Le biografie dei filosofi che partecipano alla partita di calcio
Seneca nasce fra il 4 a. c. e l'1 d.c.
Lucio Anneo Seneca è nato a Cordoba in Spagna da una famiglia romanizzata con cittadinanza romana. Il padre, Anneo Seneca, era un appassionato di oratori e compose alcune opere delle quali ci è pervenuta "Controversie e suasorie" sull'arte dell'oratoria a Roma. Per distinguere Lucio Anneo Seneca dal padre, Anneo Seneca, spesso si parla di Seneca il Giovane e di Seneca il Vecchio.
La madre Elvia, più giovane del marito, era di una ricca famiglia e fu in grado di amministrare la ricchezza di famiglia quando Anneo Seneca si era trasferito per un certo tempo a Roma prima di trasferirvisi definitivamente con tutta la famiglia.
Lucio Anneo Seneca era il secondo di tre figli. Il primo, Anneo Novato, studierà con l'oratore Giulio Gallione dal quale sarà anche adottato prendendo il suo nome. Il terzo fratello, Anneo Mela, che sarà il padre del poeta Lucano.
La data di nascita di Lucio Anneo Seneca, che chiamerò solo Seneca, è incerta ed è desunta da vari passi dei suoi scritti. In ogni caso, gli studiosi propendono fra il 4 a. c. e l'1 d. c. Seneca morirà nel 65 d. c. ed è importante la sua testimonianza sull'assenza dei cristiani a Roma. Infatti, i cristiani non appaiono nei sui scritti eppure nei suoi scritti appaiono numerosi temi fatti propri dai cristiani.
Da Cordova, Seneca fu portato a Roma da una sorella della madre. A Roma studiò grammatica e poi filosofia con Sozione, che segue idee Pitagoriche e Platoniche, fra il 14 e il 17 d. c. Poi fu alla scuola dello stoico Attalo, molto citato da Seneca nelle lettere a Lucillo. Inoltre, a Roma Seneca frequentò Papirio Fabiano con cui studiò le opere di Sestio.
Dopo il 17 d. c. Seneca parte per l'Egitto per curarsi da affezione ai bronchi. L'occasione è data dalla zia che ha sposato Caio Galerio che fu nominato prefetto dell'Editto durante il regno di Tiberio. Fu prefetto dell'Egitto dal 17 d. c. fino al 31 d. c.
Si pensa che Seneca abbia raggiunto la zia attorno al 20 d. c. e che sia rimasto in Egitto, chi dice 11 anni e chi dice 5 anni. Si sa che ritornò a Roma nel 31 d. c. perché racconta l'episodio della tempesta in cui la zia recuperò il corpo del marito morto, ma non si conosce la data precisa della sua partenza da Roma per l'Egitto.
C'è un'opera perduta di Seneca dal titolo "Geografia e religione d'Egitto" che dimostra come Seneca in Egitto abbia lavorato studiando la situazione del paese e non è detto che non sia venuto in contatto con Filone d'Alessandria e col giudaismo alessandrino che tentava un sincretismo fra la filosofia stoica e l'ebraismo. Nelle opere di Seneca spesso si incontrano le idee espresse da Filone d'Alessandria.
Scrive nell'introduzione alle opere complete di Seneca Giovanni Reale:
Roberto Radice, poi, di recente, ha dimostrato che la celebre lettera 65 di Seneca ha tangenze strutturali e concettuali con il De opificio mundi. Si tratta di tangenze che hanno uno spessore tale da rendere del tutto insostenibile una spiegazione che ricorra all'ipotesi di una fonte intermedia». Il lettore interessato potrà vedere le dettagliate prove che porta Radice; in particolare, qui ne richiamiamo solo una determinante. La riduzione delle Idee platoniche a pensieri divini prima di Filone ricorre solo in forma di accidentali allusioni; Filone, invece, la consacra fondandola sul concetto di creazionismo. Ebbene, proprio Seneca ha acquisito questa concezione delle Idee come pensieri di Dio e l'ha fatta addirittura anche sua. Scrive Radice: «Seneca fu il primo filosofo dopo Filone a parlare esplicitamente delle Idee come pensieri di Dio: prima dell'Alessandrino nessuno mai ne aveva parlato chiaramente e puntualmente e, invece, dopo Seneca questa dottrina risulta essere ampiamente diffusa». Noi aggiungeremo, qui, un altro argomento, che ci sembra assai importante per confermare la tesi degli influssi diretti di Filone di Alessandria su Seneca. Nella Prefazione al primo libro delle Questioni naturali, Seneca pone il problema di determinare quale sia la potenza di Dio e «se egli stesso si crei la materia o se utilizzi una materia che gli è stata data». Ebbene, proprio questo dilemma: se Dio materiam sibi formet, oppure se, invece, data utatur; non è certamente di matrice ellenica. Il problema della creazione della materia nel pensiero greco-pagano non risulta sia stato mai posto; risulta, invece, essere nato proprio dall'impatto del pensiero filosofico greco con i testi biblici. In particolare, il problema del creazionismo, con tutta una serie di implicanze e di conseguenze, raggiunse i suoi primi vertici appunto con Filone di Alessandria. Da una traduzione dall'armeno del De deo di Filone si ricava addirittura una frase molto vicina a quella di Seneca. Scrive Filone: «creatur formaturque materia»; scrive Seneca: «materiam ipse sibi formet». Ovviamente, non è pensabile che Seneca si sia inventato dialetticamente problemi di questo genere (che per lui, tra l'altro, erano secondari rispetto a quelli morali), che non avevano altri precedenti che in Filone e che implicavano un impatto con il testo biblico.
Seneca, Tutti gli scritti, Introduzione di Giovanni Reale, Rusconi, 1994, p. CLIV e CLV
Quanto sia stata l'influenza su Seneca dell'ambiente neoplatonico-giudaico è difficile da quantificare. Sicuramente gli ebrei di Alessandria stavano tentando di recuperare lo svantaggio rispetto alla filosofia greca e gli stessi platonici di Alessandria stavano cercando le affinità fra il pensiero giudaico e quello stoico-platonico. E' Antioco di Ascalona, in polemica con Filone di Larissa ad Atene, che fonda una scuola filosofica ad Alessandria d'Egitto. Filone di Larissa è l'ultimo filosofo scettico dell'accademia di Atene mentre Antioco di Ascalona rifiuta lo scetticismo, torna alla teoria delle idee di Platone, costruisce un sincretismo con gli stoici e nel 79 ad Atene ha come allievo Cicerone. Probabilmente è con costoro che Seneca ha contatti facendo proprie tutta una serie di idee dei suoi scritti.
Ciò che la scuola alessandrina e giudaico-platonica trasmette a Seneca è l'idea del potere di Dio che non è sottoposto a nessuna legge. Dio è buono a prescindere dagli atti che compie.
Tornato a Roma Seneca inizia la carriera da oratore.
Dal 31 d. c. al 41 d. c. la carriera di oratore di Seneca tocca il suo apice.
E' la sorella della madre di Seneca, introdotta nell'ambiente che conta di Roma, che procura a Seneca le raccomandazioni per la sua carriera. Lo dice Seneca nella lettera alla madre Elvira: "La zia si è fatta ambiziosa per me".
La zia, moglie dell'ex prefetto d'Egitto, procura a Seneca le raccomandazioni che lo portano a diventare "questore", primo gradino per la carriera da senatore. Seneca avrebbe ricoperto la carica di questore dal 34 al 35 d. c. Dopo questi anni Seneca aveva conquistato il diritto di diventare Senatore.
"La consolazione a Marcia" è considerato il primo testo che conosciamo di Seneca. Marcia, donna anziana che ha perso marito e figli, si è ritirata nella disperazione ed esce di casa solo per andare al cimitero. Marcia è figlia di Cremazio che come oratore aveva difeso Bruto e Cassio definendo Cassio l'ultimo dei romani. Sconfitto in tribunale, Cremazio si lasciò morire d'inedia. Gli edili ebbero l'ordine di distruggere i suoi libri, ma Marcia li nascose e dopo molti anni li ripubblicò.
Seneca scrive a Marcia per consolarla dal dolore e in questa consolazione, scritta prima dell'esilio, ci sono alcune idee di Seneca che vale la pena di sottolineare perché avranno grande imbatto sul futuro di Roma. La prima è l'idea sulla morte.
Scrive Seneca:
Tuo figlio, in cielo, ha ritrovato il nonno l. Dunque, non hai più motivo di correre alla tomba di tuo figlio: colà giace la parte peggiore e più molesta di lui, ossa e ceneri, che non gli appartengono più di quanto appartengano al corpo le vesti e gli altri indumenti. Integro, senza lasciare nulla di sé sulla terra, è fuggito e se ne è andato nella sua completezza. Si è soffermato brevemente in un luogo superiore, per purificarsi e scuotersi di dosso i difetti e tutte le patine che ineriscono alla vita mortale, poi si è innalzato nel più alto del cielo e colà si muove liberamente, tra le anime felici. 2. Lo ha accolto una compagnia sacra, gli Scipioni ed i Catoni e, tra coloro che hanno disprezzato la vita e si sono dati da sé la libertà, tuo padre, o Marcia. Egli chiama vicino a sé il nipote (ma lassù tutti sono tra loro parenti nello stesso grado), lo vede godere della nuova luce e gli spiega i moti delle stelle vicine e, senza bisogno di ipotesi, ma per esperienza diretta di tutto, è lieto di introdurlo agli arcani della natura. Come è caro al forestiero colui che gli fa conoscere le città ignote, così è cara a tuo figlio, che vuol conoscere le cause dei fatti celesti, questa persona di casa che gliele illustra. Poi gli ordina di penetrare con lo sguardo le profondità della terra, perché è bello rivedere dall'alto ciò che si è lasciato. 3. Perciò dunque, o Marcia, comportati come persona che agisce sotto lo sguardo di un padre e di un figlio che non sono più quali li hai conosciuti, ma sono tanto più elevati e si trovano nel luogo più sublime; arrossisci di qualunque comportamento meschino o comune e di piangere i tuoi cari, ora che sono cambiati in meglio. Ammessi ai liberi ed immensi spazi dell'eternità, non sono divisi tra loro dall'interporsi di mari, da alte catene di monti, da valli impervie o dalle secche infide delle Sirti: tutto per loro è piano e, con naturale agilità e scioltezza, si compenetrano reciprocamente e si confondono con le stelle.
Seneca, Tutti gli scritti, Consolazione a Marcia, Rusconi, 1994, p. 200 – 201
Il cielo come consolazione della presenza del caro defunto che veglia sui vivi. Introdotto come "concetto consolatorio" diventerà ben presto motivo di ricatto delle persone: quell'essere giudicati che allontana dal cielo. Il cielo e il dopo morte diventa motivo di ricatto nei confronti dei vivi affinché obbediscano a delle leggi morali imposte.
Inoltre, va osservato il modello apocalittico con cui Seneca conclude la lettera a Marcia.
Scrive Seneca:
3. «Ripensa a tuo padre ed a tuo nonno: tuo nonno è stato vittima di un sicario, io non mi sono lasciato toccare da nessuno e, privandomi del cibo, ho dimostrato che la mia vita s'ispirava alla medesima magnanimità che aveva ispirato i miei scritti. Perché, nella nostra casa, si riserva il pianto più lungo a chi ha avuto la morte più felice? 4. «Noi, qui, ci riuniamo tutti e vediamo, non circondati dal buio della notte, che nel vostro mondo, contrariamente a quanto credete, nulla merita un desiderio, nulla è elevato, nulla risplende, ma tutto è vile, gravoso, preoccupante e vede ben piccola parte della nostra luce! Debbo dire che qui non ci sono eserciti furibondi che si scontrano, flotte che si infrangono contro altre flotte, parricidi progettati e meditati, fori che strepitano di processi per intere giornate, che qui nulla è nascosto, i pensieri sono palesi ed il cuore aperto e la vita si svolge in mezzo a tutti e davanti a tutti, e si ha sott'occhio e si conosce ogni età. 5. «Mi piaceva raccogliere gli avvenimenti di una sola epoca, che s'erano svolti in una parte infinitesima del mondo e tra pochissimi uomini; ora è possibile vedere l'intera sequenza e l'intreccio di tanti secoli, di tante età, di tutti gli anni; si possono vedere i regni che attendono di sorgere e quelli che stanno per crollare, la caduta delle grandi città ed il futuro fluire del mare. 6. «Quindi, se può recare consolazione al tuo rincrescimento il sapere che questo è il destino comune, ebbene, nulla rimarrà nella condizione in cui è ora, perché il tempo abbatterà tutto e tutto trascinerà con sé. E non si divertirà soltanto con gli uomini (non è infatti piuttosto piccola questa porzione del dominio della sorte), ma con le località, le regioni, i continenti. Cancellerà montagne intere ed innalzerà altrove nuove rupi verso il cielo: inghiottirà i mari, devierà il corso dei fiumi e, interrompendo i rapporti tra le genti, dissolverà ogni alleanza ed ogni società umana. Altrove seppellirà le città in profonde voragini, le scuoterà con terremoti, emetterà dall'abisso esalazioni pestifere, ricoprirà con alluvioni ogni luogo abitato, farà morire ogni vivente sommergendo il mondo e, con immensi fuochi, incendierà e ridurrà in cenere ogni essere mortale. «Quando poi verrà il tempo in cui il mondo dovrà estinguersi per rinnovarsi, codesti esseri si distruggeranno con le loro stesse forze, le stelle si scontreranno con le stelle e, in una universale conflagrazione dell'essere, arderanno d'un sol fuoco tutti i corpi celesti che ora splendono in bell' ordine. 7. «Anche noi, anime felici che abbiamo avuto in sorte l'eternità, quando parrà a Dio che sia il momento della ricostruzione, divenendo, nella distruzione di tutto, una piccola aggiunta al crollo immenso, ci ritrasformeremo negli elementi primordiali». Felice tuo figlio, o Marcia, che già conosce questo!
Seneca, Tutti gli scritti, Consolazione a Marcia, Rusconi, 1994, p. 201 – 202
E' il momento in cui:
"In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre»."
Marco 13, 24 – 32
Non si tratta di "concetti simili", ma la ripresa da parte dell'evangelista Marco del concetto espresso da Seneca nel 39-40 d. c.
Ritengo importante sottolineare che nel 40 d. c. questi modelli di pensiero erano propri della filosofia di Seneca e se questo era lo sguardo sulla vita di Seneca, appare abbastanza evidente la qualità dello scontro fra Seneca e Caligola. L'imposizione che Seneca faceva alle persone di un modello di vita che fosse consono alla sua morale entrava in conflitto con le aspirazioni sociali alla felicità e al benessere.
D'altro canto, Seneca, come senatore, stava accumulando ricchezze. Ricchezze che poco avevano a che fare con la "saggezza" e la morigeratezza del filosofo e molto con il potere derivante dalla carica di senatore.
Nel 37 salì al trono imperiale Caligola.
Seneca si scontra con Caligola e Caligola dapprima lo condanna a morte ma poi, sembra per l'intervento di una sua amante, lo condanna all'esilio. Ma Caligola non manda Seneca in esilio. Caligola viene detronizzato da Claudio e Seneca ritiene di essersi salvato. Dello scontro c'è una relazione fatta da Dione Cassio circa 150 anni dopo i fatti e Caligola viene descritto come un uomo che ambiva a brillare nella retorica ma che, colpito da un discorso tenuto da Seneca in Senato, decide di sbarazzarsi del concorrente.
E' fuori discussione che Seneca odiasse Caligola dipingendolo come un pazzo irascibile senza nessun progetto politico anche se non conosciamo i progetti politici del senatore Seneca né quali interessi proteggesse e quali interessi contrastava dal momento che è sotto il regno di Caligola che Seneca raggiunge onori e accumula ricchezze in grande quantità.
Sta di fatto che nel 41 d. c. Caligola viene detronizzato da Claudio. La moglie di Claudio, Messalina, accusa Seneca di adulterio con Giulia Livilla, moglie di Vinicio, che avrebbe tentato di sedurre Claudio e toglierle il potere di controllo sull'imperatore.
Seneca viene esiliato in Corsica nel 41 e Livilla fu mandata a sua volta in esilio per essere avvelenata poco dopo. Non si è mai saputo quale fosse il gioco di Seneca in questa situazione, tuttavia appare molto coinvolto in manovre politiche di potere all'interno del palazzo imperiale.
Poco prima di partire per la Corsica muore sia la moglie di Seneca che un figlio di Seneca. Poco prima era morto anche il padre di Seneca.
Arrivato in Corsica Seneca scrive il "De Ira".
Al di là delle varie osservazioni che trarrò in seguito, il "De ira" manifesta quel principio secondo cui "il male è generato dall'uomo", nasce nell'uomo e si contrappone a quanto Seneca definisce "natura dell'uomo".
In sostanza, in Seneca troviamo riprodotto quel principio dei vangeli secondo cui "non è ciò che entra nell'uomo che danneggia l'uomo, ma ciò che esce dall'uomo che lo danneggia".
Scrive Seneca nel "De ira":
4. L'ira e l'irascibilità 1. Abbiamo già spiegato a sufficienza che cosa è l'ira. Si veda anche come differisca dall'irascibilità: come l'ubriaco dall'ubriacone e lo spaventato dal timido. Un adirato può non essere irascibile, un irascibile, talvolta, può non essere adirato. 2. Tutte le altre suddivisioni, con cui i Greci designano le sottospecie dell'ira, con ricca terminologia, le lascio cadere perché, in latino, non esistono vocaboli appropriati, anche se noi usiamo gli aggettivi "stizzoso, burbero", ed anche "bilioso, rabbioso, becero, intrattabile, rozzo", che esprimono altrettante sottospecie dell'ira; a questi puoi infine aggiungere "schifiltoso":», una varietà raffinata di ira. 3. Ci sono delle ire che si limitano al gridare, altre sono tanto ostinate quanto frequenti, altre sono pronte alle vie di fatto ed avare di parole, altre si sfogano nell'amarezza dell'ingiuria, altre ancora non vanno oltre la lagna ed il brontolio, altre sono profonde, opprimenti, introverse, e ci sono mille altri aspetti di questo male dai tanti volti. 5. L'ira ripugna alla natura umana 1. Ci siamo chiesti che cosa è l'ira, se ad essa sono soggetti altri esseri oltre l'uomo, come si diversifica dall'irascibilità, in quante specie si suddivide; domandiamoci, ora, se essa è consona alla natura, se è utile, se, almeno in parte, dobbiamo tenercela. 2. Se essa sia consona alla natura, emergerà chiaramente da una attenta osservazione dell'uomo. C'è un essere più mite quando la sua mente è nel giusto assetto? E che cosa c'è di più crudele dell'ira? Esiste un essere che sappia amare gli altri più dell'uomo? E c'è cosa più indisponente dell'ira? L'uomo è nato per il reciproco aiuto, l'ira, per distruggere; l'uomo vuol associarsi, l'ira vuole la separazione; l'uomo vuole giovare, l'ira vuol nuocere; l'uomo vuol aiutare anche gli sconosciuti, l'ira, assalire anche gli esseri più cari; l'uomo è pronto anche a sacrificarsi a vantaggio degli altri, l'ira, ad affrontare il pericolo, pur di trascinare gli altri con sé. 3. Chi, dunque, misconosce la natura, più di colui che attribuisce questo vizio feroce e pernicioso alla sua opera migliore e più rifinita? Come si è detto, l'ira è avida di punire, è un desiderio che non può trovarsi, per natura, nel pacifico cuore dell'uomo. La vita umana poggia sulle buone azioni e sulla concordia, e si sente unita in alleanza e collaborazione comune, non in forza del terrore, ma del reciproco amore. 6. Casistica e norme: a) l'ira e la punizione del male 1. «Allora non si danno casi in cui è necessaria una punizione?» Perché no? Ma leale, ragionata, perché non deve nuocere, ma guarire dietro la parvenza del nuocere. Come scottiamo al fuoco certi giavellotti storti, per drizzarli, e li tagliamo ed applichiamo loro degli spinotti, non per spezzarli, ma per allungarli, così correggiamo i caratteri depravati dal vizio, con il dolore fisico e morale. 2. Appunto il medico, nei disturbi leggeri, per prima cosa tenta di modificare in parte le nostre abitudini quotidiane, di porre una regola al cibo, alle bevande, all'attività, e di rafforzare la nostra salute, limitandosi a cambiare il nostro tenore di vita. La restrizione giova subito; ma, se la restrizione e l'ordine non ci giovano, ci toglie e riduce qualche altra cosa; se neppure così c'è risultato, ci mette a digiuno e sbarazza il corpo con l'astinenza; se i rimedi più blandi non hanno avuto efficacia, ci fa un salasso ed interviene chirurgicamente su quelle membra che danneggiano le vicine o diffondono il male»: nessuna terapia sembra dura, se produce la guarigione. 3. Allo stesso modo, chi tutela la legge e governa la città deve curare le indoli, più a lungo che può con le parole, e le più garbate; per indurre al bene da farsi ed instillare negli animi il desiderio dell'onestà e della giustizia, provocare l'odio dei vizi e la stima delle virtù; in un secondo momento, deve passare ad un discorso più severo, per insistere sulle ammonizioni e per rimproverare; infine, passi alle pene, ma si limiti a quelle lievi e revocabili; assegni il supplizio estremo ai delitti estremi, affinché nessuno vada a morte, se non nel caso in cui il morire giovi anche a chi muore. 4. Su un sol punto si comporterà diversamente dai medici, in quanto quelli procurano una morte blanda a coloro cui non poterono donare la vita, egli invece toglie la vita ai condannati con disonore e pubblico scherno, non perché si diletti d'assistere ad una esecuzione (il saggio è alieno da una ferocia tanto disumana), ma perché siano di ammonimento per tutti e perché, dopo che quelli non hanno voluto giovare a nessuno, lo Stato abbia un sicuro utile dalla loro morte. La natura umana non è, dunque, incline al punire; perciò neppure l'ira, in quanto brama il castigo, è consona alla natura umana. 5. Riporterò un argomento di Platone (che male c'è nell'utilizzare roba altrui, nei limiti entro cui concorda con noi?): «L'uomo buono» dice «non infligge il male» ». Castigare è infliggere un male; il castigare, dunque, non s'addice all'uomo buono; e perciò neppure l'ira, perché l'ira comporta il castigo. Se l'uomo buono non gioisce del castigo, non gioirà neppure di quella passione per la quale il castigo è voluttà: dunque l'ira non è consona alla natura.
Seneca, Tutti gli scritti, De Ira, Rusconi, 1994, p. 70 – 73
Seneca è interessato a legittimare il diritto di tortura del più forte sul più debole. Il potere che tortura o uccide l'individuo reso impotente perché legato e impossibilitato, non ha bisogno dell'ira. Lo ammazza perché questo compiace il potere e rinnova il diritto di possesso dell'uomo sull'uomo. Rinnova il diritto del potere stesso ad uccidere gli uomini che non lo servono come il potere desidera essere servito. Non c'è ira nel Dio degli ebrei quando distrugge l'umanità col diluvio universale "…tuttavia lo Stato ha un sicuro utile" dal massacro degli uomini. Non si addice l'ira all'assassino. E l'assassinato? E colui che riceve offese gratuite? Colui per il quale l'ira è l'unica possibile risposta alle ingiurie del mondo? L'uomo scompare dall'orizzonte filosofico di Seneca. Lo Stato ha il diritto di assassinare gli uomini (perché lo fa per il bene degli uomini) mentre gli uomini che vivono nell'ira per le aggressioni subite?
Lui, dice Seneca, " deve passare ad un discorso più severo, per insistere sulle ammonizioni e per rimproverare; infine, passi alle pene, ma si limiti a quelle lievi e revocabili; assegni il supplizio estremo ai delitti estremi, affinché nessuno vada a morte, se non nel caso in cui il morire giovi anche a chi muore. " E l'individuo che subisce l'aggressione? Dove sono le sue ragioni? Quella di Seneca è l'ideologia della monarchia assoluta, quella che porterà i disastri nei sistemi sociali.
Seneca si guarda bene dal parlare delle "cause che inducono all'ira". Si guarda bene, in tutto il testo, di parlare della gerarchia che induce all'ira e come la necessità di veicolazione dell'ira di un soggetto è direttamente proporzionale all'impossibilità di rispondere alle sollecitazioni del mondo con altri mezzi.
L'ira conduce al furore che manifesta l'urgenza di riparare alle offese subite.
E' quel "Cantami o diva del Pelide Achille l'ira funesta che infiniti addusse luti agli achei…". Perché quell'ira ha provocato tanti lutti? Achille offeso, Apollo offeso, tutti soggetti che hanno risposto alle sollecitazioni del mondo. Senza le sollecitazioni del mondo l'ira non sarebbe sorta dentro all'individuo. Le Furie, nella religione di Roma, erano le forze divine che abitavano dentro all'uomo e che prorompevano nelle azioni dell'uomo quando nessun altro mezzo era in grado di risolvere le contraddizioni del suo vissuto.
Seneca non conosce la religione di Roma? Sicuramente conosce le divinità dell'imperatore, ma non conosce la religione dei cittadini di Roma.
Sì. L'ira è consona alla natura dell'uomo e l'ira è un diritto sociale inalienabile.
Vale la pena di sottolineare come lo stoicismo stia combattendo la religione di Roma nella sostanza dei principi manifestati nella quotidianità anche se, ancora, non è uno scontro per il dominio religioso della società.
Seneca rimane in Corsica dal 41 al 49 d. c. Nel 42 – 43 scrive due consolazioni una "Consolazione alla madre Elvia" e l'altra "Consolazione a Polibio".
Lo spirito dello Stoico si rivela nella "Consolazione a Polibio" quando Seneca, lontano dai fasti del palazzo, supplica l'imperatore affinché ritiri l'esilio dimostrando di essere un vero servo del palazzo.
Lo stoicismo ha una caratteristica che trasmette al cristianesimo. Lo stoico predica la morigeratezza degli altri, lui preferisce le ricchezze. Lo stoico parla con la bocca, non parla attraverso il suo esempio: "fate ciò che vi dico, non fate ciò che faccio!".
Polibio è un liberto il cui compito è quello di selezionare le lettere e le suppliche che da ogni parte dell'impero giungono all'imperatore Claudio. Polibio è un liberto estremamente potente, amante di Messalina, con la sua funzione esercita un certo controllo sull'imperatore.
La "Consolazione a Polibio" è scritta nel 43 da Seneca esiliato in Corsica. Una supplica all'imperatore affinché lo richiami dall'esilio. In tutto il testo c'è una caratteristica che troviamo nei vangeli. Quel "Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?" viene anticipato da Seneca nella supplica all'imperatore Claudio. In questa supplica Seneca non esita a diffamare Caligola, detronizzato da Claudio, per assicurarsi i favori dell'imperatore Claudio.
Scrive Seneca in "Consolazione a Polibio":
13. Invocazione per l'imperatore. Richiesta di richiamo dall'esilio 1. Allontana le mani da lui, o Fortuna e, nei suoi riguardi, non mostrarti potente, se non intervenendo a suo favore. Lascia che egli medichi questa umanità, ammalata e sfinita da tempo, lascia che rialzi e restauri tutto ciò che la forsennata furia del suo predecessore ha abbattuto! Brilli sempre questa stella che brillò su un mondo precipitato nel baratro e sommerso nelle tenebre! 2. Sia il pacificatore della Germania, il conquistatore della Britannia, ripeta i trionfi di suo padre e ne aggiunga dei nuovi! Mi riprometto anch'io d'esserne spettatore, perché conosco la sua clemenza, che tiene il posto d'onore tra le sue virtù. Egli non mi ha abbattuto per non risollevarmi mai più, anzi, non mi ha neppure abbattuto, ma quando, urtato dalla sorte, stavo cadendo, mi ha sorretto, mentre precipitavo e, stendendo la sua mano, strumento della sua divina mitezza, mi ha dolcemente deposto a terra. Invocò per me il senato e non solo mi concesse la vita, ma anche la implorò a mio favore. 3. Ora giudichi, valuti la mia causa come meglio crede; essa sia riconosciuta buona dalla sua giustizia o dichiarata tale dalla sua clemenza. L'innocenza sarà ugualmente un suo dono per me, derivi essa da un suo riconoscimento o da un suo decreto. Intanto, è di grande conforto alle mie miserie, il vedere che la sua misericordia percorre tutta la terra. Proprio da questo angolo, nel quale sono confinato, essa ha dissepolto e riportato alla luce molte persone che giacevano da anni sotto le macerie; non temo d'essere io il solo dimenticato. Egli conosce benissimo il momento in cui deve soccorrere ciascuno; per parte mia, farò in modo che egli non debba arrossire d'arrivare fino a me. 4. Felice la tua clemenza, o Cesare, che permette agli esuli, sotto il tuo principato, di condurre una vita più tranquilla di quella che, pochi anni or sono, sotto Gaiow, conducevano i principi! Non trepidano, non aspettano la spada di ora in ora, non paventano ogni avvistamento di nave. Sei tu che segni un limite alla crudeltà della loro sorte e li fai confidare in un futuro migliore, tranquilli del presente. E' bene, insomma, che tu sappia che davvero sono giustissimi quei fulmini che vengono venerati anche da chi ne è stato colpito.
Seneca, Tutti gli scritti, Consolazione a Polibio, Rusconi, 1994, p. 388 – 389
La richiesta di Seneca per essere graziato è in contraddizione con quella vita spartana e morigerata che Seneca indica come ideale del saggio. E' in esilio, lontano dai vasti del palazzo, le ricchezze che ha accumulato in Corsica non gli servono a nulla o poco e vive la disperazione del ricco ridotto alla povertà. Mentre chi è nato povero e ha adattato sé stesso all'indigenza e scopre di essere ricco ad ogni piccola conquista di benessere, il ricco, vissuto nel lusso e nelle ricchezza che non si è mai preoccupato delle condizioni del mondo, una volta diventato povero, o costretto alla prigione o nell'indigenza, è disperato perché è mancante di tutte le conoscenze e di tutti gli adattamenti psico-fisici per vivere in quelle condizioni.
La supplica di Seneca trasmette tutto il senso dello squallore esistenziale del servo che supplica il padrone di riutilizzarlo come servo. Manca in Seneca la dignità dell'uomo. Manca il Seneca la dignità del filosofo capace di trarre piacere da ogni azione quotidiana. Seneca trae piacere dal dominare altri uomini e ora, che è privato del potere di dominare, si sente triste e smarrito. Un vero stoico incapace di vivere senza un dio padron con cui identificarsi.
E ancora scrive Seneca concludendo la supplica:
18. Tu saprai sopportare con dignità. Gli ultimi consigli e la conclusione 1. Ma tu non hai bisogno di mutar nulla delle tue abitudini, perché ti sei dedicato con amore a quegli studi che conferiscono gran pregio alla felicità e possono facilmente alleviare il dolore; per l'uomo, essi sono estremamente prestigiosi e confortanti. Immergiti dunque ora con ogni ardore nei tuoi studi, ergili come barriera attorno al tuo animo, sicché il dolore non trovi accesso da nessuna parte. 2. Inoltre, rendi eterna la memoria di tuo fratello, consacrandole un tuo scritto: tra le opere che l'uomo sa fare, questa è la sola immune dalle ingiurie del tempo e capace di sfidare gli anni. Tutte le altre, costruite sovrapponendo pietre o blocchi di marmo o innalzando altissimi tumuli di terra, non ci danno una durevole notorietà, perché crollano da sé; invece, la memoria che prende vita dal genio è immortale. Questa tu devi donare a tuo fratello, in questa devi deporlo: sarà sempre meglio consacrarlo con genio eterno che piangerlo con vano dolore. 3. Per quanto riguarda la fortuna, non è possibile ora prendere le sue difese davanti a te, poiché tutti i doni, che essa ci ha fatti, ci diventano odiosi dal momento stesso che ne viene tolto uno; ma il discorso dovrà pur farsi, non appena il tempo avrà reso più equanime il tuo giudizio; allora potrai anche riconciliarti con essa. In realtà, essa ha predisposto molte attenuanti di questa sua ingiuria e, in seguito, ti pagherà più di un riscatto; infine, anche la cosa che ti ha tolta era un suo dono. 4. Non usare dunque del tuo genio a tuo danno, non rafforzare il tuo dolore. La tua eloquenza sa presentare come grandi le cose piccole e ridimensionare le grandi, rendendole insignificanti, ma codeste sue forze debbono essere riservate per altri scopi; ora essa deve puntare esclusivamente sulla tua consolazione. Bada, tuttavia, che ciò non sconfini nel superfluo: la natura esige da noi un certo impegno, ma il di più lo si accumula per la vanità. 5. Io non pretenderò mai che tu ti neghi al pianto. So bene che esistono uomini, la cui saggezza è più improntata a severità che a fortezza, secondo i quali il saggio non deve mai piangere. Non credo che costoro abbiano mai affrontato un'esperienza quale la tua: in tal caso, la sciagura li avrebbe spogliati della loro presuntuosa saggezza e costretti a confessare la verità, anche contro voglia. 6. La ragione adempie bene il suo compito, se elimina dal dolore soltanto il superfluo. L'eccessivo, ma non si può né sperare né desiderare che non gli permetta affatto d'esistere. Deve invece attenersi a questa giusta regola: non trasformarlo né in empietà, né in dissennatezza e suggerirei un contegno che esprima un animo sensibile all'affetto, ma non sconvolto. Scorrano pure le lacrime, ma sappiano anche fermarsi: escano dal cuore i ripetuti gemiti, ma sappiano anche finire: controlla i tuoi sentimenti, in modo da farti apprezzare dai saggi e dai tuoi fratelli. 7. Proponiti di rievocare spesso il ricordo di tuo fratello, di nominarlo nei tuoi discorsi, di fartelo rivivere innanzi con frequenti commemorazioni: potrai riuscirei, se ti renderai dolce, non triste, il suo ricordo; per naturale istinto, l'animo rifugge sempre da quelle cose alle quali non può tornare senza tristezza. 8. Ripensa alla sua modestia, alla sua solerzia nell'impostare gli affari, alla sua prontezza nello sbrigarli, alla sua fedeltà alle promesse. Racconta agli altri tutte le sue parole e le sue azioni: così le rievocherai anche a te stesso. Pensa quale uomo è stato e quali speranze dava. Con un fratello come lui, di quale cosa non ti potevi fare sicuro garante? 9. Questo scritto l'ho composto come ne sono stato capace, con mente intorpidita ed indebolita dalla lunga in azione. Se ti parrà che esso non sia degno del tuo genio o non basti a rimediare al tuo dolore, pensa quanto è inetto a consolare gli altri chi è prigioniero dei suoi mali, pensa con quanta difficoltà sovvengono le espressioni latine ad un uomo attorno al quale strepita un rozzo parlare di barbari, insopportabile anche per quei barbari che hanno un minimo di istruzione.
Seneca, Tutti gli scritti, Consolazione a Polibio, Rusconi, 1994, p. 394 – 395
Le lodi che tesse per l'imperatore Claudio oggi le definiremmo in maniera spregevole da "leccaculo". Che cos'è un oratore se non ha un pubblico che lo ascolta? La ricchezza dell'oratore è data dall'importanza del pubblico. Se non c'è il pubblico, la declamazione è solo sua. La declamazione non produce cibo o benessere se qualcuno non paga per sentire. L'orazione diventa il feticcio dell'oratore come il denaro in un mondo in cui non c'è nulla da acquistare. E' semplicemente un'arte inutile.
Ed è il senso di inutilità che Seneca sta vivendo. La realizzazione di un fallimento esistenziale che in quel momento si sta realizzando davanti ai suoi occhi.
In tutto questo Seneca esprime molto bene il punto di vista dello stoicismo (revisionato da Seneca) che si prostra davanti al potente ed è violento davanti ai sottoposti. Una condizione che verrà fatta propria dal cristianesimo che costringerà gli uomini a supplicare la gerarchia sociale e divina.
L'uomo, che pur di mostrare deferenza al potente che può modificare la sua situazione, è pronto a diffamare chi è finito nella polvere. E' come se qualcuno omaggiasse i carnefici di Hitler parlando dell'ignominia e della crudeltà di chi è stato gasato nei forni crematori. E' il meccanismo ideologico messo in moto da Seneca che da un lato partecipa alle congiure di palazzo e dall'altro supplica il potente affinché la sua pena sia lieve. Così faranno i cristiani che parteciperanno alla distruzione delle società ma pretenderanno di non essere ritenuti colpevoli per i loro delitti "lo avrebbero fatto per lo spirito, non per la carna"(Paolo di Tarso).
"Padrone, quanto sei buono!" diranno i cristiani di colui che ha macellato l'umanità col diluvio universale!
L'altra consolazione che scrive Seneca è alla madre Elvia. Elvira appare il prototipo della madonna cristiana. Madre dedita alla famiglia e ai figli, senza ambizioni personali se non quelle di servire i figli.
A Elvira Seneca scrive una consolazione nella quale dice, a differenza della Consolazione a Polibio:
5. Non parlo dei molti pericoli, dei tanti timori dei quali hai dovuto sopportare gli assalti senza tregua, E, poco tempo fa, hai raccolto le ossa di tre tuoi nipoti, in quel medesimo seno che li aveva appena congedati. Non s'erano compiuti venti giorni da quando avevi fatto il funerale a mio figlio, spirato tra le tue braccia ed i tuoi baci, quando venisti a sapere che io ti ero stato tolto. Ti era mancato finora soltanto questo: dover piangere dei vivi. 3. L'ultima sciagura: il mio esilio 1. Lo riconosco: la ferita più grave, tra quante sono penetrate a fondo nel tuo corpo, è quest'ultima. E non ti ha soltanto graffiato la pelle: ti ha aperto petto e viscere. I coscritti, quando vengono feriti anche leggermente, gridano e temono più le mani dei medici che il ferro nemico, mentre i veterani, anche se trafitti, accettano con pazienza e senza gemiti, come se si operasse sul corpo altrui, l'estrazione delle parti infette; tu, ora, devi disporti con altrettanta forza alla medicazione. 2. Bandisci i lamenti, gli urli e gli altri abituali sfoghi del disordinato dolore delle donne: hai davvero sofferto inutilmente tanti mali, se non hai ancora imparato ad essere misera. Riconosci ora che con te non ho avuto riguardi? Non ti nascondo nulla dei tuoi mali, anzi, te li ho ammucchiati davanti. 4. Prima serie di argomenti: l'esilio non mi rende misero 1. Ho agito con grande coraggio: il mio intento, infatti, è di vincere il tuo dolore, non di circoscriverlo. E lo vincerò, penso, se, in primo luogo, ti dimostrerò che nulla di ciò che soffro è tale da conferirmi la nomea di misero e, tanto meno, da render misere, per causa mia, le persone che sono in stretto rapporto con me; in secondo luogo, se passerò a te e ti dimostrerò che nemmeno la tua sorte, che dipende in tutto dalla mia, è gravosa. 2. Affronterò per primo quell'argomento che il tuo affetto desidera ascoltare per primo: io non ho alcun male. Se ne sarò in grado, ti chiarirò che proprio quelle vicende che tu reputi opprimenti per me, non sono insopportabili. Se la cosa riuscirà incredibile, ebbene, sarò ancor più soddisfatto di me stesso, perché mi ritroverò felice tra vicende che, di solito, rendono miseri gli uomini.
Seneca, Tutti gli scritti, Consolazione a Elvia, Rusconi, 1994, p. 341
Entrambe le consolazioni ci permettono di delineare il carattere di Seneca. Un uomo servo del potere che supplica il potere di amare il suo servo. Alla madre racconta una storia mentre una diversa viene raccontata a Polibio affinché interceda presso l'imperatore Claudio.
Questi sono gli anni dell'esilio in Corsica. Anni vissuti da Seneca con grande dolore perché costretto a vivere fra la miseria e allontanato dalla corte e dai palazzi che tanto ama.
Nel 48 d. c. Messalina, moglie dell'imperatore Claudio, viene assassinata. Agrippina, figlia di Germanico e sorella di Caligola e di Giulia Livilla era riuscita a sopraffare Messalina. Messalina era la madre di Domizio, il futuro Nerone, che sarà adottato formalmente da Claudio e nel 53 sposerà Ottavia figlia di Claudio.
Per controllare Nerone, quale futuro imperatore e figlio di Messalina, Agrippina fece chiamare Seneca dall'esilio.
Seneca impone la sua morale a Nerone da quando questi ha 10-11 anni. Nerone è l'oggetto dell'esperimento educazionale di Seneca. E' colui che cresce rispondendo alle sollecitazioni impostegli da Seneca. Nerone è il prodotto dell'ideologia di Seneca. E' il prodotto di colui che dice "Fa come ti dico e non fare come faccio". Solo che l'azione di Seneca non sfugge all'osservazione di Nerone che scopre immediatamente la menzogna del dire con cui viene mascherata la verità e l'utilità del fare di Seneca. Smascherata la menzogna di quanto detto, non resta che la verità dell'azione da veicolare nel mondo.
Il 13 ottobre del 54 Claudio moriva avvelenato e Nerone diventava imperatore a 16 anni. Seneca, assieme a Afranio Burro diventavano i consiglieri dell'imperatore. In pratica, imperatori essi stessi. Seneca si illudeva che Nerone avesse fatto proprie le sue affermazioni e pensava di averlo plasmato nella "virtù" dell'obbedienza alla morale che lui gli aveva imposto. Solo che i discorsi fatti ad un bambino di 11 o 12 anni sulla morale, la castità, la morigeratezza e quant'altro si scontrano con l'individuo quando a 16 anni quando il testosterone bussa prepotentemente alla porta del sesso.
A questo sedicenne viene concesso il potere assoluto per poter soddisfare sé stesso in un ambiente morale di repressione assoluta che lo vuole ridurre ad oggetto di possesso sotto il controllo di Seneca. Seneca ha confezionato una bomba individuale pronta ad esplodere.
Quando Claudio muore, Seneca prepara il discorso che Nerone avrebbe dovuto fare al senato elogiando l'imperatore morto per averlo adottato come figlio. Subito dopo, Seneca compone "Apokolokyntosis" in cui deride, diffama e mette in ridicolo Claudio. Dopo averlo elogiato e supplicato con la "Consolazione a Polibio". Ora che Claudio è morto deve accreditarsi nei confronti del nuovo padrone e lo fa diffamando e deridendo colui che prima, quand'era in esilio in Corsica, supplicava. Questo modello comportamentale è tipico del cristianesimo: sottomessi e deferenti con i potenti, violenti e prepotenti con i deboli. E' un po' quello che fa Gesù quando insulta i farisei solo perché i farisei non reagiscono ai suoi insulti.
Nel 55 d. c. Agrippina tentò un altro colpo di Stato minacciando di denunciare Nerone ai Pretoriani asserendo che il legittimo successore al trono non era Nerone, bensì Britannico che era il vero figlio di Claudio. Agrippina rinfacciò a Seneca di essere un individuo pedante. Per tutta risposta sembra che Nerone fece uccidere Britannico e la stessa Agrippina, a cui Nerone fece togliere la guardia Pretoriana, allontanandola dal palazzo.
In quello stesso anno Seneca scrive "La costanza del saggio". In quel testo Seneca fa tre operazioni che, per questa biografia, sono degne di nota. La prima è affermare che "il saggio è lo stoico", cioè sé stesso. La seconda è che, nell'esaltare sé stesso come saggio, si riconduce al comportamento di Catone il Censore come esempio della saggezza degli Stoici (Catone non era Stoico, al massimo era un conservatore, un po' violento, che si opponeva alle trasformazioni sociali di Roma). Il terzo aspetto è "la sopportazione e la reazione all'offesa dello stoico".
Sono tre aspetti che troviamo nei vangeli cristiani. La prima la troviamo nell'affermazione che "il cristiano è il saggio e il Fariseo è il malvagio". Il secondo principio, come legittimazione di sé stessi attraverso un passato, lo troviamo nei vangeli sull'episodio della trasfigurazione. Seneca cita un presunto comportamento stoico di Catone mentre nei vangeli Elia e Mosè appaiono direttamente a fianco di Gesù. Il terzo episodio appare nei vangeli come la sopportazione di Gesù alle offese che precedono la crocifissione. Ma soprattutto, in Seneca manca l'altro aspetto: come reagiscono le persone quando Seneca le ingiuria? Come devono reagire i Farisei quando Gesù li insulta? Sono forse tenuti alla sopportazione?
Seneca non parla di ciò che fa lo stoico agli altri, Seneca parla di ciò che gli altri farebbero allo stoico. Questo modo di porsi nel mondo si chiama "delirio di onnipotenza".
Scrive Seneca in "Costanza del saggio":
1. Severità della dottrina stoica 1. Credo di poter dire a ragion veduta, o Sereno, che tra gli stoici e tutti gli altri che fanno professione di saggezza intercorre tanta differenza quanta ce n'è tra le femmine e i maschi: i due gruppi contribuiscono in misura uguale al vivere insieme, ma una delle due parti è nata per ubbidire, 1'altra per comandare. Tutti gli altri saggi usano modi cortesi e blandi e si comportano, più o meno, come quei medici che fanno parte della servitù di casa, i quali non prescrivono le cure migliori e più rapide, ma quelle che garbano al malato. Gli stoici, che adottano un procedere virile, non si curano che esso si prospetti gradevole a chi lo intraprende, ma che ci liberi al più presto e ci conduca a quella vetta che supera talmente ogni portata di dardo, da ergersi al di sopra della sorte. 2. «Ma» si dirà «il sentiero sul quale ci invitate, è ripido e dirupato». Ebbene, si arriva forse alle vette attraversando pianure? E non è neppure così scosceso come qualcuno crede. Soltanto il primo tratto presenta sassi e rupi e sembra impraticabile, come per lo più sembrano scoscesi e compatti i costoni a chi li guarda da lontano, quando la distanza inganna la vista, ma poi, man mano che ci si avvicina, tutto quello che l'occhio incerto aveva sovrapposto e confuso, a poco a poco, si dipana e quelle pareti, che da lontano sembravano ripide, diventano dolci declivi.
Seneca, Tutti gli scritti, Costanza del saggio, Rusconi, 1994, p. 33
Uno destinato a comandare e uno destinato ad obbedire. Cosa vuoi fare, dice Seneca a Nerone, uno, come te, è destinato ad obbedire ad uno come me. E' il destino, mica io che voglio ridurti a nulla ed usarti per i miei scopi.
E' come per le donne, dice Seneca, che sono destinate ad obbedire. Sono fatte per obbedire e lo stesso motivo lo troveremo nei vangeli, dove la donna è la serva degli apostoli, ma soprattutto in Paolo di Tarso che farà della donna la sciava del marito, soggetto di obbedienza ed oggetto d'uso da comperare e vendere.
Continua Seneca:
2. Il saggio di fronte all'ingiuria: l'esempio di Catone 1. Qualche tempo fa, caduto il discorso su Marco Catone, mostravi sdegno, tu che non tolleri le ingiustizie, perché i suoi contemporanei capirono poco Catone, perché lo relegarono più in basso dei Vatini, sebbene emergesse sopra i Pompei ed i Cesari, e ti sembrava intollerabile che gli fosse stata strappata di dosso la toga nel foro, quando stava per parlare contro una certa legge e che, trascinato dalla squadraccia di un partito sedizioso dai Rostri fino all'arco di Fabio, avesse dovuto sopportare gli insulti, gli sputi e tutte le altre angherie di una folla imbestialita. 2. Allora io ti risposi che avevi ragione a sdegnarti per la causa della repubblica, dato che Publio Clodio da una parte, Vatinio dall'altra, e con loro tutti i peggiori, la mettevano in vendita e, presi dalla loro cieca cupidigia, non si rendevano conto che, vendendola, vendevano anche se stessi. Ma per la persona di Catone, ti dissi di non darti pensiero, perché nessun saggio può ricevere né ingiuria né offesa, e gli dèi ci avevano dato Catone come un modello di uomo saggio, meglio definito che non l'Ulisse e l'Ercole che sono stati dati alle età primitive. Questi ultimi vennero dichiarati saggi dagli stoici, nostri predecessori, perché invincibili nelle fatiche, sprezzanti del piacere e vincitori di tutte le paure. 3. Catone non combatté con le belve, che lasciamo inseguire ai cacciatori ed ai contadini, non diede la caccia ai mostri con il fuoco ed il ferro, e non capitò a vivere in tempi in cui si poteva credere che il cielo posasse sulle spalle di un gigante, ma quando era già stata bandita la creduloneria degli antichi e il mondo era perfettamente scaltrito. Dichiarata guerra all'ambizione, il male dai mille aspetti, ed a quella smisurata brama di potere, che neppure la spartizione del mondo fra i triumviri poteva saziare, si eresse lui solo, contro i vizi di una città degenerata, che stava affondando per il suo stesso peso, e ritardò la caduta della repubblica, per quanto era possibile farlo con una sola mano, fino al momento in cui, travolto dal crollo, volle essere partecipe del disastro che aveva cercato di impedire. Così morirono insieme le due realtà che sarebbe stato nefando separare: né infatti Catone sopravvisse alla libertà, né la libertà a Catone. 4. Pensi che un uomo del genere sia stato raggiunto dall'ingiuria del popolo, quando gli fu tolta la pretura o la toga, o quando il suo santo capo fu asperso di sozzi sputi? Il saggio è al sicuro e non può essere raggiunto né da ingiurie, né da offese. 3. Lo stoico non è soltanto un paziente: è un forte 1. Mi pare di vederti dentro, tutto fuoco e bollore. Stai per sbottare: «Questa è roba che toglie ogni credibilità a quanto insegnate. Promettete grandi cose, tali che non si possono desiderare e nemmeno credere, poi, dopo aver detto parolone, dopo aver detto che il saggio non può essere povero, confessate che spesso non ha una casa, uno schiavo, il cibo; dopo aver detto che il saggio non può essere pazzo, ammettete che può impazzire, dire parole insensate, osare ciò cui lo costringe la violenza della sua malattia; dite che il saggio non può essere schiavo, e non negate che può esser messo in vendita e costretto ad ubbidire a comando ed a prestare al suo padrone servigi da schiavo. Così, pieni di spocchia, scendete a dire le stesse cose che dicono gli altri, cambiandone soltanto i nomi. 2. Sospetto che qualcosa del genere entri anche in questa tesi, che pure, a prima vista, è bella e meravigliosa, secondo cui il saggio non può ricevere ingiuria né offesa. Ma c'è una bella differenza tra il porre il saggio al di sopra dello sdegno e porlo al di sopra dell'ingiuria. Infatti, se vuoi dire che saprà sopportare serenamente, non ha nessun privilegio e gli è toccata in sorte una virtù comunissima, che s'impara dalla frequenza stessa delle ingiurie: la pazienza. Se, invece, mi dimostri che non riceverà ingiurie, cioè che nessuno tenterà di fargliene, pianto tutti i miei affari e mi faccio stoico».
Seneca, Tutti gli scritti, Costanza del saggio, Rusconi, 1994, p. 33 – 35
Catone fu un uomo violento e privo di saggezza. Un dominatore di uomini che col suo comportamento mise fine alla Repubblica Romana. Un uomo che non si appropriava di denaro. Un uomo che censurava lo sfarzo ma che non aveva capito la differenza fra il far circolare la ricchezza, la prudenza di chi gestisce le ricchezze e i bisogni legittimi delle persone che finiva per aggredire ed offendere.
Lui era il padrone che controllava la propria famiglia con il pugno di ferro e la stessa cosa la pretendeva nelle cose pubbliche. Solo che le relazioni fra gli uomini non si costruiscono sull'obbedienza, ma sul reciproco che significa dare per ricevere e ricevere dopo aver dato. Catone, al contrario, pretendeva senza accondiscendere, senza mediare.
Seneca dice che Ercole ed Ulisse erano stati dati agli uomini dagli Dèi come esempio riconosciuto tale dagli stoici antichi. A Roma, invece, gli Dèi avevano dato Catone che si ergeva come un eroe che combatteva i vizi di una città degenerata. Una città degenerata che Seneca viveva tutti i giorni vivendo nel palazzo imperiale. Seneca non combatteva il vizio nel palazzo imperiale, accusava le persone di essere viziose come nel palazzo imperiale. Seneca voleva aggredire il benessere delle persone accusando le persone di essere delle persone degenerate. Un motivo che entrerà nel cristianesimo mediante il concetto di peccato. Il tutte le persone sono degenerate in Seneca, diventa tutte le persone hanno il peccato dei cristiani.
Claudio era stato ucciso nel 54 d. c. e già un anno dopo Agrippina tenta di detronizzare Nerone. Questo povero Nerone che avrebbe voluto solo farsi gli affari suoi, dedicarsi al teatro e alla musica, si vede costretto ad affrontare congiure di palazzo messe in atto dalle persone a lui più vicine.
Un tale Suillio, indicato da Seneca come un delatore (avrebbe fatto il delatore per l'imperatore Claudio e per l'imperatore Nerone di cui Seneca era consigliere) accusa Seneca di una serie di delitti e Seneca lo cita in giudizio. Seneca vince il processo e Suillio viene condannato all'esilio. Il processo è stato certamente pilotato, ma sta di fatto che le accuse, non solo di Suillio, vengono riprese da Dione Cassio.
Anche ammettendo che quanto riporta Dione Cassio sia esagerato, sono importanti le risposte di Seneca. Seneca non risponde a Dione Cassio che scrive un centinaio di anni dopo la morte di Seneca, Seneca risponde alle accuse che poi, Dione Cassio, ha riassunto in questo scritto che riassumerebbe le losche attività di Seneca nel palazzo reale. Le risposte di Seneca sono tratte da "La vita felice".
Scrive Giovanni Reale su Seneca riportando Cassio:
Dione, poi, ci informa dettagliatamente sulle dicerie e sulle accuse che da molti venivano rivolte a Seneca nel modo seguente: Seneca si trovò sotto accusa e una delle imputazioni contro di lui era che fosse intimo di Agrippina. Non gli era bastato, sembra, commettere adulterio con Giulia, né era diventato più saggio come conseguenza della sua condanna all'esilio, ma doveva stabilire relazioni irregolari con Agrippina nonostante il tipo di donna che era e il tipo di figlio che aveva. E non fu questo il solo esempio in cui la sua condotta risultò essere diametralmente opposta agli insegnamenti della sua filosofia. Poiché, mentre denunciava la tirannia, si rendeva insegnante del tiranno; mentre inveiva contro gli amici dei potenti, non si allontanava dal palazzo egli stesso; e sebbene non avesse nulla di buono da dire degli adulatori, lui stesso aveva costantemente adulato Messalina e i liberti di Claudio, a tal punto, infatti, da mandar loro dall'isola del suo esilio un libro che conteneva le loro lodi, un libro che egli in seguito soppresse, per vergogna. Sebbene rimproverasse i ricchi, acquistò egli stesso una fortuna di 300.000.000 di sesterzi; e sebbene censurasse le stravaganze degli altri, aveva cinquecento tavoli di legno di cedro con le gambe di avorio, tutti uguali, e serviva banchetti su di essi. Nell'affermare questo ho anche chiarito ciò che naturalmente si accompagnava a questo: la licenziosità in cui egli indulgeva nel momento stesso in cui contraeva un brillante matrimonio, e il piacere che ricavava dai ragazzi adolescenti, pratica che egli aveva insegnato a Nerone a seguire. E tuttavia precedentemente era stato di costumi così austeri da chiedere al suo allievo di scusarlo se non lo baciava e non mangiava alla stessa tavola con lui. (Dione Cassio, Storia Romana)
Seneca, Tutti gli scritti, Introduzione di Giovanni Reale, Rusconi, 1994, p. XLVI
E' abbastanza probabile che Seneca abbia tentato di distruggere il suo libro "Consolazione di Polibio". Nessun diffamatore di Seneca avrebbe potuto rivelarne meglio l'animo meschino in contrapposizione alle affermazioni di "virtù" che egli pretendeva da altri.
A queste accuse, che appaiono esagerate a Giovanni Reale, Seneca risponde ne "La vita felice". Intanto nessuna di queste accuse viene da Seneca smentita, ma nella vita felice, conferma alcune delle accuse che gli sono state mosse. La felicità che Seneca insegue non è la felicità dell'epicureo, ma la felicità dello stoico che si realizza mediante i profitti derivati dal potere e dal possesso di individui.
Riporta sempre nell'introduzione Giovanni Reale le obiezioni che Seneca fa a queste accuse.
Scrive Giovanni Reale riportando Seneca:
Per quanto riguarda le due accuse morali di fondo, ossia, da un lato, l'incoerenza fra i messaggi filosofici di Seneca e la sua vita e, dall'altro, i suoi attaccamenti indiscriminati ai beni di fortuna e ai suoi presunti arricchimenti illeciti, è lui stesso che ci fornisce precise risposte nell'opera La vita felice, opera composta proprio in risposta a quelle accuse. Ecco la risposta alla prima accusa. «La tua vita», insisti, «non è coerente con le tue parole». Lo stesso rimprovero, o uomini più che maligni, ostinati nemici di tutti i buoni, è stato mosso a Platone, ad Epicuro, a Zenone; ebbene, tutti costoro non dicevano come essi vivevano, ma come avrebbero dovuto vivere. Sto parlando della virtù, non di me stesso, e quando attacco i vizi, mi riferisco in primo luogo ai miei, non appena ci riuscirò, vivrò come si deve. Codesta vostra malignità, impregnata di tanto veleno, non mi distaccherà dai migliori e neppure accadrà che codesto veleno, che sputate sugli altri e con il quale uccidete voi stessi, mi impedisca di continuare ad elogiare non la vita che conduco, ma quella che ritengo si debba condurre, o dall'adorare la virtù, pur seguendola a distanza e a carponi. Dunque non è giustificato il tuo disprezzo per i buoni discorsi e per i cuori colmi di buoni pensieri. La meditazione sulle proprie aspirazioni al bene è già lodevole, anche a prescindere dai risultati. E' meraviglia se non raggiungono la vetta, avviati come sono su un sentiero scosceso? Se sei uomo, ammira il loro generoso tentativo, anche quando li vedi cadere. Ed ecco la risposta di Seneca alla seconda accusa sulla ricchezza: Il saggio non si ritiene indegno di nessun dono della sorte, non ama le ricchezze, però le preferisce, non rifiuta quelle che possiede, ma le controlla e vuole servirsene per ampliare il campo d'azione della sua virtù. Smetti dunque di proibire il danaro ai filosofi: nessuno ha mai condannato la saggezza alla povertà. Il filosofo può avere abbondanti ricchezze, purché non siano state sottratte ad altri o lorde di sangue altrui, siano state acquistate senza far torto a nessuno, senza lucri disonesti, e possano andarsene pulitamente, come pulitamente sono venute, e non facciano gemere nessuno, eccettuati i maligni. Aumentane la quantità a piacimento: sono oneste se, pur comprendendo tanti beni che chiunque vorrebbe avere, non contengono nulla che altri possa rivendicare come proprio. Il saggio, per parte sua, non allontanerà da sé l'elargizione che la fortuna gli ha fatto e non si vanterà né si vergognerà di un patrimonio onestamente acquistato. Potrà anche trame un motivo di vanto se, spalancata la sua casa e condotti i concittadini davanti alle sue ricchezze, sarà in grado di dire: «Ciascuno si riprenda le cose che riconosce sue». Sarà grande, onoratamente ricco, l'uomo che, dopo queste parole, resterà in possesso di tutti i suoi beni! lo dico: se quest'uomo potrà sottoporsi, tranquillo e sereno, all'esame del popolo, potrà anche professarsi ricco apertamente, senza segreti. Il saggio non lascerà varcare la soglia di casa sua neppure ad una monetina di mala provenienza; contemporaneamente, non ripudierà e non escluderà da casa propria le grandi ricchezze, il dono della fortuna, il frutto della virtù. Che motivo ha di negare loro un posto onorato? Entrino, siano ospiti. Non se ne vanterà, non le nasconderà (il primo comportamento è da sciocco, il secondo, da timido e pusillanime che s'illude di poter nascondere in seno un grande bene) e, come ho detto, non le caccerà di casa. Ma per darti la risposta che non negherei a nessun uomo, ascolta che cosa ti proclamo e sappi che stima ho dei beni. Dico che le ricchezze non sono un bene: se tali fossero, renderebbero tali gli uomini; ora, poiché ciò che si trova anche presso i cattivi non può essere detto un bene, io nego loro questa qualifica. Per il resto, ammetto che si debbono avere, che sono utili e che conferiscono grandi agi alla vita. Il giudizio morale globale che Seneca dà su di sé è non solo molto umile, ma è addirittura, in un certo senso, quasi spietato, però profondamente toccante: Tra poco rincarerò io la dose delle vostre invettive e mi rimprovererò più difetti di quanto non credi, ma per ora mi contento di risponderti: «Non sono un saggio e, se questo può ingrassare la tua malignità, nemmeno lo sarò. Non puoi pretendere da me che io sia alla pari degli ottimi, ma che sia migliore dei malvagi. Mi basta questo: togliere ogni giorno qualcosa ai miei difetti e rimproverare a me stesso i miei errori. Non sono ancora arrivato alla buona salute e nemmeno ci arriverò; preparo dei calmanti per la mia podagra, non una terapia, e mi accontento di sentirne diradarsi gli attacchi ed attenuarsi le fitte; ma se paragono i miei piedi ai vostri, io, debole, mi sento un corridore». Questo non lo dico di me, perché so d'essere sepolto nel fondo dei vizi, ma di chi ha già fatto qualche cosa?.
Seneca, Tutti gli scritti, Introduzione di Giovanni Reale, Rusconi, 1994, p. XLVII – L
E' molto comprensivo Seneca con Seneca. Lui ha difetti, gli altri devono essere perfetti come insegna lo stoicismo. Lui, Seneca, parla dei suoi vizi e come lui avrebbe dovuto vivere, non parla dei vizi degli altri per anteporre sé stesso come un saggio. Siamo al limite del ridicolo. Questo viene detto solo in risposta alle accuse, in altro testo abbiamo l'esempio di come vive lo stoico e come lo stoico sopporta le condizioni di vita avverse. E' Seneca lo Stoico, non gli altri. E' Seneca che si è fatto miliardario servendo a palazzo e ricevendo regali per favori. L'accumulo di favori mediante relazioni di potere Seneca li chiama "fortuna" non disonesto intrallazzo da palazzo.
Voi, dice Seneca, affermando che io non vivo coerentemente con quanto dico, state sputando veleno. Dice Seneca: "Come potete parlare bene voi, malvagi come siete?". E' un motivo fondamentale ricorrente nei vangeli in cui Gesù, quando viene ripreso a violare le regole, anziché rispettare le regole, aggredisce chi lo accusa di violare le regole. Questo aspetto della fortuna affermato da Seneca viene ripreso dai vangeli cristiani nel concetto di predestinazione voluta da Dio, come in Marco:
E gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». All'udire questo, gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Vangelo di Marco 10, 35-45
Questo concetto, ampliato da Paolo di Tarso, verrà ripreso nel rinascimento dai calvinisti per legittimare le classi sociali e le condizioni sociali quale manifestazione della volontà di Dio. Un Dio che si manifesta anche nell'impunità del ladro e del bandito perché, se è rimasto impunito, è perché Dio ha voluto così.
Seneca vive con i migliori e solo i migliori vivono della compagnia di Seneca. Gli altri, quelli che accusano Seneca di vivere nel lusso quando egli proclama la modestia e la temperanza, sono dei malvagi.
Gli stessi cristiani accumulano ricchezze per servirsene per ampliare il loro raggio d'azione, cioè per accumulare altre ricchezze. Dove il potere non è dato dalla ricchezza accumulata, ma dal possesso dei mezzi e delle condizioni che consentono di accumulare altra ricchezza. Questo perché la ricchezza non va solo accumulata, ma distrutta per poter essere riaccumulata. Veramente andrebbe redistribuita, ma la ridistribuzione della ricchezza è un concetto estraneo al Dio dei cristiani.
I cristiani, come Seneca, predicano agli altri che non devono ambire alle ricchezze (non si può servire Dio e Mammona), ma la chiesa e Dio devono essere ricchi per diffondere la parola di Dio per accumulare ricchezze. Il motivo è introdotto da Seneca che afferma di non anelare alle ricchezze, ma di preferirle alla povertà. Seneca si vanta delle proprie ricchezze accumulate, secondo il suo parere, onestamente servendo Nerone e Agrippina. E' il filosofo che riceve il compenso per il suo lavoro. Lasciamo dunque, dice Seneca, che il filosofo sia pagato per i suoi meriti.
L'unica cosa che non torna è che Seneca non è pagato per i suoi meriti di filosofo, ma è pagato perché sta derubando i cittadini delle loro ricchezze e questo rubare, che non viene condannato dal tribunale di Nerone, viene chiamato accumulare onestamente le ricchezze.
Nei fatti che sto narrando ricordiamo che Nerone nel 58 d. c. ha 21 anni mentre Seneca ha circa 62 anni. Nerone è un ragazzino che sta portando sulle spalle l'impero Romano mentre Seneca è il consigliere furbo che trae profitto dall'ingenuità di Nerone e che agisce affinché Nerone sia sottomesso alla sua autorità.
Fra Agrippina, che tenta di abbattere Nerone, e un Seneca, che con Burro continuano ad essere i consiglieri di Nerone, Agrippina doveva morire. Fra Agrippina, che voleva uccidere Nerone, e Nerone, arrivò prima Nerone che uccise Agrippina. L'azione venne messa in atto con l'aiuto di Burro e Seneca. Fu Seneca stesso a scrivere la giustificazione che Nerone lesse in senato facendo approvare dai senatori l'uccisione di Agrippina.
Siamo nel marzo del 59 d. c. e Nerone ha appena 22 anni. Seneca ha partecipato in prima persona ad uccidere Agrippina. Quell'Agrippina che lo aveva richiamato dall'esilio in Corsica e che, introducendolo a corte come mentore di Nerone, lo aveva reso ricco e potente. Se è giustificabile l'azione di Nerone con le lotte di palazzo, non è giustificabile l'azione di Seneca che dimostra di non aver riconoscenza per nulla e per nessuno.
Qui non si tratta di accusare Seneca di iniquità, si tratta di dire che Seneca era solo un volgare assassino che ha agiva protetto dall'impunità che gli garantiva il suo ruolo alla corte imperiale.
Dopo aver ammazzato Agrippina, Seneca rimane al servizio della corte di Nerone fino al 62 d. c. Nel 62 d. c. muore Burro e Seneca si trova senza il suo braccio armato con cui consigliare Nerone. A Nerone non interessava gestire il potere. Nerone era nato per lo spettacolo e avrebbe desiderato vivere esibendosi nei teatri anziché vivere nel palazzo imperiale. Nel 62 viene uccisa Ottavia, moglie di Nerone, e questi può sposare Poppea di cui si era invaghito.
Nel 62 Seneca se ne va dalla corte imperiale. Ufficialmente per dedicarsi ai suoi studi. Offre a Nerone la restituzione dei regali ricevuti, ma Nerone rifiuta. Seneca con le ricchezze accumulate si circonda di un esercito di scribi e fra il 62 e il 65 d. c. pubblica una serie di scritti fra i quali "Questioni naturali", "Lettere a Lucilio" (124 lettere in 20 libri), "La provvidenza".
In quello stesso momento ha inizio il progetto sovversivo di Gaio Calpurnio Pisone al quale partecipa anche Seneca. Sfrutta l'impopolarità di Nerone dopo la morte di Ottavia e il matrimonio con Poppea per alimentare il malcontento. Non è una coincidenza che il progetto di colpo di Stato di Gaio Calpurnio Pisone inizia a maturare nel 62 quando Seneca se ne va dal palazzo imperiale.
La stessa uscita di Seneca dal palazzo imperiale, in quest'ottica, appare come un preludio, una presa di distanza dall'imperatore in previsione di rientrare a palazzo dopo il colpo di Stato. Non avrebbe senso, come affermano alcuni storici, che Seneca se ne vada dal palazzo imperiale perché schifato dall'uccisione di Ottavia. Se così fosse, se ne sarebbe andato in tempi precedenti quando fu giustiziata nel 59 Agrippina. Perché aspettare la morte di Ottavia nel 62? Non dimentichiamo che nel 59 Nerone aveva 19 anni mentre Seneca aveva 64 anni.
L'incendio di Roma scoppiò la notte tra il 18 e il 19 luglio del 64 e Seneca morì il 12 aprile del 65 d. c. La domanda che gli storici si sono posti è: chi ha dato fuoco a Roma? Dal momento che a Roma si sono contati molti incendi dovuti alle tecniche di costruzione, la probabilità che l'incendio avesse cause accidentali è la più accreditata. Sta di fatto che Nerone, scoppiato l'incendio, rientrò immediatamente da Anzio e fece predisporre ricoveri per gli sfollati e si attivò contro l'incendio che, fra l'altro, distrusse anche la casa imperiale.
L'incendio di Roma appare legato alla congiura di Pisone. Non tanto il primo incendio, che durò sei giorni ed era circoscritto, quanto il secondo incendio che scoppiò subito dopo e che durò altri tre giorni.
Con l'arrivo di Nerone a Roma si sono messe in atto azioni per fermare l'incendio. Si sono abbattute case per impedire alle fiamme di avere altri inneschi e di avanzare. Dopo il sesto giorno, quando l'incendio sembrava fermato, scoppiarono altri incendi innescati in più punti che fecero divampare un secondo incendio che durò tre giorni e che distrusse edifici pubblici.
E' indubbio che con la sua azione Nerone stava guadagnando consenso popolare. Il secondo incendio, a mio avviso, fu innescato proprio per impedire a questo consenso popolare di allargarsi e di radicalizzarsi. Il secondo incendio sarebbe divampato anche a partire dai giardini della villa di Tigellino, che aveva preso il posto di Burro come consigliere di Nerone.
I congiurati misero in giro voci secondo cui questo fatto dimostrava la responsabilità di Nerone nell'incendio. Semmai, dimostrava la responsabilità dei congiurati dal momento che nell'incendio dei primi 6 giorni era andata a fuoco anche il palazzo di Nerone.
Sta di fatto che Nerone, tornato da Anzio, aveva predisposto alloggiamenti per gli sfollati aprendo ai profughi il Pantheon, le Terme e altro; costruendo baraccamenti di fortuna; mettendo sotto controllo il prezzo del grano e della farina (ne abbassò il prezzo) e facendo arrivare viveri dai dintorni di Roma. I partecipanti alla congiura di Calpurnio Pisone misero in giro le voci secondo cui quando scoppiò l'incendio Nerone si sarebbe messo a cantare della caduta di Troia davanti all'incendio di Roma.
Nell'incendio perirono molte decine di migliaia di persone e oltre duecentomila erano gli sfollati. Nell'incendio andò distrutto il Tempio della Luna costruito da Servio Tullio, il tempio di Giove Statore dell'epoca di Romolo, l'ara massima di Ercole, il tempio di Vesta con il sacrario dei Penati del popolo di Roma.
Scoperta la congiura, il 19 aprile del 65 Gaio Calpurnio Pisone viene condannato a morte e gli si ordina di suicidarsi.
Fra i congiurati c'è Seneca e anche a Seneca viene riservata la cortesia di suicidarsi anziché essere giustiziato come un bandito qualunque. Seneca si suicida il 12 aprile del 65.
Tacito vuole far passare la morte di Seneca come il martirio del filosofo ad opera della follia di Nerone e racconta la morte di Seneca allo stesso modo con cui Platone racconta la morte di Socrate. Tacito fa carriera politica favorito dai Flavi che subentrano dopo la morte di Nerone e come storico Tacito è incaricato di diffamare Nerone per esaltare i Flavi che con Vespasiano subentrano a Nerone dopo un breve periodo di Galba.
Tacito romanza molto la morte di Seneca. Tacito vuole trasformare Seneca nel Socrate di Roma e i cristiani nel loro Gesù condannato innocente.
Scrive Giovanni Reale riprendendo la pagina di Tacito sulla morte di Seneca:
Seneca, per nulla turbato per la condanna a morte volontaria, domandò le tavole del testamento. Al rifiuto del centurione si volse agli amici e disse che, non potendo altrimenti dimostrare la propria riconoscenza, lasciava loro l'unico dono, e tuttavia il più bello, che ormai gli restasse: l'immagine della sua vita. Se ne avessero serbato ricordo, nella fama di uomini virtuosi avrebbero trovato il compenso alla loro costante amicizia. E vedendoli piangere, con parole ora pacate ora severe li richiamava alla fermezza: «Dove sono», chiedeva, «i precetti della sapienza; dove quei propositi per lunghi anni meditati contro le avversità della sorte? A chi è ignota la crudeltà di Nerone? Dopo la madre e il fratello non gli restava che uccidere il suo educatore e maestro». - Dopo aver pronunciato tali parole quasi rivolgendosi a tutti, abbracciò la moglie e, in un abbandono di tenerezza, nonostante la forza d'animo fino allora serbata, la prega e la scongiura di moderare il suo dolore, di non conservarlo in eterno, ma di cercare in una contemplazione di una vita trascorsa nella virtù, nobili conforti al dolore per la perdita del marito. Ma Paolina afferma di essere anch'essa risoluta a morire ed implora una mano che la colpisca. Allora Seneca, non volendo essere di ostacolo alla gloria di quella donna da lui teneramente amata e temendo di abbandonarla agli oltraggi dei nemici, le disse: «lo ti avevo mostrato i conforti che la vita poteva offrirti: tu preferisci l'onore della morte. Non sarò invidioso di così grande esempio di virtù. Pari sarà in entrambi la fermezza di questa morte coraggiosa, ma più fulgida la tua gloria». Con un solo ferro e d'un solo colpo si tagliano le vene delle braccia. Seneca, poiché il corpo indebolito dall'età offriva un varco troppo lento al gocciare del sangue, si fa recidere anche le vene delle gambe e dei ginocchi; ma, sfinito dagli atroci dolori, per timore di disanimare la moglie con le proprie sofferenze o, vedendo quelle di lei, di abbandonarsi lui stesso a qualche debolezza, la persuade a passare in un'altra camera. Poi, ritrovando nel momento supremo tutta la sua eloquenza, chiamati i suoi scrivani, dettò loro molti pensieri, che io m'astengo dall'esporre con altre parole, perché già testualmente divulgati. - Ma Nerone non aveva alcun motivo di odio personale contro Paolina; e temendo che la sua crudeltà lo rendesse ancora più odioso, dà ordine che le sia impedito di morire. Per comando dei soldati, servi e liberti le fasciano le braccia, arrestano il sangue, quando aveva già perduto i sensi [ ... ]. - Frattanto Seneca, poiché la morte era lenta a venire, domanda a Stazio Anneo, da lui conosciuto come medico fidato e medico valente, di dargli il veleno da lungo tempo preparato ed usato ad Atene per uccidere i condannati con pubblico processo. Glielo portano e beve, ma invano: ché le membra ormai irrigidite e insensibili rendevano inefficace il tossico. Alla fine entrò in un bagno caldo e, spruzzando dell'acqua sugli schiavi che erano vicini, disse: «Offro questa libagione a Giove Liberatore». Di là passò poi in un bagno di vapori ardenti e ne fu soffocato. Il suo corpo fu cremato senza alcuna cerimonia funebre: così aveva disposto in un suo codicillo, quando ancora, nel pieno della ricchezza e della potenza, pensava ai suoi ultimi momenti.
Seneca, Tutti gli scritti, Introduzione di Giovanni Reale, Rusconi, 1994, p. LVIII – LIX
Tacito vuole attribuire a Seneca quella coerenza fra modo di vivere e pensiero che non solo non ha mai avuto in tutta la sua vita, ma della quale Seneca se n'è fatto beffe per costruire inganno.
Seneca va considerato un terrorista che ha appiccato l'incendio di Roma o quantomeno lo ha usato per i suoi fini di potere e di dominio. Va considerato responsabile di migliaia di morti che gli imperatori che sono subentrati a Nerone prima e i cristiani poi hanno trasformato nella vittima che legittima una detronizzazione e comportamenti analoghi. Seneca è pronto per alimentare il modello Gesù che qualcuno, da qualche parte, sta elaborando.
Seneca, se non altro, ci porta la testimonianza che i cristiani a Roma non c'erano. Il suo pensiero è troppo appiattito sull'ideologia cristiana per non pensare che se ci fossero stati i cristiani, come i cristiani hanno scritto di esserci qualche secolo dopo, Seneca non ne avrebbe parlato. Non è possibile che Seneca abbia anticipato i temi cristiani a Roma. E' più semplice pensare che Seneca sia stato ripreso da coloro che volevano costruire l'ideologia cristiana (per esempio Marco) anche se, a questo punto delle biografie della filosofia, sembra che ci siano stati vari attori che hanno partecipato a costruire l'ideologia cristiana su piani diversi e in momenti diversi.
Un esempio lo troviamo nell'ultimo Seneca nel testo "La provvidenza". Vi immaginate l'ideologia cristiana privata del concetto di provvidenza? Il concetto del Dio che invia prove dolorose a chi più ama? E come si può controllare l'uomo senza il concetto di provvidenza?
Scrive Seneca in "La provvidenza":
4. L'esser sempre felici è ignorare l'altra metà del mondo 1. La prosperità può ben cascare addosso al plebeo ed all'uomo della strada, ma è caratteristico dell'uomo grande il costringere alla resa le disgrazie e le paure dei mortali. Invece, l'esser sempre felici e trascorrere la vita senza che nulla mai ti roda l'animo, è ignorare l'altra metà del mondo. 2. Sei un uomo grande? Come posso saperlo, se la fortuna non ti offre la possibilità di manifestare la tua virtù? Sei sceso nell'arena dei giochi olimpici, ma non c'era nessuno oltre te: porti la corona, ma non hai vinto. Non mi congratulo, come si fa con un uomo forte, ma come con un neo-console o un neo-pretore: hai una onorificenza in più. 3. Potrei dire altrettanto anche ad un uomo buono, se nessuna situazione di una certa difficoltà gli ha dato modo di manifestare la sua forza d'animo: «Ti giudico miserabile, perché non sei stato mai miserabile. Hai attraversato la vita senza imbatterti in un avversario: nessuno saprà di che cosa saresti stato capace, neppure tu». Per conoscere se stessi, è necessario mettersi alla prova: nessuno ha mai conosciuto le proprie forze, se non cimentandosi. Perciò alcuni sono andati volontariamente incontro a disgrazie che tardavano a venire e hanno cercato l'occasione di far risplendere una virtù già destinata a finire nell'ombra. 4. Gli uomini forti, oso dire, talvolta godono dell'avversità, proprio come i soldati forti godono della guerra. Ricordo che, ai tempi dell'imperatore Tiberio, ho sentito io stesso il mirmillone» Trionfo lamentarsi della scarsa frequenza dei giochi: «Che bella età va sciupata!». La virtù è avida di pericolo, pensa alla meta, non alle sofferenze che affronterà, perché anche le sofferenze fanno parte della gloria. Gli uomini d'armi si gloriano delle ferite e mostrano con orgoglio il sangue che fluisce fuori della corazza: alle stesse imprese hanno partecipato quelli che tornano illesi dal combattimento, ma si fa più attenzione a chi torna ferito. 5. Dico che Dio provvede, caso per caso, a quelli che vuole siano i più degni d'onore, ogni qual volta offre loro la possibilità concreta di fare qualche cosa con forza e coraggio, e ciò presuppone che la situazione presenti delle difficoltà: penso, ad esempio, ad un pilota nella tempesta o ad un soldato in battaglia. Come posso sapere che coraggio avresti contro la povertà, se nuoti nella ricchezza? Come posso sapere quale costanza avresti contro l'ignominia, l'infamia e l'odio del popolo, se invecchi tra gli applausi, se ti accompagnano la simpatia indistruttibile ed il favore spontaneo di chi propende in qualche modo per te? Come posso sapere con quale equilibrio sopporteresti la perdita dei tuoi figli, se vedi vivi tutti quelli che hai messo al mondo? Ti ho sentito consolare altri: ti avrei conosciuto a fondo, se tu avessi consolato te stesso, se ti fossi proibito di dolerti. 6. Vi scongiuro, non spaventatevi di codeste vicende che gli dèi immortali vi affondano nell'animo come pungoli: la calamità è occasione di virtù. Si possono dire miseri, ed a ragion veduta, quelli che intorpidiscono nell'eccesso di prosperità e che un'inerte bonaccia tiene prigionieri, come su un mare troppo calmo. Qualunque incidente risulterà inatteso: gli eventi spietati colpiscono più a fondo chi non ha esperienza; il giogo pesa sui colli delicati; la recluta impallidisce al pensiero della ferita, mentre il veterano guarda impassibile il suo sangue, perché sa di aver vinto tante volte spargendo sangue. 7. Dunque costoro, quelli che Dio apprezza ed ama, li irrobustisce, li mette alla prova, li allena, mentre quelli con i quali sembra indulgente e remissivo, li riserva, deboli, alle future disgrazie. Ma sbagliate, se pensate che qualcuno sfugga alla regola: anche chi è stato felice a lungo riceverà la sua parte: chiunque sembra esonerato, è soltanto un rimandato. 8. «Allora, perché Dio colpisce tutti i migliori, o con le malattie, o con i lutti, o con altri guai?». Perché anche negli accampamenti le imprese pericolose sono ordinate ai più forti: il comandante manda truppe sceltissime a tendere al nemico gli agguati notturni, ad esplorare la strada, ad espugnare un fortino. Nessuno, di quelli che escono, dice: «Il generale mi ha fatto torto», ma: «Ha stima di me». Altrettanto deve dire chi si trova a sopportare ciò che fa piangere i timidi e gli ignavi: «Dio ci ha ritenuti degni di sperimentare su noi la capacità di sopportazione della natura umana». 9. Fuggite le delizie, fuggite la prosperità snervante, che imbeve l'anima e l'addormenta in una specie di perenne ubriachezza, se non capita qualche incidente a ricordarle la sorte dell'uomo. Chi ha sempre avuto i vetri che lo riparano dagli spifferi, chi ha sempre avuto i piedi intiepiditi da scaldini continuamente rinnovati, chi ha avuto sale da pranzo sempre riscaldate da tubature disposte sotto il pavimento ed attorno ai muri», costui non sarà sfiorato senza pericolo dalla prima corrente d'aria. 10. E poiché nuoce tutto ciò che va fuori misura, è quanto mai pericolosa l'intemperanza nella felicità: turba il cervello, evoca nella mente vane fantasie, getta molta nebbia nello spazio che separa il falso dal vero. Perché non dovrebbe essere più soddisfacente sopportare una continua infelicità, mobilitando la virtù, che crepare di infinito e smodato benessere? Si soffre meno a morire di fame: di indigestione, si scoppia. 11. Gli dèi seguono, con gli uomini buoni, lo stesso metodo degli educatori con i loro discepoli: fanno lavorare di più i più promettenti. Pensi che gli Spartani abbiano in odio i loro figli, perché ne mettono alla prova il carattere con una fustigazione pubblica? Sono i loro stessi padri che li esortano a sopportare con forza i colpi dei flagelli e li pregano di esporre, già laceri ed esanimi, le loro piaghe a nuovi colpi». 12. C'è da stupirsi allora, se Dio espone a dure prove gli spiriti nobili? Non è mai facile dar prova di virtù. La sorte ci flagella e ci piaga? Sopportiamo: non è crudeltà, è una gara che ci renderà tanto più forti, quanto più spesso la affronteremo. Quelle parti del corpo che l'esercizio tiene in continuo movimento, sono le più robuste. Dobbiamo essere esposti alla malasorte, per risultarne irrobustiti contro i suoi stessi attacchi: a poco a poco, ci farà forti quanto lei, e la frequenza del rischio darà il disprezzo del pericolo. 13. E' così che i marinai si fanno un fisico che resiste e sopporta il mare, è così che i contadini si fanno le mani callose. Con la pazienza, l'anima arriva a disprezzare il male che sopporta; che cosa essa possa produrre in noi, lo saprai, se osserverai quanto fornisca la fatica ai popoli privi di tutto ed irrobustiti dalla loro povertà. 14. Osserva i popoli confinanti con la pace romana: parlo dei Germani e dei nomadi che s'incontrano nella regione dell'Istro. Sono oppressi da un inverno che non finisce mai, da un cielo nemico, sono nutriti grettamente da una terra sterile, si riparano dalla pioggia sotto fasci di erbe o di rami, scorrazzano su paludi indurite dal gelo, catturano fiere per nutrirsi. 15. Ti sembrano miseri? Non c'è miseria in ciò che l'abitudine ha trasformato in seconda natura: a poco a poco, diventa piacevole quello che, all'inizio, era dettato da necessità. Non hanno altra casa o altra residenza, di quella che la stanchezza mette a loro disposizione per un giorno; il vitto è povero e bisogna procurarselo di propria mano, il clima è orribilmente iniquo, i corpi sono nudi. Tutto questo, che a te sembra disgrazia, per tanti popoli è la vita. 16. Ti stupisci allora, se i buoni sono scossi perché diventino forti? Non c'è albero solido e robusto, se il vento non lo colpisce di frequente: quel tormento lo rende più compatto e gli abbarbica più saldamente a terra le radici: sono fragili gli alberi che crescono in valli solatie. E nell'interesse dei buoni che, per rendersi immuni dal terrore, si trovino spesso di fronte ad esperienze spaventose e debbano sopportare con animo sereno ciò che non è male, se non per chi lo sopporta male.
Seneca, Tutti gli scritti, La provvidenza, Rusconi, 1994, p. 14 – 17
Il metodo sadico di Seneca con i più deboli che viene legittimato dall'idea secondo cui Dio costringe gli uomini alla tribolazione affinché si fortifichino. In questo modo ottiene il risultato di indebolire gli uomini costringendoli a pensarsi oggetti di possesso del loro Dio che provvede a loro.
Questo metodo di Seneca diventa il modo con cui i cristiani giustificano "il male nel mondo". Al contempo è il metodo con cui i cristiani giustificano la violenza sui bambini: non fanno violenza per il loro divertimento ma per realizzare la volontà di Dio.
E' il modo di Seneca per legittimare il suo diritto a terrorizzare. Ma se questa è l'idea di Seneca del modo di comportarsi del Dio e questo è il comportamento di Seneca nei confronti di chi "vuole irrobustire", allora si comprende anche la ribellione di Nerone alla violenza di un Seneca "che lo vuole irrobustire". Si comprendono le azioni personali di Nerone come reazione all'imposizione violenta che Seneca ha fatto per adattarlo ai modelli della sua morale.
L'dea di provvidenza in Seneca è l'arbitrio del Dio padrone dei cristiani usato dai cristiani per legittimare il dominio dell'uomo sull'uomo. A questo punto avrei voluto continuare con alcune riflessioni su alcune lettere a Lucillo e su alcuni aspetti de "La vita felice" che ho già citato, ma penso di aver tracciato un quadro sufficiente per definire la vita di Seneca e il ruolo che ha avuto Seneca nel primo secolo d. c.
Marghera, 7 aprile 2019
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