particolare. Marx, in polemica con Bauer affermava che per emanciparsi politicamente gli ebrei avrebbero dovuto, prima, emanciparsi dalla loro religione. In sostanza era l'ideologia religiosa che separava gli ebrei dal resto del paese.
Nel 1844 Marx inizia a studiare gli economisti classici. I manoscritti economici e filosofici del 1844 saranno pubblicati solo nel 1932.
Dei "Manoscritti economici e filosofici del 1844", per questo sistema di biografie filosofiche, è interessante la polemica di Marx contro Hegel. Si tratta del quarto manoscritto, (o appendice del terzo, come lo si vuole considerare) inserito nella serie, in cui Marx prende le distanze dalle concezioni spiritualistiche della filosofia hegeliana.
Scrive Marx in "Critica della dialettica hegeliana":
Da una parte, questa soppressione è una soppressione dell'ente pensato, e quindi la proprietà privata pensata si sopprime nel pensiero della morale. E poiché il pensiero si figura di essere immediatamente l'altro di se stesso, la realtà sensibile, e quindi la sua azione ha per lui anche il valore di azione reale sensibile, questa soppressione nel pensiero, che lascia sopravvivere il suo oggetto nella realtà, crede di avere superato l'oggetto realmente, e d'altra parte questo oggetto, essendo diventato ormai per essa un momento ideale, ha per essa anche nella sua realtà valore di un'autoconferma di se stessa, di un'autoconferma dell'autocoscienza, dell' astrazione. Perciò, da un lato, l'esistenza che Hegel sopprime nella filosofia, non è la religione reale, lo stato reale, la natura reale, ma la religione stessa già come un oggetto del sapere, cioè la dogmatica; così la giurisprudenza, la scienza politica, la scienza naturale. Da questo lato, dunque, egli sta in opposizione tanto all'ente reale quanto alla scienza non filosofica, alla scienza immediata o ai concetti non filosofici di questo ente. Egli quindi contraddice i loro concetti correnti. D'altra parte, l'uomo religioso, ecc., può trovare in Hegel la sua ultima conferma. Bisogna ora cogliere i momenti positivi della dialettica hegeliana nell'ambito della determinazione dell'estraniazione. a) La soppressione come movimento oggettivo che revoca riportandola a sé l'alienazione. E' questo, espresso entro l'estraniazione, il modo di intendere l'appropriazione dell'essere oggettivo attraverso la soppressione della sua estraniazione, il modo estraniato di intendere l' oggettivazione reale dell'uomo, l'appropriazione reale del suo essere oggettivo attraverso l'annullamento della determinazione estraniata del mondo oggettivo, cioè attraverso la sua soppressione, nella sua esistenza estraniata: così l'ateismo è, in quanto soppressione di Dio, il divenire dell'umanismo teoretico, e il comunismo, in quanto soppressione della proprietà privata, è la rivendicazione della vita umana reale come sua proprietà, cioè è il divenire dell'umanismo pratico; o in altre parole l'ateismo è l'umanismo mediato con se stesso dalla soppressione della religione, il comunismo è l'umanismo mediato con se stesso dalla soppressione della proprietà privata. Solo attraverso la soppressione di questa mediazione, che però è un presupposto necessario, si forma l'umanismo che ha inizio positivamente da se stesso, l'umanismo positivo. Ma l'ateismo e il comunismo non sono una fuga, una astrazione, una perdita del mondo oggettivo prodotto dall'uomo, delle sue forze essenziali venute all'oggettività, non sono una povertà che ritorna alla semplicità non naturale, non sviluppata. Anzi essi sono soltanto il divenire reale, la realizzazione divenuta reale per l'uomo del suo essere e del suo essere come essere reale. Così Hegel, intendendo il senso positivo della negazione riferita a se stessa - se pure a sua volta in modo estraniato -, intende gli atti con cui l'uomo si estrania da se stesso, aliena il proprio essere, e vien meno alla propria oggettivazione e alla propria realizzazione, come un atto con cui conquista se stesso, muta il proprio essere, si fa oggettivo e reale. In breve, egli intende - entro l'astrazione - il lavoro come l'atto con cui l'uomo produce se stesso, e intende il rapporto dell'uomo a se stesso come rapporto a essere estraneo e l'attuazione di sé come attuazione di un essere estraneo, come la coscienza della specie e la vita della specie, in divenire. b) Ma a prescindere, o meglio come conseguenza dell'assurdità già descritta, in Hegel questo atto appare in primo luogo come un atto puramente formale, perché astratto, e perché l'essere umano stesso è ritenuto come null'altro che un essere pensante astratto, come autocoscienza; o in secondo luogo, perché il modo di intenderlo è formale e astratto; e quindi la soppressione dell'alienazione diventa una conferma dell'alienazione, e il movimento dell' auto produzione e dell'auto-oggettivazione, intese come autoalienazione e autoestraniazione, è per Hegel la manifestazione assoluta della vita umana, e quindi definitiva, che ha per scopo se stessa e in sé si acquieta, essendo pervenuta alla propria essenza. Questo movimento nella sua forma astratta in quanto dialettica, ha quindi il valore della vita veramente umana, ed essendo tuttavia un'astrazione, una estraniazione della vita umana, ha valore di processo divino, e quindi di processo divino dell'uomo un processo, percorso dallo stesso essere assoluto distinto dall'uomo, astratto, puro. In terzo luogo: questo processo deve avere un portatore, un soggetto; ma il soggetto si forma soltanto come risultato; questo risultato, il soggetto che sa di essere autocoscienza assoluta, è quindi Dio, lo spirito assoluto, l'idea che conosce e attua se stessa. L'uomo reale e la natura reale diventano puri predicati e simboli di questo uomo nascosto, irreale, e di questa natura irreale. Il soggetto e il predicato stanno quindi fra di loro in un rapporto di inversione assoluta, oggetto-soggetto mistico O soggettività oltrepassante l'oggetto, il soggetto assoluto come un processo, come soggetto che si aliena e ritorna in sé dalla alienazione, ma a un tempo la riprende in sé, e il soggetto in quanto è questo processo; il circolo puro e senza riposo che si chiude in se stesso. Anzitutto il modo formale e astratto di intendere l'atto dell'auto produzione o dell'auto-oggettivazione dell'uomo. Poiché Hegel identifica l'uomo con l'auto-coscienza, l'oggetto estraniato, la realtà estraniata dell'essere dell'uomo non è altro che la coscienza, il pensiero dell'estraniazione, la sua espressione astratta e quindi priva di contenuto e di realtà, la negazione. La soppressione dell'alienazione è quindi parimenti null'altro che una soppressione astratta priva di contenuto, di quell'astrazione priva di contenuto, la negazione della negazione. Di conseguenza, l'attività dell'auto-oggettivazione, che è attività ricca di contenuto, viva, sensibile, concreta, diventa la sua pura e semplice astrazione, la negatività assoluta, un'astrazione che viene a sua volta fissata come tale e pensata come attività per se stante, come l'attività senz'altro. Poiché questa cosiddetta negatività non è altro che la forma astratta, priva di contenuto, di quell' atto reale e vivo, anche il suo contenuto può essere soltanto un contenuto formale, prodotto facendo astrazione da ogni contenuto. Perciò le forme universali e astratte dell'astrazione, appartenenti a ogni contenuto, e quindi altrettanto indifferenti a ogni contenuto quanto, proprio perciò, valide per ogni contenuto, le forme del pensiero, le categorie logiche sono staccate dallo spirito reale e dalla natura reale. (Svolgeremo più oltre il contenuto logico della negatività assoluta). Il contributo positivo che qui, nella sua logica speculativa, Hegel ha portato a compimento sta in ciò che i concetti determinati, le forme fisse e universali del pensiero sono, nella loro indipendenza dalla natura e dallo spirito, un risultato necessario dell'estraniazione universale dell'essere umano, e quindi anche dell'umano pensiero, onde Hegel li ha esposti e riassunti come momenti del processo di astrazione. Per esempio, l'essere soppresso è l'essenza, l'essenza soppressa è il concetto, il concetto soppresso ... l'idea assoluta. Ma che cosa è mai l'idea assoluta? Essa a sua volta si sopprime da se stessa, se non vuole ripercorrere da capo l'intero atto dell'astrazione e quindi accontentarsi di essere una totalità di astrazioni o l'astrazione che comprende se stessa. Ma l'astrazione che si comprende come astrazione sa di non essere nulla; essa deve rinunciare a se stessa, all'astrazione, e così finisce di giungere a un essere che è proprio il suo contrario, la natura. Tutta la Logica è dunque la prova che il pensiero astratto non è per se stesso nulla, che nulla è l'idea assoluta per se stessa, e che solo la natura è qualche cosa. L'idea assoluta, l'idea astratta che «considerata in base alla sua unità con se stessa è intuizione» (HEGEL, Enciclopedia, 3' ed., p. 222)9, che «nell'assoluta verità di se stessa si decide a liberare da se stessa il momento della sua particolarità o del suo primo determinarsi e del suo esser altro, l'idea immediata, come il suo riflesso, come natura» (I.c.), tutta intera questa idea che si atteggia in modo così strano e barocco, e ha procurato agli hegeliani tanti grattacapi, non è assolutamente altro che l'astrazione - cioè il pensatore astratto -, la quale, ammaestrata dall'esperienza e illuminata intorno alla sua verità, si decide, a certe condizioni - false e ancor esse astratte -, a rinunciare a se stessa e a metter 1'esser altro, il particolare, il determinato al posto del suo essere presso di sé, del suo esser nulla, della sua universalità e indeterminatezza, a liberare da sé la natura, che essa nascondeva in sé soltanto come astrazione, come oggetto ideale, cioè ad abbandonare l'astrazione e a contemplarsi finalmente la natura libera da essa. L'idea astratta che diventa immediatamente intuizione, non è assolutamente null'altro che il pensiero astratto che rinuncia a se stesso e si decide per l'intuizione. Tutto questo trapasso dalla Logica alla Filosofia della natura non è altro che il trapasso - tanto difficile da mettere in atto per il pensatore astratto e quindi da lui descritto in modo tanto avventuroso - dall'astrazione all'intuizione. Il sentimento mistico, che spinge il filosofo dal pensiero astratto all'intuizione, è il tedio, la nostalgia di un contenuto.
Karl Marx, Manoscritti economico filosofici del 1844, Critica della dialettica hegeliana, Biblioteca Repubblica-espresso, 2006, p. 138 – 141
Marx accusa Hegel di negare valore e riferimento all'esistenza reale dell'uomo sopprimendo la sua quotidianità in funzione di astrazioni che prendono il posto dei reali rapporti sociali. La proprietà privata, la famiglia, lo Stato non sono in Hegel oggetti reali che intervengono nella sua filosofia, ma vengono soppressi e sostituiti con categorie astratte e irreali. Così, dice Marx, per esempio, nella filosofia del diritto di Hegel il diritto privato che viene soppresso diventa morle; la morale soppressa è la famiglia, la famiglia soppressa è la società civile, la società civile soppressa è uguale a Stato. Il pensiero si prefigura di essere l'altro di sé stesso ed è il pensiero che immagina di far sopravvivere l'altro, il soggetto, in una realtà che il pensiero immagina e che avverte come oggettiva e reale. Ma il pensiero non abita la realtà, il pensiero si esprime in una condizione virtuale perché alienato dalla realtà quotidiana abitata dal soggetto. Il pensiero, in Hegel, si erge a padrone dell'uomo e da una dimensione dell'immaginazione pretende di controllare l'uomo nella sua azione quotidiana.
Secondo Marx, Hegel sopprime, nella sua filosofia, l'esistenza dell'uomo, sopprime la religione reale, lo stato reale, materiale, della sua esistenza. In altre parole, la filosofia di Hegel parla dell'immaginazione mentre, al contrario Marx vuole riportare la filosofia a parlare della vita reale di un corpo che abita il mondo.
Ne consegue che l'ateismo è la soppressione di Dio come il comunismo è la soppressione della proprietà privata dove: " l'ateismo è l'umanismo mediato con se stesso dalla soppressione della religione, il comunismo è l'umanismo mediato con se stesso dalla soppressione della proprietà privata".
La soppressione e la negazione è la condizione affinché quel posto sia assunto da una nuova e diversa situazione: " essi sono soltanto il divenire reale, la realizzazione divenuta reale per l'uomo del suo essere e del suo essere come essere reale".
Tutta la critica all'hegelismo ha lo scopo di portare la dialettica dall'idealismo astratto di Hegel al materialità della vita quotidiana.
La rivoluzione marxista consiste nell'uso del significato del termine "dialettica". Non più un'astrazione di relazione fra oggetti astratti del pensiero, ma una relazione di corpi che abitano il mondo e che entrando in relazione modificano sé stessi e il mondo.
Nel 1844 Marx a Parigi frequenta i circoli degli operai e degli artigiani parigini, frequenta Proudhon, Louis Blanc e Bakunin. La Prussia chiede l'estradizione di Marx da Parigi, ma Marx il 5 febbraio 1845 parte per Bruxelles. Nel 1845 Marx con Engels pubblica "La sacra famiglia".
Marx aumenta l'intensità della polemica con Bauer che vedeva nel romanticismo la naturale evoluzione dell'illuminismo.
Nel 1846 Marx ed Engels scrivono "L'ideologia tedesca" che sarà pubblicata solo nel 1932 e in Italia nel 1952.
Scrive Karl Marx nell'Ideologia Tedesca:
Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante nella società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi e a produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l'espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio. Gli individui che compongono la classe dominante posseggono fra l'altro anche la coscienza, e quindi pensano; in quanto dominano come classe e determinano l'intero ambito di un'epoca storica, è evidente che essi lo fanno in tutta la loro estensione, e quindi fra l'altro dominano anche come pensanti, come produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo; è dunque evidente che le loro idee sono le idee dominanti dell'epoca. Per esempio: in un periodo e in un paese in cui potere monarchico, aristocrazia e borghesia lottano per il potere, il quale quindi è diviso, appare come idea dominante la dottrina della divisione dei poteri, dottrina che allora viene enunciata come «legge eterna». La divisione del lavoro, che abbiamo già visto (p. [52 – 55]) come una delle forze principali della storia finora trascorsa, si manifesta anche nella classe dominante come divisione del lavoro intellettuale e manuale, cosicché all'interno di questa classe una parte si presenta costituita dai pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali dell'elaborazione dell'illusione di questa classe su se stessa fanno il loro mestiere principale), mentre gli altri nei confronti di queste idee e di queste illusioni hanno un atteggiamento più passivo e più ricettivo, giacché in realtà sono i membri attivi di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e delle illusioni su se stessi. All'interno di questa classe questa scissione può addirittura svilupparsi fino a creare fra le due parti una certa opposizione e una certa ostilità che tuttavia cade da sé se sopraggiunge una collisione pratica che metta in pericolo la classe stessa: allora si dilegua anche la parvenza che le idee dominanti non siano le idee della classe dominante e abbiano un potere distinto dal potere di questa classe. L'esistenza di idee rivoluzionarie in una determinata epoca presuppone già l'esistenza di una classe rivoluzionaria sui cui presupposti abbiamo già detto (p. [56-59]) quanto occorre. Se ora nel considerare il corso della storia si svincolano le idee della classe dominante dalla classe dominante e si rendono autonome, se ci si limita a dire che in un'epoca hanno dominato queste o quelle idee, senza preoccuparsi delle condizioni della produzione e dei produttori di queste idee, e se quindi si ignorano gli individui e le situazioni del mondo che stanno alla base di queste idee, allora si potrà dire per esempio che al tempo in cui dominava l'aristocrazia dominavano i concetti di onore, di fedeltà, ecc., e che durante il dominio della borghesia dominavano i concetti di libertà, di uguaglianza, ecc. Queste sono, in complesso, le immaginazioni della stessa classe dominante. Questa concezione della storia che è comune a tutti gli storici, particolarmente a partire dal diciottesimo secolo, deve urtare necessariamente contro il fenomeno che dominano idee sempre più astratte, cioè idee che assumono sempre più la forma dell'universalità. Infatti ogni classe che prenda il posto di un'altra che ha dominato prima è costretta, non fosse che per raggiungere il suo scopo, a rappresentare il suo interesse come interesse comune di tutti i membri della società, ossia, per esprimerei in forma idealistica, a dare alle proprie idee la forma dell'universalità, a rappresentarle come le sole razionali e universalmente valide. La classe rivoluzionaria si presenta senz'altro, per il solo fatto che si contrappone a una classe, non come classe ma come rappresentante dell'intera società, appare come l'intera massa della società di contro all'unica classe dominante. Ciò le è possibile perché in realtà all'inizio il suo interesse è ancora più legato all'interesse comune di tutte le altre classi non dominanti, e sotto la pressione dei rapporti fino allora esistenti non si è ancora potuto sviluppare come interesse particolare di una classe particolare. La sua vittoria giova perciò anche a molti individui delle altre classi che non giungono al dominio, ma solo in quanto pone questi individui in condizione di ascendere nella classe dominante. Quando la borghesia francese rovesciò il dominio dell'aristocrazia, con ciò rese possibile a molti proletari di innalzarsi al di sopra del proletariato, ma solo in quanto essi diventarono borghesi. Quindi ogni nuova classe non fa che porre il suo dominio su una base più larga della precedente, per la qual cosa anche l'opposizione delle classi non dominanti contro quella ora dominante si sviluppa più tardi con tanto maggiore asprezza e profondità. Queste due circostanze fanno sì che la lotta da condurre contro questa nuova classe dominante tenda a sua volta a una negazione della situazione sociale esistente più decisa e più radicale di quanto fosse possibile a tutte le classi che precedentemente avevano aspirato al dominio. Tutta questa parvenza, che il dominio di una determinata classe altro non sia che il dominio di certe idee, cessa naturalmente da sé non appena il dominio di classi in generale cessa di essere la forma dell'ordinamento sociale, non appena quindi non è più necessario rappresentare un interesse particolare come universale o «l'universale» come dominante. Una volta che le idee dominanti siano state separate dagli individui dominanti e soprattutto dai rapporti che risultano da un dato stadio del modo di produzione, e si sia giunti di conseguenza al risultato che nella storia dominano sempre le idee, è facilissimo astrarre da queste varie idee «l'idea», ecc., come ciò che domina nella storia e concepire così tutte queste singole idee e concetti come e «autodeterminazioni» del concetto che si sviluppa nella storia. Allora è anche naturale che tutti i rapporti degli uomini possano venire ricavati dal concetto dell'uomo, dall'uomo quale viene rappresentato, dall'essenza dell'uomo, dall'uomo. E' ciò che ha fatto la filosofia speculativa. Hegel arriva a confessare, alla fine della sua filosofia della storia, «di avere considerato soltanto il processo del concetto» e di avere esposto nella storia la «vera teodicea» [giustificazione di Dio]. Si può quindi ritornare ai produttori «del concetto», ai teorici, agli ideologi e ai filosofi, e giungere quindi al risultato che i filosofi, i pensatori come tali, hanno dominato da sempre nella storia; un risultato che, come abbiamo visto, fu anche già espresso da Hegel. Quindi tutto il gioco di abilità, per dimostrare la sovranità dello spirito nella storia (gerarchia in Stirner), si riduce ai seguenti tre efforts: 1) Si devono separare le idee di coloro che dominano per ragioni empiriche, sotto condizioni empiriche e come individui materiali, da questi dominatori, e con ciò riconoscere il dominio di idee o illusioni nella storia. 2) Si deve metter un ordine in questo dominio delle idee, dimostrare un nesso mistico fra le successive idee dominanti, al che si perviene considerandole come e «autodeterminazioni del concetto» (la cosa è possibile perché fra queste idee, attraverso la loro base empirica, esiste realmente un nesso, e perché esse, concepite come pure idee, diventano autodistinzioni, distinzioni fatte dal pensiero). 3) Per eliminare l'aspetto mistico di questo «concetto autodeterminantesi», lo si trasforma in una persona - e «l'autocoscienza» - oppure, per apparire perfetti materialisti, in una serie di persone che rappresentano «il concetto» nella storia, i e «pensatori», i «filosofi», gli ideologi, i quali ancora una volta sono concepiti come i fabbricanti della storia, come «il consesso dei guardiani», come i dominatori. Con ciò si sono eliminati dalla storia tutti quanti gli elementi materialistici e si possono allentare tranquillamente le briglie al destriero speculativo. Mentre nella vita ordinaria qualsiasi shopkeeper [bottegaio] sa distinguere benissimo fra ciò che ciascuno pretende di essere e ciò che realmente è, la nostra storiografia non è ancora arrivata a questa ovvia conoscenza. Essa crede sulla parola ciò che ogni epoca dice e immagina di se stessa. Questo metodo storiografico che dominava soprattutto in Germania, e specie perché vi ha dominato, va spiegato muovendo dalla sua connessione con l'illusione degli ideologi in genere, per esempio le illusioni dei giuristi, dei politici (ivi compresi i pratici uomini di Stato), dai vaneggiamenti dogmatici di codesti tipi; la quale illusione è semplicissima mente spiegata dalla loro posizione pratica nella vita, dal loro mestiere e dalla divisione del lavoro.
Marx – Engels, L'Ideologia Tedesca, prima parte: La concezione materialistica della storia, Editori Riuniti, 1971, p. 72 – 77
Quanto scrive Marx nel' "Ideologia tedesca" oggi appare scontato e acquisito da tutta la cultura, ma molto meno dal sentire comune.
Un esempio pratico di quanto scrive Marx è l'ideologia filosofica di Platone o quella di Paolo di Tarso. L'ideologia filosofica di Platone era la filosofia che giustificava la dittatura dei trenta tiranni imposti da Sparta ad Atene mentre l'ideologia filosofica di Paolo di Tarso era l'ideologia della schiavitù imposta da Paolo di Tarso ai suoi "seguaci".
Entrambi i sistemi ideologici sono stati destoricizzati e trasformati in verità assolute, in idee, buone per giustificare ogni dittatura e ogni tipo di sottomissione delle persone ridotte in schiavitù o in servaggio.
Tutti i filosofi sviluppano le contraddizioni del loro tempo e della loro vita a seconda della posizione personale che assumono nella contraddizione della loro esistenza, ma dal momento che il filosofo è un produttore di parole e non è un produttore di merci o di beni di consumo, per poter fornire il suo corpo di beni di consumo ha la necessità di compiacere il potere che gli permette di accedere ai beni di consumo in cambio di parole che legittimano il suo dominio. In altre parole, il filosofo si fa puttana del potere dominante. Oppure, quando si fa uomo, si fa eversore promuovendo un cambiamento della realtà in cui vive.
Quando Platone sviluppò il suo pensiero, questo venne emarginato in una società che, una volta sconfitta la dittatura, cercava idee diverse con cui affermarsi. Solo che le idee di legittimazione della dittatura sono utili ad ogni dittatore anche se il modo di presentare la dittatura non è esattamente quello che quel dittatore può mettere in atto. In questo modo, le idee della dittatura vengono promosse e reinterpretate a proprio uso come fece, ad esempio, il cristianesimo con le idee dittatoriali di Platone.
Nel 1846 la Lega dei giusti di Bruxelles, chiede a Marx ed Engels di entrare e compartecipare. Il 1 giugno 1847, durante il congresso londinese, la "Lega dei Giusti" cambia il nome in "Lega dei comunisti" e la parola d'ordine cambia da "Tutti gli uomini sono fratelli" a "Proletari di tutto il mondo, unitevi".
Nel 1848 appare il "Manifesto del partito comunista".
Scrive Marx nel Manifesto del Partito Comunista:
Su che cosa si basa la famiglia attuale, la famiglia borghese? Sul capitale e sul guadagno privato. Pienamente sviluppata esiste solo per la borghesia, ma trova il suo complemento nella forzata mancanza di famiglia del proletario e nella prostituzione pubblica. La famiglia del borghese cade naturalmente con la caduta di questo suo complemento ed entrambi scompaiono con la scomparsa del capitale. Ci rimproverate di voler abolire e superare lo sfruttamento dei figli da parte dei genitori? Confessiamo questo delitto. Ma, dite voi, mettendo al posto dell'educazione familiare l'educazione sociale, togliamo i rapporti più cari. E non è anche la vostra educazione determinata dalla società? Dai rapporti sociali, all'interno dei quali educate, dall'interferenza, diretta o indiretta, della società per mezzo della scuola e così via? Non sono i comunisti che inventano l'azione della società sull'educazione; ne modificano solo il carattere, strappano l'educazione all'influsso della classe dominante. Le frasi borghesi sulla famiglia e sull'educazione, sui cari rapporti fra genitori e figli diventano tanto più nauseanti quanto più, in seguito alla grande industria, tutti i legami di famiglia del proletario si spezzano e i figli vengono trasformati in semplici strumenti di lavoro e articoli di commercio. Ma voi comunisti volete introdurre la comunanza delle donne, ci grida in coro l'intera borghesia. Il borghese vede nella propria moglie un semplice strumento della produzione. Egli sente che gli strumenti della produzione debbono essere sfruttati dalla comunità, e, naturalmente, non può farsi venire in mente nient'altro che il destino della comunione colpirà allo stesso modo le donne. Non suppone che si tratti, appunto, di abolire e superare la posizione delle donne come semplici strumenti produttivi. Del resto non c'è nulla di più ridicolo di questo ipermoralissimo ribrezzo del nostro borghese circa la presunta comunanza ufficiale delle donne dei comunisti. I comunisti non hanno bisogno di introdurre la comunanza delle donne, è quasi sempre esistita. I nostri borghesi, non contenti di questo, cioè di avere a disposizione le mogli e le figlie dei loro proletari, per non parlare della prostituzione ufficiale, trovano un grande piacere nel sedursi reciprocamente le proprie consorti. Il matrimonio borghese è, in realtà, la comunione delle mogli. Si può, al più, rimproverare ai comunisti che vogliano introdurre una comunione delle donne schietta e ufficiale al posto di una comunione ipocritamente nascosta. Va da sé che, con l'abolizione e il superamento degli odierni rapporti di produzione, scompare anche la comunione delle donne che ne deriva, cioè scompare la prostituzione, sia quella ufficiale sia quella ufficiosa. I comunisti sono stati, inoltre, rimproverati di voler abolire la patria e la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Il proletariato, conquistandosi dapprima il potere politico, si eleva al livello della prima classe della nazione, deve costituirsi in nazione, è esso stesso ancora nazionale, anche se non nel senso della borghesia. L'isolamento e i contrasti tra i popoli scompaiono sempre di più già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, il mercato mondiale, l'uniformità della produzione industriale e con le relative condizioni di vita. Il dominio del proletariato li farà scomparire ancora di più. Una delle prime condizioni della sua liberazione, almeno nei paesi civilizzati, è l'azione unificata. Nella misura in cui viene rimosso lo sfruttamento di un uomo sull'altro, viene rimosso lo sfruttamento di una nazione per mezzo dell'altra. La reciproca ostilità delle nazioni muore con gli antagonismi di classe all'interno delle nazioni. Le accuse contro il comunismo che vengono sollevate da punti di vista ideologici, filosofici e religiosi in genere, non meritano ulteriori discussioni. C'è bisogno di una prospettiva più profonda, per comprendere che gli uomini, con le condizioni materiali di vita, con le loro relazioni sociali, con le loro esistenze sociali, cambiano anche le rappresentazioni, i modi di vedere, i concetti, in una parola la coscienza? Che cos'altro dimostra la storia delle idee se non che la produzione dello spirito si trasforma assieme a quella materiale? Le idee dominanti di un'epoca sono state, in ogni momento, soltanto le idee della classe dominante. Si parla di idee che rivoluzionano un'intera società; si parla, con ciò, soltanto del fatto che gli elementi di una nuova società si sono formati all'interno della vecchia, che il dissolvimento delle antiche condizioni di vita va di pari passo con il dissolvimento delle vecchie idee. Quando tramontò il mondo antico, le religioni antiche furono vinte dalla religione cristiana. Quando nel XVIII secolo le idee cristiane dovettero soccombere alle idee illuministe, la società feudale combatté la sua lotta mortale con la borghesia, allora rivoluzionaria. Le idee della libertà di coscienza e di religione parlavano solo del potere della libera concorrenza nel campo delle coscienze. "Ma" si dirà "le idee religiose, morali, filosofiche, politiche e giuridiche si modificano in ogni momento nel corso dello sviluppo storico. La religione, la morale, la filosofia, la politica e il diritto si sono mantenuti continuamente in mezzo a questi cambiamenti. Ci sono inoltre verità eterne, come la libertà, la giustizia, eccetera, che sono comuni a tutte le situazioni sociali. Il comunismo, invece, abolisce le verità eterne, la religione e la morale, al posto di dar loro una nuova forma, si mette in contraddizione con tutti gli sviluppi sociali avvenuti finora." A che cosa si riduce quest'accusa? La storia di ogni società fino a oggi esistita si è svolta in antagonismi di classe, che hanno assunto diverse forme nelle diverse epoche. Ma qualsiasi forma abbiano assunto, lo sfruttamento di una parte della società da parte di un'altra è un dato di fatto comune a tutti i secoli precedenti. Nessuna meraviglia, quindi, che la coscienza sociale di tutti i secoli si muova, nonostante ogni molteplicità e differenza, in certe forme comuni, in forme che si dissolvono solo con la completa scomparsa dell'antagonismo di classe. La rivoluzione comunista è la rottura più radicale con i rapporti tradizionali di proprietà. Nessuna meraviglia che nel corso del suo sviluppo avvenga nella maniera più radicale la rottura con le idee tradizionali. Ma lasciamo le obiezioni della borghesia contro il comunismo. Abbiamo già visto prima che il primo passo della rivoluzione operaia, l'elevazione del proletariato a classe dominante, è la conquista della democrazia. Il proletariato si servirà a questo punto del suo dominio politico per estorcere alla borghesia, a poco a poco, tutti i capitali, per accentrare tutti gli strumenti della produzione nelle mani dello stato, cioè dei proletari organizzati come classe dominante e per aumentare il più rapidamente possibile la massa delle forze produttive. All'inizio ciò può accadere solamente per mezzo di interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione, quindi attraverso misure che appaiono economicamente insufficienti e poco durevoli, ma che, nel corso dello sviluppo, oltrepassano se stesse e sono indispensabili come mezzi per il sovvertimento dell'intero sistema produttivo. Queste misure, naturalmente, saranno ogni volta diverse a seconda dei diversi paesi. Tuttavia per i paesi più progrediti potranno venire applicate suppergiù le seguenti. 1. Espropriazione della proprietà fondiaria ed impiego della rendita fondiaria per le spese dello stato. 2. Forte imposta progressiva. 3. Abolizione del diritto di successione. 4. Confisca della proprietà di tutti gli emigranti e di tutti i ribelli. 5. Centralizzazione dei crediti nelle mani dello stato mediante una banca nazionale con capitale statale e monopolio esclusivo. 6. Centralizzazione di tutti i mezzi di trasporto nelle mani dello stato. 7. Moltiplicazione delle fabbriche nazionali, degli strumenti di produzione, bonifica e miglioramento del latifondo secondo un piano comune. 8. Lavoro obbligatorio uguale per tutti; istituzione di eserciti industriali, specialmente per l'agricoltura. 9. Unificazione dell'impresa agricola e industriale; misure atte a rimuovere gradualmente l'antagonismo fra città e campagna. 10. Educazione pubblica e gratuita di tutti i ragazzi. Abolizione del lavoro in fabbrica dei ragazzi nella sua forma attuale. Unificazione della educazione con la produzione materiale, eccetera.
Karl Marx F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Demetra, 1996, p. 37 – 42
Se c'è qualche cosa da dire di questo manifesto del Partito Comunista è che tutte le idee espresse non solo sono state realizzate nelle società socialiste, ma sono state fatte proprie da ogni società occidentale. Sono state fatte proprie al punto tale da diventare bandiere "identitarie" anche per la destra politica Europea.
Queste idee sono entrate a far parte delle Costituzioni occidentali e molte delle esigenze espresse sono diventate talmente importanti da essere considerati, oggi, reati nella società. Come ad esempio il lavoro minorile nelle fabbriche tanto voluto dai cristiani, non solo è stato abolito, ma nei paesi europei usare il lavoro minorile è un reato perseguito a norma di legge.
Stesso discorso per l'istruzione obbligatoria. Lo stesso discorso vale per la sinergia fra lavoro agricolo e lavoro industriale. Poi, la società si è modificata e molte esigenze sociali sono cambiate, tuttavia il meccanismo dei diritti sociali, iniziato col manifesto del Partito Comunista, ha alimentato lo sviluppo della società civile come oggi la stiamo vivendo.
Il 22 febbraio 1848, Parigi insorge e Luigi Filippo di Francia è costretto a fuggire a Londra. La Prussia chiede ancora l'estradizione di Marx e quando i tumulti si estendono al Belgio, Marx viene arrestato ed espulso in Francia.
Nel 1848 Marx va a Colonia dove è fondatore dell'Associazione Democratica e ipoteca i suoi beni per fondare il giornale "Nuova Gazzetta Renana".
Il 19 maggio 1849 il giornale viene represso e chiuso. Marx torna a Parigi, ma il governo francese gli ordina di abbandonare la città e lo costringe a scegliere fra andare all'estero o abitare una regione paludosa della Francia. Marx parte per Londra.
A Londra ricostruisce la Lega dei Comunisti e con altre forze, come gli anarchici, l'Associazione Universale dei comunisti rivoluzionari.
Nel 1852 i membri della la sezione marxista spostata a Colonia vengono processati e i suoi membri condannati ad alcuni anni di reclusione.
Nel 1851 esce "Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte" in cui Marx analizza il colpo di Stato del 2 dicembre 1851.
A Londra Marx vive in un quartiere povero ed economico in un appartamento di due stanze. Alcuni figli muoiono per denutrizione e uno per tubercolosi.
Intanto il clima sociale cambia. Nel 1857 una crisi economica investe tutto il mondo. In quel momento sembra che il proletariato si stia organizzando. Il 22 luglio 1864 si svolge una grande manifestazione a Londra contro l'occupazione zarista della Polonia e il 28 settembre 1864 si svolge il congresso inaugurale dell'"Associazione internazionale dei lavoratori".
Nel 1857 Marx scrive le "Grundrisse". In una lettera Marx scrive ad Engels nel novembre del 1957:
"Lavoro come un pazzo, le notti intere, per riassumere i miei studi economici in modo da aver messo in chiaro almeno i lineamenti fondamentali "Grundrisse" prima del diluvio."
Il diluvio sociale immaginato da Marx non ci fu, ma vale la pena di ricordare alcuni passi delle Grundrisse.
Scrive Marx nelle Grundrisse:
Ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell'individuo all'interno e a mezzo di una determinata forma sociale. In questo senso è una tautologia [Nota: Nella logica formale classica, proposizione che, volendo definire qualche oggetto o concetto, non faccia altro che ripetere sul predicato quanto è già detto sul soggetto (per es.: civismo è il senso civico)] affermare che la proprietà (l'appropriarsi) è una condizione della produzione. E' però ridicolo saltare di qui a una determinata forma di proprietà, ad esempio la proprietà privata. (Il che presuppone inoltre anche una forma opposta, la non-proprietà, come condizione). Nella storia la proprietà comune (ad esempio presso gli indiani, gli slavi, gli antichi celti ecc.) appare piuttosto come la forma più originaria, una forma che come proprietà comunitaria svolge ancora per lungo tempo un ruolo importante. Qui non si discute ancora la questione se la ricchezza si sviluppi meglio sotto l'una o l'altra forma di proprietà. Affermare però che non si può parlare di una produzione, e quindi neppure di una società in cui non esiste alcuna forma di proprietà, è una tautologia. Un'appropriazione che non si appropria di nulla è una contradictio in subjecto. Il porre al sicuro quanto è stato acquisito ecc. Se queste banalità vengono ridotte al loro contenuto reale, esse ci dicono più di quanto non suppongano i loro predicatori. E cioè che ogni forma di produzione produce i suoi rapporti giuridici, forma di governo ecc. La grossolanità e la povertà concettuale consiste proprio nel riferire le une alle altre, casualmente, cose che sono organicamente connesse, nello stabilire una connessione che è frutto della pura riflessione. Agli economisti borghesi appare chiaro solo che con la polizia moderna si può produr meglio che, ad esempio, in base al diritto del più forte. Dimenticano soltanto che anche il diritto del più forte è un diritto, e che in forma modificata esso sopravvive anche nel loro «stato di diritto». Quando le condizioni sociali corrispondenti a un determinato livello della produzione sono sul punto di sorgere o di dissolversi, sopravvengono naturalmente turbamenti della produzione, anche se di grado e di effetto differente. Per riassumere: esistono determinazioni comuni a tutti i livelli di produzione, che dal pensiero vengono fissate come generali; ma le cosiddette condizioni generali di ogni produzione non sono altro che questi momenti astratti con i quali non si comprende nessun livello produttivo storico reale.
Il rapporto generale della produzione con la distribuzione, lo scambio, il consumo.
Prima di procedere oltre nell'analisi della produzione, è necessario prendere in esame le differenti rubriche che gli economisti collocano accanto a essa. La concezione che ci si fa immediatamente è questa: nella produzione i membri della società adattano (producono, dànno forma) i prodotti naturali ai bisogni umani; la distribuzione determina il rapporto in cui il singolo partecipa di questi prodotti; lo scambio gli fa pervenire i prodotti particolari nei quali egli intende convertire la quota assegnatagli attraverso la distribuzione; infine, nel consumo i prodotti divengono oggetto del godimento, dell'appropriazione individuale. La produzione crea gli oggetti corrispondenti ai bisogni; la distribuzione li ripartisce in base a leggi sociali; lo scambio ridistribuisce secondo il singolo bisogno ciò che è già stato distribuito; infine nel consumo il prodotto esce da questo movimento sociale, diviene direttamente oggetto e servitore del singolo bisogno e lo soddisfa nel godimento. La produzione appare quindi come il punto di avvio, il consumo come il punto di arrivo, la distribuzione e lo scambio come il punto intermedio, il quale si sdoppia a sua volta, poiché la distribuzione è determinata come il momento che prende avvio dalla società, lo scambio come il momento che prende avvio dagli individui. Nella produzione si oggettiva la persona, nella persona si soggettivizza la cosa; nella distribuzione la società si assume la mediazione tra la produzione il consumo nella forma di norme vigenti, generali; nello scambio la produzione e il consumo sono mediati dalla determinatezza casuale dell'individuo. La distribuzione determina il rapporto (la quantità), in cui i prodotti toccano agli individui; lo scambio determina il tipo di produzione in cui l'individuo esige la quota assegnatagli dalla distribuzione. In tal modo, produzione, distribuzione, scambio, consumo costituiscono un vero e proprio sillogismo: la produzione è il generale, la distribuzione e lo scambio sono il particolare, il consumo è la singolarità in cui il tutto si conclude. Questa è effettivamente una connessione, ma una connessione superficiale. La produzione è determinata da universali leggi di natura; la distribuzione dalla casualità sociale, perciò essa può esercitare un effetto più o meno giovevole sulla produzione; lo scambio si inserisce tra l'una e l'altra come movimento sociale formale, e l'atto conclusivo del consumo, che non viene concepito soltanto come termine ultimo ma anche come fine ultimo, in fondo si colloca fuori dell'economia, tranne che nella misura in cui reagisce a sua volta sul punto di partenza, avviando di nuovo l'intero processo. Gli avversari degli economisti politici - siano essi avversati all'interno o all'esterno del loro ambito -, i quali li rimproverano di disarticolare barbaramente ciò che appartiene a un tutto unico, si collocano sul loro stesso terreno o al di sotto di essi. Nulla di più corrente della critica secondo cui gli economisti guarderebbero troppo esclusivamente alla produzione come fine a se stessa. Tale critica si fonda proprio sulla concezione economica secondo cui la distribuzione si colloca, in quanto sfera autonoma e indipendente, accanto alla produzione. Oppure [si sostiene] che i momenti non verrebbero colti nella loro unità. Come se questa dilacerazione non fosse passata dalla realtà nei trattati teorici, ma al contrario dai trattati teorici alla realtà, e come se qui si avesse a che fare con un adeguamento dialettico di concetti, e non con la comprensione di rapporti reali!
[Consumo e produzione].
La produzione è immediatamente anche consumo. Doppio consumo, soggettivo e oggettivo: l'individuo che nel produrre sviluppa le proprie capacità, le spende anche, le consuma nell'atto della produzione, proprio come la procreazione naturale è un consumo di forze vitali. In secondo luogo: consumo dei mezzi di produzione che vengono usati e consumati e in parte (come ad esempio nel caso della combustione) nuovamente dissolti negli elementi generali. Lo stesso dicasi della materia prima, che non permane nella sua forma e condizione naturale, ma viene piuttosto consumata. L'atto stesso della produzione è quindi in tutti i suoi momenti anche un atto e consumo. Ma ciò viene ammesso dagli economisti. La produzione ln quanto immediatamente identica con il consumo, il consumo in quanto immediatamente coincidente con la produzione, essi lo chiamano consumo produttivo. Questa identità di produzione e consumo si riduce alla proposizione di Spinoza: determinatio est negatio. Ma questa definizione del consumo produttivo viene appunto fornita soltanto al fine di separare il consumo identico alla produzione dal consumo vero e proprio, il quale è concepito piuttosto come antitesi distruttiva della produzione. Prendiamo dunque in esame il consumo vero e proprio. Il consumo è immediatamente anche produzione, come nella natura il consumo degli elementi e delle sostanze chi- miche è produzione della pianta. Che ad esempio nel nutrirsi che è una forma di consumo, l'uomo produca il suo proprio corpo, è chiaro. Ma ciò vale per ogni altro genere di consumo che in un modo o nell'altro per un verso produce l'uomo. Produzione consumatrice. Tuttavia, dice l'economia, questa produzione identica al consumo è una seconda produzione, risultante dalla distruzione del primo prodotto. Nella prima si reificava il produttore, nella seconda si personifica la cosa da lui creata. Questa produzione consumatrice - benché sia un'immediata unità di produzione e consumo - è quindi fondamentalmente diversa dalla produzione vera e propria. L'unità immediata in cui la produzione coincide con il consumo e il consumo con la produzione, lascia sussistere la loro immediata dualità. La produzione è quindi immediatamente consumo, il consumo è immediatamente produzione. Ciascuno è immediatamente il suo contrario. In pari tempo ha però luogo un movimento mediatorio tra le due parti. La produzione media il consumo, di cui essa crea il materiale e al quale senza di essa mancherebbe l'oggetto. Ma il consumo dal canto suo media la produzione; infatti è soltanto esso che crea il soggetto ai prodotti, il soggetto per il quale essi sono dei prodotti. Il prodotto ottiene l'ultimo compimento soltanto nel consumo. Una ferrovia sulla quale non si viaggia, che quindi non viene logorata, non viene consumata, è soltanto una ferrovia in potenza, non lo è nella realtà. Senza produzione non vi è consumo; ma anche senza consumo non vi è produzione, giacché in tal caso la produzione non avrebbe scopo.
Karl Marx, Lineamenti fondamentali di critica all'economia politica, Grundrisse, Einaudi, 1976, p. 10 – 14
Nel caos sociale che sta per succedere in seguito alla crisi economica Marx si impegna per dare forma ai propri studi di economia. Gli studi dell'economia marxista hanno la funzione di rispondere alla domanda che l'uomo si pone: in che mondo vivo?
Se l'uomo non conosce il mondo in cui vive, non è nemmeno in grado di organizzare razionalmente la sua vita. Fino a ieri all'uomo si raccontava che il mondo era creato da Dio e che lui non poteva conosere la creazione di Dio, doveva soltanto adattarsi alle condizioni che la creazione gli presentava. Marx intende cambiare questi termini. Per Marx non è Dio che agisce nel mondo in quanto Dio è il prodotto dell'immaginazione dell'uomo, ma è l'uomo attraverso le relazioni produttive fra sé e il mondo e fra sé e gli altri uomini.
Se la filosofia precedente a Marx si interessava di raccontare all'uomo com'era il mondo immaginato da Dio; Marx racconta all'uomo com'è il mondo delle relazioni economiche affinché egli possa agire in tali relazioni e modificarle a proprio vantaggio.
L'universo di Marx non è un universo dominato da Dio o dallo spirito, è un universo fatto di corpi di uomini che trasformano merci in prodotti che vengono consumati dagli stessi o da altri uomini. Marx porta l'uomo dalla relazione col mondo divino alla relazione col mondo dell'economia, del lavoro e della finanza.
La citazione che ho riportato della Grundrisse chiarisce molto bene la relazione fra l'uomo e l'economia. Ogni produzione è appropriazione, da parte dell'uomo, della natura. Mediante la produzione l'uomo si appropria della natura trasformandone i fini della porzione di cui si è appropriato in funzione dei propri bisogni e delle proprie necessità.
L'accumulo della produzione si ha quando si vuole mettere al sicuro quanto si è acquisito. Nello stesso tempo Marx racconta come produzione, distribuzione e consumo sono strettamente connesse dove la produzione è consumo e il consumo è produzione che sviluppa a necessità della distribuzione per sviluppare ulteriormente il consumo che sollecita a sua volta la produzione.
In questa azione c'è la continua modificazione del mondo. Ed essendo il mondo composto dalla produzione dell'economia non solo viene modificato dall'attività lavoro, ma il lavoratore stesso, il produttore e consumatore di beni, vengono a loro volta modificati dall'attività svolta durante il lavoro.
Ciò che diviene, nella filosofia marxista, non è il fatto, ma l'uomo stesso che mediante la trasformazione di parte della natura in funzione dei propri bisogni modifica continuamente sé stesso e le proprie condizioni di vita.
Scrive ancora Marx nelle Grundrisse a proposito del profitto:
Variazioni permanenti nel saggio del profitto. Divisione del prezzo del prodotto tra capitalisti e lavoratori.
L'intero valore delle merci del fittavolo che coltiva la terra che regola il prezzo e del fabbricante che produce le merci, viene diviso in due sole porzioni: l'una costituisce i profitti del capitale, l'altra i salari del lavoro (p. 107). Se il grano e i manufatti si vendessero sempre al medesimo prezzo, i profitti sarebbero alti o bassi nella misura in cui i salari sono bassi o alti. Se il prezzo del grano aumenta perché occorre una maggiore quantità di lavoro per la sua produzione, aumentano i salari e diminuisce il profitto. Se un fabbricante vende le sue merci a 1000 lire sterline, il suo profitto dipende dal fatto che i salari costino 800 o solo 600 lire sterline. Il rincaro del prodotto grezzo agisce allo stesso modo sul fittavolo ... Per esso infatti egli paga una rendita, o deve impiegare un numero addizionale di lavoratori per ottenere il medesimo prodotto, e il prezzo addizionale corrisponde a una di queste due spese eccedenti, ma non lo compensa per l'aumento del salario (p. 108). Il prodotto che l'agricoltore fornisce può essere di 180, 170, 160 o 150 quarters, in ogni caso egli ottiene, come inizialmente per i 180, cosi successivamente per i 170 ecc. quarters 720 lire sterline; il prezzo aumenta in proporzione inversa alla quantità (pp. 112, 113). I profitti non possono mai aumentare al punto che delle 720 lire sterline non rimanga quanto basta per lasciare agli operai i beni assolutamente necessari; né d'altro canto i salari possono mai aumentare al punto di non lasciare una parte di questa somma per i profitti (p. 113). Noi trascuriamo le variazioni accidentali dovute ai buoni o ai cattivi raccolti, o all'aumento o alla diminuzione della domanda determinato da un qualsiasi effetto improvviso sullo stato della popolazione. Parliamo del prezzo naturale e costante del grano (p. 114 nota). L'agricoltore è quindi fortemente interessato a tener bassi i prezzi naturali del prodotto grezzo. Lo è da un lato in quanto consumatore, dall'altro in quanto impiega lavoro (p. 114). Sono poche le merci il cui prezzo non è influenzato dall'aumento del prodotto grezzo, in quanto una parte del prodotto grezzo entra sempre nella loro composizione. Esse rincarano perché nel prodotto grezzo di cui sono fatte viene impiegato più lavoro, non perché i fabbricanti pagano di più gli operai che impiegano. Comunque le merci rincarano perché in esse viene speso più lavoro, non perché il lavoro in esse speso ha un valore maggiore. Gli articoli di gioielleria, il ferro, le lamiere e il rame non aumenterebbero, in quanto nella loro composizione non entra alcun prodotto grezzo della superficie della terra (p. II7). Gli effetti prodotti sui profitti sarebbero i medesimi o all'incirca i medesimi, se si verificasse un aumento di prezzo degli altri beni necessari, tranne i generi alimentari, in cui vengono spesi i salari dei lavoratori (p. II8). Con l'aumento del prezzo di mercato di una merce oltre il suo prezzo naturale, in questo particolare ramo di attività il profitto supera naturalmente il livello generale dei profitti. Ma questo è solo un effetto temporaneo (pp. II8, 119). I profitti dipendono dal livello alto o basso dei salari, i salari dal prezzo dei beni necessari, e il prezzo dei beni necessari essenzialmente dal prezzo dei generi alimentari (p. II9). 35 Il profitto tende quindi naturalmente a diminuire poiché, con il progredire della società e della ricchezza, i generi alimentari addizionali richiedono una quantità crescente di lavoro. Questa tendenza, questa gravitazione del profitto è arrestata in ricorrenti periodi intermedi dai perfezionamenti del macchinario, connessi con la produzione dei beni necessari, oltre che dalle scoperte nella scienza agricola che riducono i costi di produzione (p. [120,~ 121). Con l'aumento del prezzo naturale dei generi alimentari aumenta anche il prezzo degli altri beni necessari, a causa dell'accresciuto valore della materia prima di cui sono fatti, il che aumenterebbe ulteriormente i salari e diminuirebbe i profitti (pp. 122, 123). L'agricoltore e il fabbricante non possono vivere senza profitti, proprio come l'operaio non può vivere senza salario. Il loro impulso all'accumulazione diminuirà con ogni diminuzione del profitto e cesserà del tutto nel momento in cui i loro profitti non assicureranno un compenso adeguato al loro disturbo e al rischio che comporta l'impiego produttivo del capitale (p. 123). Del resto il saggio dei profitti cadrebbe ancor più rapidamente di quanto è stato delineato sopra, giacché quando il prodotto rincara molto, il valore del capitale dell'agricoltore viene a essere molto accresciuto in quanto consiste necessariamente in un gran numero di merci che sono aumentate di prezzo. Se il suo profitto era del 6% sul capitale originario, ora esso è solo del 3 %. Ad esempio, 3000 lire sterline al 6% fruttano 180 lire sterline. 6000 lire sterline a13% fruttano anch'esse 180 lire sterline. In queste circostanze e a queste condizioni solo un nuovo agricoltore che ha in tasca 6000 lire sterline potrebbe entrare nell'attività agricola (pp. 123, 124). Anche presso una parte dei fabbricanti ha luogo una parziale compensazione. Il fabbricante di birra, il distillatore, il fabbricante di tessuti e quello di tela di lino sono parzialmente compensati per la riduzione dei loro profitti dall'aumento di valore delle loro scorte di materie prime e di prodotti finiti; ma non è così nel caso del fabbricante di ferramenta di articoli di gioielleria ecc., come nel caso di coloro il cui capitale consiste esclusivamente in denaro (p. 124). D'altro canto: anche ammettendo che il saggio dei profitti di capitale diminuisca in seguito all'accumulazione di capitale nelle campagne e all'aumento dei salari, l'ammontare complessivo dei profitti deve comunque aumentare. Se quindi supponiamo che in seguito a ripetute accumulazioni di 100 000 lire sterline il saggio del profitto diminuisca dal 20 al 19, 18, 17%, possiamo attenderei che l'ammontare complessivo dei profitti ottenuti dai successivi possessori di capitale progredisca costantemente; che esso sarebbe maggiore con un capitale di 200000 che con uno di 100000 lire sterline; che sarebbe ancora più grande se fosse di 300000; e dunque sempre crescente, sebbene a un saggio che diminuisce con ogni aumento di capitale. Ma questo progresso è vero solo per un tempo determinato: così il 19% su 200000 lire sterline è più del 20 su 100000; il 18% su 300000 è più del 19% su 200000; ma dopo che il capitale è stato accumulato in grandi quantità e i profitti sono diminuiti, l'ulteriore accumulazione diminuisce l'insieme dei profitti. Se quindi supponiamo che l'accumulazione sia di 100000 e i profitti del 7%, l'ammontare complessivo del profitto sarà di 70000 lire sterline; se a questo punto al milione si aggiungono 100000 lire sterline di capitale e i profitti cadono al 6%, i proprietari del capitale percepiscono 66 000 lire sterline, subendo una riduzione di 4000 lire sterline, sebbene l'importo del capitale sia aumentato da 1000000 a 1100000 lire sterline (pp. 124, 125). Tuttavia, finché il capitale frutta un profitto non può aver luogo alcuna accumulazione di capitale che non comporti non solo un aumento del prodotto, ma un aumento di valore. Con l'impiego di 100000 lire sterline di capitale addizionale nessuna parte del capitale precedente diventa più improduttiva. Il prodotto della terra e del lavoro deve aumentare e il suo valore deve crescere, non solo a causa del valore delle aggiunte fatte alla quantità precedente delle produzioni, ma a causa del nuovo valore che è dato all'intero prodotto della terra dalla crescente difficoltà di produrre l'ultima porzione di esso. Se però l'accumulazione del capitale diventa grandissima, nonostante questo suo valore accresciuto esso viene distribuito in modo tale che un valore minore che in passato è appropriato dai profitti, mentre aumenta quello destinato alla rendita e ai salari ... Raggiunto un certo livello proprietari terrieri e lavoratori otterranno più del prodotto addizionale e, grazie alla loro situazione, saranno in condizione di intaccare perfino i precedenti guadagni del capitalista ... Gli unici a trarne realmente vantaggio sarebbero i proprietari terrieri, giacché otterrebbero più prodotto e in cambio di esso più valore ... Il salario aumentato per l'operaio sarebbe puramente nominale e cadrebbe perfino ... Sebbene si sia prodotto un valore maggiore, una proporzione maggiore di ciò che resta di questo valore dopo che è stata pagata la rendita viene consumata dai produttori, ed è questo, soltanto questo che regola i profitti ... Una propor- zione maggiore della parte di prodotto che rimane dopo il pagamento della rendita, per essere distribuita tra i capitalisti e gli operai salariati, è assegnata a questi ultimi. Ciascun uomo può ottenere di meno, ma poiché in proporzione all'intero prodotto trattenuto dal fittavolo vengono impiegati più operai, dai salari verrà assorbito il valore di una proporzione maggiore dell'intero prodotto e di conseguenza per i profitti avanzerà il valore di una proporzione minore (pp. 125-28). Il saggio di profitto dipende dunque dalla quantità di lavoro occorrente per produrre i generi necessari sulla terra che non frutta rendita. Gli effetti dell'accumulazione sono quindi diversi in diversi paesi e sono particolarmente dipendenti dalla fertilità del terreno (p. 128). Abbiamo visto che il prezzo in denaro delle merci - indipendentemente dal fatto che l'oro sia o meno il prodotto del paese stesso - non aumenta con un aumento dei salari. Ma supponiamo che sia vero il contrario. Se i prezzi delle merci aumentassero in seguito agli alti salari, ciò nonostante l'aumento del salario ridurrebbe il profitto. Supponiamo che il cappellaio, il fabbricante di calze e il calzolaio paghino ciascuno 10 sterline in più per salari e che anche i loro prodotti aumentino di 10 lire sterline; in tal caso la loro situazione non sarebbe migliorata. Se il fabbricante di calze vende il suo prodotto a 110 invece che a 100 lire sterline, i suoi profitti sono costituiti dalla stessa somma in denaro che otteneva prima; ma in cambio di queste 110 lire sterline egli otterrebbe un decimo in meno di cappelli, scarpe e di ogni altra merce, e poiché con questo importo precedente di risparmi egli potrebbe ottenere meno operai al salari aumentati e comperare meno materie prime ai prezzi aumentati, la sua situazione non sarebbe migliore di quella in cui si troverebbe se l'ammontare dei suoi profitti in denaro fosse realmente diminuito e ogni cosa fosse rimasta al suo vecchio prezzo ... Di fatto sarebbe semplicemente diminuito il valore del mezzo in cui sono stimati prezzi e profitti (pp. 129, 130).
Karl Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica, Grundrisse, Einaudi editore, 1976, p. 1005 – 1009
Le Grundrisse anticipano Il Capitale. Con Marx l'uomo analizza un nuovo mondo in cui si esprime la sua vita. Un mondo che da reale diventa il mondo della filosofia: il lavoro, la finanza, le relazioni economiche fra gli uomini.
Platone inventa il regno di Atlantide e immagina una Repubblica organizzata per classi in cui si pratica l'eugenetica per addomesticare e controllare gli uomini, Agostino organizza la sua filosofia in funzione della "Città di Dio". Tommaso Campanella porta la sua filosofia nella "città del Sole. Hobbes mette la sua filosofia nel mondo del Leviatano. Mondi che come mari risolvono la trasformazione del pensiero del filosofo. Al contrario di loro, Marx risolve il divenire del suo pensiero filosofico nelle relazioni economiche e le relazioni economiche diventano il mondo in cui Marx fa filosofia e l'uomo vive.
La citazione che ho presentato dimostra molto bene la ricerca puntigliosa fatta da Marx per comprendere i meccanismi della formazione del salario e del profitto. Non c'è una società ideale in Marx, c'è la società attuale in cui gli uomini costruiscono le loro relazioni in funzione di un futuro possibile.
Volendo riassumere Marx e la sua analisi della struttura economica della società nel suo tempo possiamo dire: sia che tu sia un capitalista, un banchiere, un salariato, un fittavolo, o conosci i meccanismi economici della società in cui vivi o sei destinato al fallimento. Quando fallisci allora arrivi a desiderare la Città di Dio di Agostino, l'assunzione in cielo col corpo di Paolo di Tarso, la Città del Sole di Campanella, ecc. ma quel desiderio si limita a certificare il tuo fallimento esistenziale che poi, magari, qualche tribunale certifica sottraendoti i tuoi beni materiali.
Il 26 giugno 1865 Marx presenta lo scritto "Salario, prezzo e profitto".
Il 13 settembre 1868, l'ala proudoniana lascia l'associazione mentre l'ala di sinistra si avvicina alle posizioni marxiste. Si decide di diffondere il primo libro de "Il Capitale" edito da Marx nel 1867.
In questa biografia non commento Il Capitale di Marx. E' un'opera di analisi della struttura economica e delle dinamiche delle relazioni economiche-finanziarie. E' più uno studio della realtà in essere che merita impegno di studiosi di economia che non interessi filosofici o politici. Per quanto riguarda la centralità dell'economia nella filosofia e nel pensiero politico di Marx, questa appare evidente in tutti gli altri scritti di natura socio-filosofica di Marx sui quali preferisco centrare l'attenzione per questa biografia. Il Capitale di Marx è un'opera talmente importante da condizionare l'economia sia di eventuali Stati socialisti, sia dei paesi capitalisti, per almeno altri due secoli. Il capitalista o il finanziere che non conosce il Capitale di Marx è un pessimo capitalista e un pessimo finanziere.
Nel 1870 scoppia la guerra fra la Francia e la Prussia. Dopo aver mediato durante la guerra fra posizioni differenti degli operai francesi e prussiani, Marx denuncia le mire espansive di Bismark e tenta di dissuadere gli operai francesi da un tentativo di insurrezione a Parigi voluto da radicali, blanchisti e anarchici. La Comune francese finirà in un bagno di sangue.
Nel 1871 si apre a Londra la conferenza della Prima Internazionale in cui Marx sostiene l'inscindibilità dell'azione economica dall'azione politica. Trova l'opposizione di Bakunin che paventava l'insurrezione del sottoproletariato e dei contadini poveri.
Nel 1875 Marx scrive "Critica al programma di Ghota". Nel maggio del 1875 si svolge il congresso dell'Associazione Generale degli Operai Tedeschi che fondarono il Partito Socialista dei Lavoratori che si trasformerà in SPD. Marx entra in possesso del programma del congresso e scrive una critica: "Critica al programma di Gotha" in cui contrappone le sue idee al "socialismo" di allora. La SPD avrebbe assunto posizioni marxiste solo alla fine del 1800.
Scrive Marx nella Critica al Programma di Ghota:
Ho trattato minuziosamente del «reddito integrale del lavoro», da una parte e dell'«uguale diritto» e la «giusta distribuzione» dall'altra, per mostrare quale grave delitto si commette quando da una parte, si vogliono imporre come dogmi del nostro partito, dei concetti che in un certo periodo avevano un significato, ma che sono ora diventati frasi sorpassate; dall' altra, il modo di vedere le cose realisticamente così faticosamente raggiunte dal partito, ma che ha ora messo radici in esso, di nuovo viene distorto da fandonie ideologiche di carattere giuridico e simili, così diffuse tra i democratici ed i socialisti francesi. A parte quello che fin qui è stato trattato, era soprattutto errato fare della cosiddetta «distribuzione» l'essenziale e mettere l'accento principalmente su di essa. La distribuzione degli oggetti di consumo è ogni volta soltanto conseguenza della distribuzione delle condizioni stesse di produzione. Ma quest'ultima distribuzione è un carattere del modo stesso di produzione. Il modo di produzione capitalistico, per esempio, si basa sul fatto che le condizioni reali della produzione sono assegnate ai non operai sotto forma di proprietà del capitale e proprietà della terra, mentre la massa possiede soltanto la condizione personale della produzione, della forza-lavoro. Dato che gli elementi della produzione sono così distribuiti, ne consegue da sé l'odierna distribuzione dei mezzi di consumo. Se le condizioni di produzione oggettive sono proprietà collettiva dei lavoratori, ne consegue allo stesso modo una distribuzione dei mezzi di consumo diversa dall'attuale. Il socialismo volgare (e da esso anche una parte della democrazia) ha adottato dagli economisti borghesi la consuetudine di considerare e trattare la distribuzione come indipendente dal modo di produzione, e per conseguenza di rappresentare il socialismo come qualcosa che ruoti attorno alla distribuzione. Dopo il chiarimento del rapporto reale, avvenuto già da molto tempo, perché tornare indietro?
4. L'emancipazione del lavoro deve essere opera della classe operaia, al cui confronto tutte le altre classi sono soltanto una massa reazionaria.
La prima strofa è tratta dalle parole introduttive degli statuti internazionali, ma «corretta». Lì viene detto: - L'emancipazione della classe operaia deve essere opera degli operai stessi -. Qui, invece, la «classe operaia» ha da liberare ... cosa? «Il lavoro». Intenda chi può. In cambio, I'antistrofe è una tipica citazione di Lassalle: «al cui confronto (della classe operaia) tutte le altre classi sono soltanto una massa reazionaria». Nel Manifesto comunista si dice: «Di tutte le classi che attualmente si oppongono alla borghesia, soltanto il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria. Le rimanenti classi decadono e muoiono con la grande industria, il proletariato invece è il suo più autentico prodotto». La borghesia è considerata qui classe rivoluzionaria come portatrice della grande industria, rispetto alle classi feudali e ai ceti medi, i quali vogliono mantenere tutte le posizioni sociali che sono l'immagine di modi di produzione sorpassati. Queste classi non formano dunque, insieme con la borghesia, soltanto una massa reazionaria. D'altra parte il proletariato è rivoluzionario rispetto alla borghesia poiché, cresciuto esso stesso sul terreno delle grandi industrie, lotta per strappare alla produzione il carattere capitalistico, che la borghesia cerca di eternare. Ma il Manifesto aggiunge che «i ceti medi diventano rivoluzionari... in vista del loro imminente passaggio al proletariato». Anche da questo punto di vista è dunque un assurdo asserire che essi formino insieme alla borghesia, e per giunta ai feudali, soltanto una massa reazionaria. Durante le ultime elezioni (1874) è stato forse detto agli artigiani, ai piccoli industriali ecc. e ai contadini: di fronte a noi voi siete insieme alla borghesia e al feudali soltanto una massa reazionaria? Lassalle conosceva a memoria il Manifesto comunista come i suoi seguaci le scritture sacre redatte da lui. Se egli, dunque, lo ha travisato: in modo così grossolano, ciò è accaduto soltanto per giustificare la sua alleanza con gli oppositori feudali e assolutisti contro la borghesia. Nel suddetto paragrafo, inoltre, viene tirata per capelli la sua sentenza senza alcun legame con la storpiata citazione dello statuto internazionale. Qui ci troviamo difronte ad una impertinenza e tale da non dispiacere neppure al Sig. Bismark, una di quelle, villanie a buon mercato, merce del Marat di Berlino (2).
5. La classe operaia opera per la propria emancipazione innanzitutto nell'ambito dell'odierno Stato nazionale, consapevole che il necessario risultato della sua lotta, che' è comune ai lavoratori di tutti i paesi civili, sarà l'affratellamento internazionale dei popoli.
Lassalle aveva considerato il movimento operaio dal più angusto punto di vista nazionale, in contrasto con il Manifesto comunista e con tutto il socialismo precedente. Lo si segue in questo e proprio dopo l'attività dell'Internazionale! Si capisce da sé che per poter, in genere, combattere, la classe operaia ha l'obbligo dì organizzarsi nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l'interno di ogni paese è il teatro immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice Il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma per la «forma». Ma l'ambito dell'odierno Stato nazionale, per esempio, del Reich tedesco, si trova a sua volta, economicamente nell'ambito del mercato mondiale, politicamente «nell'ambito del sistema degli Stati». Il primo commerciante che capita, si rende conto che il commercio tedesco è contemporaneamente commercio estero e la grandezza del sig. Bismark consiste per l'appunto nella sua specie di politica internazionale. E a che cosa riduce il Partito operaio tedesco il suo internazionalismo? Alla consapevolezza che il risultato della sua lotta «sarà l'affratellamento internazionale del popoli», una frase presa in prestito dalla Lega borghese per la libertà e la pace [Organizzazione internazionale di democratici borghesi], che deve passare, come equivalente, per l'affratellamento internazionale della classe operaia nella lotta comune contro le classi dominanti e i loro governi, Delle funzioni internazionali della classe operaia, tedesca, neppure una parola, dunque! E così essa dovrebbe rendere la pariglia alla propria borghesia già affratellata, contro essa stessa con la borghesia di tutti gli altri Paesi e alla politica di cospirazione Internazionale del sig. Bismark [1873 alleanza dei tre imperatori contro l'Internazionale]. Infatti, la professione di fede internazionalista del programma sta infinitamente al di sotto di quella del partito del libero scambio. Anche questo sostiene che il risultato della propria lotta è 1'«affratellamento internazionale dei popoli». Questo partito fa anche qualcosa per rendere internazionale il commercio e non si accontenta in alcun modo della consapevolezza che tutti i popoli, nel proprio Paese, a casa loro, esercitano il commercio. L'attività internazionale della classe operaia non dipende in alcun modo dalla esistenza della «Associazioni internazionale degli operai». Questa fu soltanto il primo tentativo di costituire un organo centrale di quella attività; tentativo che, per l'impulso che dette, ebbe un risultato permanente, ma, nella sua prima forma storica, non poteva più essere mantenuto dopo la caduta della Comune di Parigi. La «Norddeutsche» di Bismark aveva piena ragione quando annunciava, per accontentare il suo padrone, che il Partito operaio tedesco aveva, nel nuovo programma, abiurato l'internazionalismo [20 marzo 1875 Norddeutsche Allgermeine Zeitung – articolo di fondo].
Karl Marx, Critica al programma di Ghota, Edizioni Samonà Savelli, 1972, p. 39 – 43
La Critica al programma di Gotha rappresenta un testo che ben rappresenta la visione marxista in contrapposizione alla visione socialista e inquadra l'uomo nel suo essere nel mondo. "L'emancipazione della classe operaia deve essere opera degli operai stessi". Si tratta di un'affermazione filosofica che apparentemente sembra oggi "lapalissiana", ma che contrappone un sistema di pensiero antagonista a tutta la filosofia della salvezza propagandata dal cristianesimo. E' Gesù che viene dalle nuvole con grande potenza che salva l'umanità, dice il cristianesimo.
Essere sé stessi i protagonisti della propria esistenza e consapevoli che nessuno può liberare qualcuno dalle condizioni oppressive se non l'oppresso stesso cambiando le condizioni della propria esistenza.
Inoltre, la critica marxista si pone contro non solo la divisioni in classi della società, ma anche contro il delirio di chi, esaltando gli operai come élite ideologica, vorrebbe mettere gli operai in guerra contro tutte le persone di altre classi sociali ugualmente sfruttate anche se portatrici di un qualche privilegio sociale.
Lo stesso vale per il fine della lotta per il cambiamento del presente che i socialisti vogliono rinchiudere in una visione idealistica, l'affratellamento, quando, di fatto, la classe operaia, in quanto classe nazionale, non ha mai combattuto contro la classe operaia di altri popoli. Parlare di giungere all'affratellamento dei popoli significa volere che gli operai facciano propria, in nome di una bandiera nazionale, le guerre fra nazioni come quella appena combattuta dalla Germania contro la Francia. Il nazionalismo non si addice a Marx, ma nemmeno la negazione della nazione.
Il 2 dicembre 1881 muore la moglie di Marx. Marx è disperato. Nel 1882, gennaio, perde anche la prima figlia. Marx non si riprenderà più e muore il 14 marzo 1883.
Checché si voglia dire di Marx, nella sua vita non c'è un solo compromesso con il potere che domina gli uomini. Ha vissuto da cittadino che contesta l'autorità ed è morto da cittadino. La sua filosofia esistenziale è coerente col suo vissuto. Si può discutere o criticare, ma è una filosofia che non nasconde un secondo fine se non quella della liberazione dell'uomo nel suo momento vissuto.
Marghera, 08 settembre 2018 – revisionato il 5 ottobre 2019
Pagina tradotta in lingua Portoghese
Tradução para o português: Capítulo 90 A biografia de Karl Marx - sétima biografia
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Claudio Simeoni
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