Le biografie dei filosofi che partecipano alla partita di calcio
Giambattista Vico è nato a Napoli il 23 giugno 1668.
Parlare di Giambattista Vico significa parlare del concetto di evoluzione cristiana. Quel tentativo di spiegare la superiorità della razza bianca dopo il diluvio universale:
Scrive Giambattista Vico su "Principi di scienza nuova":
[369]1 Gli autori dell'umanità gentilesca" dovetter essere uomini delle razze di Cam che molto prestamente, di Giafet, che alquanto dopo, e finalmente di Sem, ch'altri dopo altri tratto tratto rinonziarono alla vera religione del loro comun padre Noè, la qual sola nello stato delle famiglie poteva tenergli in umana società con la società de' matrimoni, e quindi di esse famiglie medesime. E perciò dovetter andar a dissolver i matrimoni e disperdere le famiglie coi concubiti incerti; e, con un ferino error divagando per la gran selva della terra – quella di Cam per l'Asia meridionale, per l'Egitto e 'l rimanente dell'Affrica; quella di Giafet per l'Asia settentrionale, ch'è la Scizia, e di là per l'Europa; quella di Sem per tutta l'Asia di mezzo ad esso Oriente – per campar dalle fiere, delle quali la gran selva ben doveva abbondare, e per inseguire le donne, ch'in tale stato dovevan esser selvagge, ritrose e schive, e sì sbandati per truovare pascolo ed acqua, le madri abbandonando i loro figliuoli, questi dovettero tratto tratto crescere senza udir voce umana nonché apprender uman costume, onde andarono in uno stato affatto bestiale e ferino. Nel quale le madri, come bestie, dovettero lattare solamente i bambini e lasciargli nudi rotolar dentro le fecce loro propie, ed appena spoppati abbandonargli per sempre; e questi-dovendosi rotolare dentro le loro fecce, le quali co' sali nitri maravigliosamente ingrassano i campi; e sforzarsi per penetrare la gran selva, che per lo fresco diluvio doveva esser foltissima, per gli quali sforzi dovevano dilatar altri muscoli per tenderne altri, onde i sali nitri in maggior copia s'insinuavano ne' loro corpi; e senza alcun timore di dèi, di padri, di maestri, il qual assidera il più rigoglioso dell'età fanciullesca; - dovettero a dismisura ingrandire le carni e l'ossa, e crescere vigorosamente robusti, e sì provenire giganti. Ch'è la ferina educazione, ed in grado più fiera di quella nella quale, come nelle Degnità si è sopra avvisato, Cesare e Tacito rifondono la cagione della gigantesca statura degli antichi germani, onde fu quella de' goti che dice Procopio, e qual oggi è quella de los patacones che si credono presso lo stretto di Magaglianes; d'intorno alla quale han detto tante inezie i filosofi in fisica, raccolte dal Cassanione che scrisse De gigantibus. De' quali giganti si sono truovate e tuttavia si truovano, per lo più sopra i monti (la qual particolarità molto rileva per le cose ch'appresso se n'hanno a dire), i vasti teschi e le ossa d'una sformata grandezza," la quale poi con le volgari tradizioni si alterò all'eccesso, per ciò che a suo luogo diremo. [370] Di giganti così fatti fu sparsa la terra dopo il diluvio," poiché, come gli abbiamo veduti sulla storia favolosa de' greci, così i filologi latini, senza avvedersene, gli ci hanno narrati sulla vecchia storia d'Italia, ov'essi dicono che gli antichissimi popoli dell'Italia detti « aborigini » si dissero […] che tanto suona quanto « figliuoli della Terra », ch'a greci e latini significano « nobili ». E con tutta propietà i figliuoli della Terra da' greci furon detti « giganti », onde madre de' giganti dalle favole ci è narrata la Terra;" ed [… Teogonia di Esiodo], de' greci si devono voltare in latino «indigenae», che sono propiamente i natii d'una terra, siccome gli dèi natii d'un popolo o nazione si dissero « dii indigetes », quasi « inde geniti», ed oggi più speditamente si direbbono «ingenui», Perocché la sillaba « de », qui, è una delle ridondanti delle prime lingue de' popoli, le quali qui appresso ragioneremo; come ne giunsero de' latini quella « induperator» per « imperator» e nella legge delle XII Tavole quella «endoiacito» per « iniicito » (onde forse rimasero dette « induciae» gli armistizi, quasi « iniiciae », perché debbon essere state così dette da « icere foedus », « far patto di pace »). Siccome, al nostro proposito, dagl' « indigeni », ch' or ragioniamo, restarono detti « ingenui », i quali, prima-e-propiamente, significarono « nobili» (onde restarono dette « artes ingenuae », « arti nobili », e finalmente restarono à significar « liberi» (ma pur « artes liberales» restaron a significar « arti nobili », perché di soli nobili, come appresso sarà dimostro, si composero le prime città, nelle qual'i plebei furono schiavi o abbozzi di schiavi.
Giambattista Vico, Principi di scienza nuova, Einaudi, Einaudi, 1976, p. 134 – 136
La scienza nuova e la sua storia partono dal diluvio universale di Noè al quale viene affiancato Platone e le sue elucubrazioni nella Repubblica e nel Timeo. Tutto questo, per Vico, è un dato di realtà. E' la storia dell'umanità. Una storia nella quale Dio ha agito e determinato gli eventi nei quali gli uomini si sono adattati. E' il gesuita Vico che riafferma il diritto di Dio di determinare la condizioni degli uomini e le condizioni degli uomini determinate da Dio diventano, in Vico, espressione della realtà voluta da Dio.
L'uomo, per Vico, agisce nella storia, ma in quale storia? Nella storia che ha un suo inizio dal diluvio universale. Dalla realtà manifestata dal diluvio universale e dall'ideologia assolutista di Platone in cui la libertà dell'uomo è quella di prostrarsi ai piedi del principe e il principio di uguaglianza si riduce ad essere un principio di uguaglianza fra schiavi e non il principio di uguaglianza fra gli uomini (che Vico indica come schiavi) con il principe o con Dio.
In Giambattista Vico non c'è né il concetto di uguaglianza né il concetto di libertà dell'uomo. Tutto è subordinato a Dio e alla gerarchia voluta da Dio. Il Dio di Vico è il Dio padrone, con cui si identifica, e al quale si deve obbedienza.
Dove ha tratto gli spunti della storia umana Vico? Innanzi tutto dalla bibbia che ritiene un libro storico scritto da Dio. Poi ha preso spunti dalle Leggi di Platone, poi Diodoro, Lucrezio, Esiodo, Cicerone. Il tutto organizzato per dimostrare come la storia dell'uomo sia la storia dell'attività di Dio in contrapposizione all'idea di "indagine scientifica" o di "ragione" che Vico combatteva aspramente.
Per Vico quanto scritto non sono simboli, ma sono verità oggettive. Verità di fede che nasce dalla poesia e dal sentimento in contrapposizione alle verità di ragione, le verità della matematica, che ritiene aride e illusorie. Gli antichi Dèi romani o greci, per Vico, sono uomini divinizzati, i Titani sono i giganti e Vico contribuisce in prima persona a creare l'idea di "primitivismo" associandola all'idea di "bruto", "ferino", "incivile" che ha portato all'annientamento di tante società umane.
In sostanza, Vico è il prodotto del gesuitismo con cui combattere ogni innovazione sociale che possa in qualche modo mettere in discussione la verità della fede. Se con il suo "Principii di scienza nuova" parla dell'uomo che agisce nella storia, quella storia non è la storia fatta dall'uomo, ma è piuttosto la storia voluta da Dio nella quale l'uomo recita la parte dell'attore obbediente alle necessità del regista.
E' necessario iniziare da questi presupposti per capire la filosofia di Vico.
Il padre, Antonio Vico, era un libraio figlio di contadini mentre la madre Candida Masullo era figlia di un operaio che lavorava con le carrozze.
Nel 1675 Giambattista Vico subì una caduta con la frattura del cranio. Riuscì a guarire nonostante poche speranze, ma per tre anni dovette stare lontano dagli studi. Si dice che fosse di un'intelligenza particolarmente vivace ed estremamente curioso tanto da voler bruciare le tappe del conoscere anche se questa attività frenetica lo portò a studiare per conto proprio Pietro Ispano e Paolo Veneto. Questo studio portò Giambattista Vico ad allontanarsi dagli studi di filosofia per oltre un anno e mezzo. Perennemente minacciato dalla tisi veniva soprannominato "maestro Tisicuzzo".
Riprese gli studi con il gesuita Giuseppe Ricci da Lecce, uno scotista che lo portò ad avvicinarsi alla filosofia platonica.
Fino al 1710 il pensiero del Vico è caratterizzato dallo scotismo e dal monadismo.
Tutta la vita di Gianbattista Vico si svolge all'insegna di un pensiero filosofico che non esce dalla sua testa e non arriva alla società.
Vico lascia gli insegnamenti del Ricci e inizia a studiare la Metafisica di Francisco Suarez (1548 – 1617) un gesuita considerato uno dei maggiori scolastici. Il legame con i gesuiti di Gianbattista Vico si rafforza sempre più anche se il padre lo incita a frequentare studi giuridici mentre lui avrebbe preferito fare il poeta.
Nel 1686 a 18 anni difese con successo il padre in una causa. Il brillante risultato convince il padre che Giambattista è portato per la professione di avvocato. A Gianbattista la professione forense non piace.
Frequentò poco l'università, anche se iscritto fra il 1688 e il 1691, preferendo studi privati di Francesco Verde da Sant'Antino. Forse si è laureato a Salerno fra il 1693 e il 1694. Non gli piaceva fare l'avvocato, così preferì andare a fare il precettore dei nipoti del prete Geronimo Rocca da Catanzaro. Fece questo lavoro fra il 1687 e il 1696 spostandosi fra Napoli, Portici e il castello del Cilento.
Giandomenico Vico era ammalato di tisi e l'occupazione di precettore gli consentì di rimettersi in salute. Nel frattempo, sfruttò la biblioteca del marchese per studiare.
Dalla sua biografia si evince che Giandomenico Vico viveva come una sorta di estraneo in un mondo che si stava ribellando alla filosofia dei conventi e, in particolare, dei gesuiti. La rivolta filosofica contro l'aristotelismo, la scolastica e il nuovo clima galileiano e cartesiano stavano rinnovando profondamente il pensiero filosofico dal quale Giandomenico Vico si pensava estraneo.
Che Giandomenico Vico fosse un simpatizzante del nuovo epicureismo propagandato da Gassendi, fra il 1686 e il 1695 non ci sono dubbi anche se ha tentato di cancellare, distruggendo e modificando scritti e documenti, tutte le sue aperture con le tendenze innovatrici della filosofia comprese quelle atomistiche o cartesiane.
Nel 1699 vince un concorso per professore di eloquenza a Napoli. Vivrà con quell'incarico mantenendo una famiglia numerosa, povera e piena di problemi. Lui stesso passava da frustrazione in frustrazione vedendosi negato anche il ruolo di professore alla facoltà di giurisprudenza. Col ruolo di professore di eloquenza può affittare un appartamento a Napoli e sposarsi con Teresa Caterina Destito. Una donna analfabeta dalla quale avrà otto figli.
Nell'orazione (quella con cui apriva i suoi corsi di studio, del 1708) intitolata "De nostri temporis studiorum ratione" si evince la sua trasformazione filosofica. Gianbattista Vico si contrappone ai "novatori" legati alla scienza matematica per esaltare il ruolo della poesia e della storia nell'educazione dei giovani.
Nel 1725 Vico cancellerà qualsiasi traccia dei suoi contatti avuti in gioventù con gli atomisti e i cartesiani che erano stati repressi dalle autorità ecclesiastiche. Ricordo che Cartesio appoggiò la "rivolta" dei parroci contro i gesuiti, mentre Vico ci tiene alle amicizie con i gesuiti.
Contro i cartesiani Vico, oltre a difendere il diritto alla fantasia, della memoria e della centralità della poesia rispetto alla matematica, esalta la retorica e l'eloquenza; contesta l'uso di un unico metodo per la ricerca e gli studi e difende le specificità della scienza morale e politica per le quali è necessario il libero arbitrio.
Vico elabora un suo concetto di verità secondo il quale si può conoscere solo ciò che si è costruito o ciò di cui si è autori, in contrapposizione allo sperimentalismo e al congetturalismo.
Nella polemica, Giambattista Vico afferma che si conoscono le proposizioni matematiche perché siamo noi a produrle attraverso la nostra descrizione arbitraria mentre non possiamo conoscere la natura perché non siamo stati noi a produrre la natura. In questo modo Vico rivendica i diritti della limitatezza della conoscenza umana contro la pretesa di Cartesio di porsi davanti alla natura nella posizione di Dio. Vico contesta anche il principio del pensiero cartesiano in quanto il "cogito" affermerebbe la coscienza dell'esistenza, ma non la scienza del proprio pensare.
Nel "De antiquissima Italorum sapientia" Giambattista Vico afferma che la propria filosofia restaura la verità egiziana-ionico-etrusca (allora non si conosceva il significato dei gerogrifici e tanto meno si sapeva leggere l'etrusco) che una volta era posseduta dagli italici e la cui traccia risiederebbe nella lingua latina anche se in forma oscura, imbarbarita o depravata. Secondo il Vico, una ricerca etimologica potrebbe rivelare queste verità. In sostanza, Vico ha fatto proprie idee ermetiche e neoplatoniche ed ora le contrappone all'atomismo e a Cartesio. Vico si considera un paladino del platonismo contro la nuova filosofia che agli inizi del 1700 inizia a delinearsi.
Scrive "Storia delle filosofie":
Il De antiquissima nella prima parte, gnoseologico-psicologica, riprende il motivo dell'unità del vero e del fatto, già balenato nel De ratione e sviluppato poi nella Scienza nuova; nella seconda parte, invece, propone un abbozzo di metafisica che non conoscerà alcuno sviluppo nelle opere posteriori. Partendo dal presupposto che «le parole sono simboli e note delle idee, cosi come le idee sono simboli e note delle cose», Vico sostiene che dall'esame del linguaggio degli antichi popoli italici si possa ricavare il contenuto del loro pensiero. Le parole, infatti, continuano a rappresentare le idee da cui sono state prodotte anche quando quelle idee non sono più vive ed operanti nelle menti degli uomini. La prima verità che si può ricavare da questa indagine filologica è che per gli antichi
latini il vero ed il fatto sono termini reciproci o, come si esprime il volgo delle scuole, sono convertibili l'uno nell'altro (verum et factum convertuntur ). (De antiquissima I,1)
Ma se il vero è la stessa cosa del fatto (verum ipsum factum), l'unico possessore della verità, della verità prima ed infinita, non può essere che Dio, creatore di tutte le cose. Solo Dio, avendo «fatto» tutta la realtà, conosce la verità nella sua pienezza. Conoscere, infatti, significa comprendere le cause generative delle cose, penetrare dentro i processi causali che determinano la nascita dei diversi fenomeni. L'intelligenza completa della realtà è consentita, allora, solo a Dio. All'uomo, invece, è possibile soltanto pensare le cose esistenti fuori di sé, ma non conoscerle nella loro struttura profonda. Il termine pensare deriva, infatti, dal latino cogitare, da coagere, mettere insieme, «andare raccogliendo» gli aspetti esteriori e superficiali delle cose:
cosicché l'uomo può solo pensare (cogitare) ma non può avere intelligenza (intelligere) delle cose, perché quantunque sia partecipe della ragione, non ne è sicuro possessore (compos). (De antiquissima I,1)
L'unico campo in cui l'uomo può realizzare l'unità di vero e fatto e, quindi, può raggiungere l'intelligenza dei processi generativi di tutti gli enti di questo sapere è il campo della matematica. Gli elementi primi del sapere matematico, i numeri, il punto, la linea, sono prodotti dalla inventiva dell'uomo che proprio perché li «fa », li «conosce» con assoluta chiarezza e precisione. Ma le «verità» della matematica non hanno nessuna consistenza reale, sono semplici finzioni della nostra mente. L'uomo, allora, pur avendo individuato un campo del sapere del quale, come Dio, può avere conoscenza certa in quanto è egli stesso creatore, deve convenire che il suo sapere è perfetto soltanto nel mondo della pura astrazione, della pura e semplice finzione. Con queste affermazioni, Vico rompe il legame che la scienza moderna aveva istituito tra matematica e fisica, tra leggi del pensiero e leggi della natura. Il linguaggio matematico non è più la chiave di lettura dei fenomeni fisici, ma una semplice costruzione della mente umana e tutte le articolazioni ed i passaggi dei suoi ragionamenti sono nient'altro che un semplice gioco, rigoroso, severamente deduttivo quanto si vuole, ma pur sempre un gioco fantastico a cui non corrisponde alcunché nella realtà e del quale non si può fare alcun uso per fini conoscitivi. Lo spirito galileiano, che sembrava conservato nella equiparazione della mente umana a quella divina nella conoscenza delle verità matematiche, è completamente vanificato nel momento in cui viene negato ogni valore conoscitivo alla matematica.
Casertano, Montano, Tortora, Storia delle filosofie, Il tripode, 1982, p. 339 – 340
Giambattista Vico nega l'esistenza del principio d'inerzia e con esso tutte le leggi del moto dei corpi. Nega che i corpi siano materia in espansione e pensa ai corpi come a dei centri di forza immateriali che si muovono eccitati da Dio.
Le posizioni filosofiche di Vico vengono definite "retrive" e si svilupperanno in una contrapposizione continua contro Cartesio, Boyle, Looke, Hobes, Spinoza e altri.
Nel 1725 Gianbattista Vico pubblica "Principi di scienza nuova", che fu accolto nell'indifferenza generale.
Nel 1728 Giambattista Vico pubblica la sua autobiografia.
Nel 1730 Giambattista Vico ripubblica "I principi di scienza nuova". Questa edizione va un po' meglio della precedente e fa avere a Vico alcuni riconoscimenti come la nomina a "storiografo regio" dal re Carlo III di Borbone.
Che cos'è la "scienza nuova" per Vico? E' la storia dell'uomo che va dal diluvio universale al trionfo delle monarchie cattoliche nel mondo.
Tutte le cose che scrive Vico, sia pur riprendendo e sottolineando il mito greco come "realtà storica", era già stato scritto da Orosio nel suo "Contro i Pagani", un libro di "storia" che i gesuiti usavano con molta intensità (lo hanno usato fino al 1800).
Vale la pena di riportare alcune pagine de "I principi di scienza nuova":
[372] Tal degradamento dovette durar a farsi fin a' tempi umani delle nazioni, come il dimostravano le smisurate armi de' vecchi eroi, le quali, insieme con l'ossa e i teschi degli antichi giganti, Augusto, al riferire di Svetonio, conservava nel suo museo. Quindi, come si è nelle Degnità divisato, di tutto il primo mondo degli uomini si devono fare due generi: cioè uno d'uomini di giusta corporatura, che furon i soli ebrei, e l'altro di giganti, che furono gli autori delle nazioni gentili; e de' giganti fare due spezie: una de' figliuoli della Terra, ovvero nobili, che diedero il nome all'età de' giganti, con tutta la propietà di tal voce, come si è detto (e la sagra storia gli ci ha difiniti «uomini forti, famosi, potenti del secolo»); l'altra, meno propiamente detta, degli altri giganti signoreggiati. [373] Il tempo di venire gli autori delle nazioni gentili in sì fatto stato si determina cento anni dal diluvio per la razza di Sem, e duecento per quelle di Giafet e di Cam, come sopra ve n'ha un postulato; e quindi a poco' se n'arrecherà la storia fisica, narrataci bensì dalle greche favole, ma finora non avvertita, la quale nello stesso tempo ne darà un'altra storia fisica dell'universale diluvio. [374] Da sì fatti primi uomini, stupidi, insensati ed orribili bestioni, tutti i filosofi e filologi dovevan incominciar a ragionare la sapienza degli antichi gentili, cioè da' giganti, testé presi nella loro propia significazione, de' quali il padre Boulduc, De Ecclesia ante Legem, dice che i nomi de' giganti ne' sagri libri significano « uomini pii, venerabili, illustri »; lo che non si può intendere che de' giganti nobili, i quali con la divinazione fondarono le religioni a' gentili e diedero il nome all'età de' giganti. E dovevano incominciarla dalla metafisica, siccome quella che va a prendere le sue pruove non già da fuori ma da dentro le modificazioni della propia mente di chi la medita, dentro le quali, come sopra dicemmo, perché questo mondo di nazioni egli certamente è stato fatto dagli uomini, se ne dovevan andar a truovar i princìpi; e la natura umana, in quanto ella è comune con le bestie, porta seco questa propietà: ch'i sensi sieno le sole vie ond'ella conosca le cose." [375] Adunque la sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità, dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovett'essere di tai primi uomini, siccome quelli ch'erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie, com'è stato nelle Degnità stabilito. Questa fu la loro propia poesia, la qual in essi fu una facultà loro con naturale (perch'erano di tali sensi e di sì fatte fantasie naturalmente forniti), nata da ignoranza di cagioni, la qual fu loro madre di maraviglia di tutte le cose, che quelli, ignoranti di tutte le cose, fortemente ammiravano, come si è accennato nelle Degnità. Tal poesia incominciò in essi divina, perché nello stesso tempo ch'essi immaginavano le cagioni delle cose, che sentivano ed ammiravano, essere dèi, come nelle Degnità: il vedemmo con Lattanzio (ed ora il confermiamo con gli americani, i quali tutte le cose che superano la loro picciola capacità dicono esser dèi; a' quali aggiugniamo i germani antichi, abitatori presso il Mar Agghiacciato, de' quali Tacito narra che dicevano d'udire la notte il Sole, che dall'occidente passava per mare nell'oriente, ed affermavano di vedere gli dèi; le quali rozzissime e semplicissime nazioni ci dànno ad intendere molto più di questi autori della gentilità, de' quali ora qui si ragiona); nello stesso tempo, diciamo, alle cose ammirate davano l'essere di sostanze dalla propia lor idea, ch'è appunto la natura de' fanciulli, che, come se n'è proposta una degnità, osserviamo prendere tra mani cose inanimate e trastullarsi e favellarvi come fusser, quelle, persone vive. [376] In cotal guisa i primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del nascente gener umano, quali gli abbiamo pur nelle Degnità divisati, dalla lor idea criavan essi le cose, ma con infinita differenza però dal criare che fa Iddio: perocché Iddio, nel suo purissimo intendimento, conosce e, conoscendo le, cria le cose; essi, per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza d'una corpolentissima fantasia, e, perch'era corpolentissima, il facevano con una maravigliosa sublimità, tal e tanta che perturbava all'eccesso essi medesimi che fingendo le si creavano, onde furon detti «poeti», che lo stesso in greco suona che «criatori». Che sono gli tre lavori che deve fare la poesia grande, cioè di ritruovare favole sublimi confacenti all'intendimento popolaresco, e che perturbi all'eccesso, per conseguir il fine, ch'ella si ha proposto, d'insegnar il volgo a virtuosamente operare, com'essi l'insegnarono a se medesimi; lo che or ora si mostrerà. E di questa natura di cose umane restò eterna propietà, spiegata con nobil espressione da Tacito; che vanamente gli uomini spaventati «fingunt simul creduntque». [377] Con tali nature si dovettero ritruovar i primi autori dell'umanità gentilesca quando – dugento anni dopo il diluvio per lo resto del mondo e cento nella Mesopotamia, come si è detto in un postulato (perché tanto di tempo v'abbisognò per ridursi la terra nello stato che, disseccata dall'umidore dell'universale innondazione, mandasse esalazioni secche, o sieno materie ignite, nell'aria ad ingenerarvisi i fulmini) – il cielo finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi, come dovett'avvenire per introdursi nell'aria la prima volta un'impressione sì violenta. Quivi pochi giganti, che dovetter esser gli più robusti, ch'erano dispersi per gli boschi posti sull'alture de' monti, siccome le fiere più robuste ivi hanno i loro covili, eglino, spaventati ed attoniti dal grand'effetto di che non sapevano la cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo. E perché in tal caso la natura della mente umana porta ch'ella attribuisca all'effetto la sua natura, come si è detto nelle Degnità, e la natura loro era, in tale stato, d'uomini tutti robuste forze di corpo, che, urlando, brontolando, spiegavano le loro violentissime passioni; si finsero il cielo esser un gran corpo animato, che per tal aspetto chiamarono Giove, il primo dio delle genti dette « maggiori », che col fischio de' fulmini e col fragore de' tuoni volesse loro dir qualche cosa; e sì incominciarono a celebrare la naturale curiosità, ch'è figliuola dell'ignoranza e madre della scienza, la qual partorisce, nell'aprire che fa della mente dell'uomo, la maraviglia, come tra gli Elementi ella sopra si è diffinita. La qual natura tuttavia dura ostinata nel volgo, ch'ove veggano o una qualche cometa o parelio o altra stravagante cosa in natura, e particolarmente nell'aspetto del cielo; subito dànno nella curiosità e, tutti anziosi nella ricerca, domandano che quella tal cosa voglia significare, come se n'è data una degnità. ed ove ammirano gli stupendi effetti della calamita col ferro, in questa stessa età di menti più scorte e benanco erudite dalle filosofie, escono colà: che la calamita abbia una simpatia occulta col ferro, e sì fanno di tutta la natura un vasto corpo animato che senta passioni ed effetti, conforme nelle Degnità anco si è divisato. [378] Ma, siccome ora (per la natura delle nostre umane menti, troppo ritirata da' sensi nel medesimo volgo con le tante astrazioni di quante sono piene le lingue con tanti vocaboli astratti, e di troppo assottigliata con l'arte dello scrivere, e quasi spiritualezzata con la pratica de' numeri, ché volgarmente sanno di conto e ragione) ci è naturalmente niegato di poter formare la vasta immagine di cotal donna che dicono «Natura simpatetica» (che mentre con la bocca dicono, non hanno nulla in lor mente, perocché la lor mente è dentro il falso, ch'è nulla, né sono soccorsi già dalla fantasia a poterne formare una falsa vastissima immagine); così ora ci è naturalmente niegato di poter entrare nella vasta immaginativa di que' primi uomini, le menti de' quali di nulla erano astratte, di nulla erano assottigliate, di nulla spiritualezzate, perch'erano tutte immerse ne' sensi, tutte rintuzzate dalle passioni, tutte seppellite ne' corpi: onde dicemmo sopra ch'or appena intender si può, affatto immaginar non si può, come pensassero i primi uomini che fondarono l'umanità gentilesca. [379] In tal guisa i primi poeti teologi si finsero la prima favola divina, la più grande di quante mai se ne finsero appresso, cioè Giove, re e padre degli uomini e degli dèi, ed in atto di fulminante; si popolare, perturbante ed insegnativa, ch'essi stessi, che sel finsero, sel credettero e con ispaventose religioni, le quali appresso si mostreranno, il temettero, il riverirono e l'osservarono. E per quella propietà della mente umana che nelle Degnita udimmo avvertita da Tacito, tali uomini tutto ciò che vedevano, immaginavano ed anco essi stessi facevano, credettero esser Giove, ed a tutto l'universo di cui potevan esser capaci ed a tutte le parti dell'universo diedero l'essere di sostanza animata. Ch'è la storia civile di quel motto:
... Iovis omnia plena,
che poi Platone prese per l'etere, che penetra ed empie tutto; ma per gli poeti teologi, come quindi a poco vedremo, Giove non fu più alto della cima de' monti. Quivi i primi uomini, che parlavan per cenni, dalla loro natura credettero i fulmini, i tuoni fussero cenni di Giove (onde poi da nuo, « cennare» fu detta « nu- men» la « divina volontà», con una troppo sublime idea e degna da spiegare la maestà divina), che Giove comandasse co' cenni, e tali cenni fussero parole reali, e che la natura fusse la lingua di Giove; la scienza della qual lingua credettero universalmente le genti essere la divinazione, la qual da' greci ne fu detta «teologia», che vuoi dire «scienza del parlar degli dèi ». Così venne a Giove il temuto regno del fulmine, per lo qual egli è 'l re degli uomini e degli dèi; e vennero i due titoli: uno di « ottimo», in significato di « fortissimo» (come a rovescio appo i primi latini «fortus» significò ciò che agli ultimi significa «bonus»), e 1'altro di « massimo», dal di lui vasto corpo quant'egli è 'l cielo. E da questo primo gran beneficio fatto al gener umano venne gli il titolo di «sotere» o di «salvadore », perché non gli fulminò (ch'è 'l primo degli tre princìpi ch'abbiamo preso di questa Scienza): e vennegli quel di «statore » o di « fermatore», perché fermò que' pochi giganti dal loro ferino divagamento, onde poi divennero i prìncipi delle genti. Lo che i filologi latini troppo ristrinsero al fatto: perocché Giove, invocato da Romolo, avesse fermato i romani che nella battaglia co' sabini si erano messi in fuga. [380] Quindi tanti Giovi, che fanno maraviglia a' filologi, perché ogni nazione gentile n'ebbe uno (de' quali tutti, gli egizi, come si è sopra detto nelle Degnità, per la loro boria dicevano il loro Giove Ammone essere lo più antico), sono tante istorie fisiche conservateci dalle favole, che dimostrano essere stato universale il diluvio, come il promettemmo nelle Degnità.
Giambattista Vico, Principi di scienza nuova, Einaudi, Einaudi, 1976, p. 137 – 142
Il diluvio universale è il momento da cui Vico fa partire la storia e tutto quanto riguarda gli antichi appartiene alla superstizione. Gli unici uomini normali erano gli ebrei.
Questo meccanismo con cui si pensano gli antichi è alla base della sociologia positivista e queste idee rimarranno per molti secoli. Questa visione degli antichi sarà confermata anche nell'ottocento quando si parlerà di "orde", di animismo o di totemismo arrivando ad influenzare la psicologia fin nella seconda metà del XX secolo.
Non a caso la filosofia positivista e la sociologia considerano Vico un filosofo importante.
E per continuare oltre sul come Vico pensa la storia:
[4I2] La favella, com'abbiamo in forza di questa logica poetica meditato, scorse per così lungo tratto dentro il tempo istorico, come i grandi rapidi fiumi si spargono molto dentro il mare e serbano dolci l'acque portatevi con la violenza del corso per quello che Giamblico ci disse sopra nelle Degnità: che gli egizi tutti i loro ritruovati utili alla vita umana riferirono a Mercurio Trimegisto; il cui detto confermammo con quell'altra degnità: ch'«i fanciulli con l'idee e nomi d'uomini, femmine, cose, c'hanno la prima volta vedute, apprendono ed appellano tutti gli uomini, femmine, cose appresso, c'hanno con le prime alcuna simiglianza o rapporto», e che questo era il naturale gran fonte de' caratteri poetici, co' quali naturalmente pensarono e parlarono i primi popoli. Alla qual natura di cose umane se avesse Giamblico riflettuto e vi avesse combinato tal costume ch'egli stesso riferisce degli antichi egizi, dicemmo nelle Degnità che certamente esso ne' misteri della sapienza volgare degli egizi non arebbe a forza intruso i sublimi misteri della sua sapienza platonica. [4I3] Ora, per tale natura de' fanciulli e per tal costume de' primi egizi, diciamo che la favella poetica, in forza d'essi caratteri poetici, ne può dare molte ed importanti discoverte d'intorno all'antichità. [4I4] Che Solone dovett'esser alcuno uomo sappiente di sapienza volgare, il quale fusse capoparte di plebe ne' primi tempi ch' Atene era repubblica aristocratica. Lo che la storia greca pur conservò ove narra che dapprima Atene fu occupata dagli ottimati – ch'è quello che noi in questi libri dimostreremo universalmente di tutte le repubbliche eroiche, nelle quali gli eroi, ovvero nobili, per una certa loro natura creduta di divina origine, per la quale dicevano essere loro propi gli dèi, e 'n conseguenza propi loro gli auspìci degli dèi, in forza de' quali chiudevano dentro i lor ordini tutti i diritti pubblici e privati dell'eroiche città, ed a' plebei, che credevano essere d'origine bestiale, e 'n conseguenza esser uomini senza dèi e perciò senza auspìci, concedevano i soli usi della natural libertà (ch'è un gran principio di cose che si ragioneranno per quasi tutta quest'opera) – e che tal Solone avesse ammonito i plebei ch'essi riflettessero a se medesimi e riconoscessero essere d'ugual natura umana co' nobili, e 'n conseguenza che dovevan esser con quelli uguagliati in civil diritto. Se non, pure, tal Solone furon essi plebei ateniesi, per questo aspetto considerati. [415] Perché anco i romani antichi arebbono dovuto aver un tal Solone fra loro; tra' quali i plebei, nelle contese eroiche co' nobili, come apertamente lo ci narra la storia romana antica, dicevano: i padri, de' quali Romolo aveva composto il senato (da' quali essi patrizi erano provenuti), « non esse caelo demissos» cioè che non avevano cotale divina origine ch'essi vantavano e che Giove era a tutti eguale. Ch'è la storia civile di quel motto
... Iupiter omnibus aequus,
dove poi intrusero i dotti quel placito: che le menti son tutte eguali e che prendono diversità dalla diversa organizzazione de' corpi e dalla diversa educazione civile. Con la quale riflessione i plebei romani incominciaron ad adeguare co' patrizi la civil libertà, fino che affatto cangiarono la romana repubblica da aristocratica in popolare, come l'abbiamo divisato per ipotesi nelle Annotazioni alla Tavola cronologica, ove ragionammo in idea della legge Publilia, e '1 faremo vedere di fatto, nonché della romana, essere ciò avvenuto di tutte l'altre antiche repubbliche, e con ragioni ed autorità dimostreremo' che universalmente, da tal riflessione di Salone principiando, le plebi de' popoli vi cangiarono le repubbliche da aristocratiche in popolari. [416] Quindi Salone fu fatto autore di quel celebre motto «Nasce te ipsum », il quale, per la grande civile utilità ch'aveva arrecato al popolo ateniese, fu iscritto per tutti i luoghi pubblici di quella città; e poi gli addottrinati il vollero detto per un grande avviso, quanto infatti lo è, d'intorno alle metafisiche ed alle morali cose, e funne tenuto Solone per sappiente di sapienza riposta e fatto principe de' sette saggi di Grecia. In cotal guisa, perché da tal riflessione incominciarono in Atene tutti gli ordini e tutte le leggi che formano una repubblica democratica, perciò, per questa maniera di pensare per caratteri poetici de' primi popoli, tali ordini e tali leggi, come dagli egizi tutti i ritruovati utili alla vita umana civile a Mercurio Trimegisto, furon tutti dagli ateniesi richiamati a Solone. [417] Così dovetter a Romolo esser attribuite tutte le leggi d'intorno agli ordini. [418] A Numa, tante d'intorno alle cose sagre ed alle divine cerimonie, nelle quali poi comparve ne' tempi suoi più pomposi la romana religione. [419] A Tullo Ostilio, tutte le leggi ed ordini della militar disciplina.
Giambattista Vico, Principi di scienza nuova, Einaudi, Einaudi, 1976, p. 159 – 161
Vico è convinto che il libro "La religione degli egizi" di Giamblico parlasse effettivamente della religione degli egizi e non che parlasse di ciò che credeva fosse la religione degli egizi ai suoi tempi. Nasceranno sette segrete che porranno alla loro base i gerogrifici egiziani pensandoli dei segni di magia. Il libro segreto di Toth sarà individuato nel gioco delle carte che si giocava nelle taverne inventando i tarocchi. Si tratta della superstizione che viene affermandosi in Europa dal 1500 fino ai giorni nostri passando attraverso lo spiritismo e l'esotrismo.
La superstizione cristiana che trova in Vico il suo filosofo e il suo precursore.
Continuando sull'idea di storia di Vico:
[508] […] Quindi, per significare che i connubi o sia la ragione di contrarre nozze solenni, delle quali la maggior solennità erano gli auspìci di Giove, ella era propia degli eroi, fecero Amor nobile alato e con benda agli occhi, per significarne la pudicizia (il quale si disse "[Eros], col nome simile di essi eroi"), ed alato Imeneo, figliuolo di Urania, detta, da […], « caelum », « contemplatrice del cielo », affine di prender da quello gli auspìci; che dovette nascere la prima dell'altre muse, diffinita da Omero, come sopra osservammo, « scienza del bene e del male », ed anch' essa, come l'altre, descritta alata perché propia degli eroi, come si è sopra spiegato. D'intorno alla quale pur sopra spiegammo il senso istorico di quel motto:
A love principium musae:
ond'ella come tutte l'altre furon credute figliuole di Giove (perché dalla religione nacquero l'arti dell'umanità, delle quali è nume Apollo, che principalmente fu creduto dio della divinità), e cantano con quel « canere» o « cantare» che significa « predire» a' latini. [509] La seconda solennità è che le donne si velino, in segno di quella vergogna che fece i primi matrimoni nel mondo. Il qual costume è stato conservato da tutte le nazioni; e i latini ne diedero il nome alle medesime nozze, che sono dette «nuptiae» a « nubendo », che significa « cuoprire »; e da' tempi barbari ritornati « vergini in capillo» si dissero le donzelle, a differenza delle donne, ch'ivan velate. [510] La terza solennità fu (la qual si serbò da' romani) di prendersi le spose con una certa finta forza, dalla forza vera con la quale i giganti strascinarono le prime donne dentro le loro grotte. E dopo le prime terre occupate da' giganti con ingombrarle coi corpi, le mogli solenni si dissero «manucaptae ». [511] I poeti teologi fecero de' matrimoni solenni il secondo de' divini caratteri dopo quello di Giove: Giunone, seconda divinità delle genti dette «maggiori». La qual è di Giove sorella e moglie; perché i primi matrimoni giusti ovvero solenni (che dalla solennità degli auspìci di Giove furono detti «giusti»), da fratelli e sorelle dovetter incominciare; - regina degli uomini e degli dèi, perché i regni poi nacquero da essi matrimoni legittimi; - tutta vestita, come s'osserva nelle statue, nelle medaglie, per significazion della pudicizia. [512] Onde Venere eroica in quanto nume anch'essa de' matrimoni solenni, detta «pronuba», si cuopre le vergogne col cesto; il quale, dopo, i poeti effemminati ricamarono di tutti gl'incentivi della libidine. Ma poi, corrotta la severa istoria degli auspìci, come Giove con le donne, così Venere fu creduta giacer con gli uomini, e di Anchise aver fatto Enea, che fu generato con gli auspìci di questa Venere. Ed a questa Venere sono attribuiti i cigni, comuni a lei con Apollo, che cantano di quel «canere» o «cantare» che significa «divinari» o «predire» in forma d'uno de' quali Giove giace con Leda, per dire che Leda con tali auspìci di Giove concepisce dalle uova Castore, Polluce ed Elena. [513] Ella è Giunone detta «giogale» da quel giogo ond'il matrimonio solenne fu detto « coniugium», e «coniuges» il marito e la moglie; - detta anco Lucina, ché porta i parti alla luce; non già naturale, la qual è comune anco agli parti schiavi, ma civile, ond'i nobili son detti «illustri»; - è gelosa d'una gelosia politica, con la qual i romani fin al trecento e nove di Roma tennero i connubi chiusi alla plebe.' Ma da' greci fu detta […] dalla quale debbono essere stati detti essi eroi, perché nascevano da nozze solenni, delle quali era nume Giunone, e perciò generati con Amor nobile (ché tanto [Eros] significa), che fu lo stesso ch'Imeneo. E gli eroi si dovettero dire in sentimento di «signori delle famiglie », a differenza de' famoli, i quali, come vedremo appresso, vi erano come schiavi; siccome in tal sentimento « heri» si dissero da' latini, e indi «hereditas» detta l'eredità, la quale con voce natia latina era stata detta «familia ». Talché, da questa origine, «hereditas» dovette significare una «dispotica signoria », come da essa legge delle XII Tavole a' padri di famiglia fu conservata una sovrana potestà di disponerne in testamento, nel capo «Uti paterfamilias super pecuniae tutelaeve rei suae legassit, ita ius esto ». Il disponerne fu detto generalmente «legare», ch'è propio de' sovrani; onde l'erede vien ad essere un legato,' il quale nell'eredità rappresenta il padre di famiglia difonto, e i figliuoli, non meno che gli schiavi, furono compresi ne' motti «rei suae» e «pecuniae». Lo che tutto troppo gravemente n'appruova la monarchica potestà ch'avevano avuto i padri nello stato di natura sopra le loro famiglie, la qual poi essi si dovettero conservare (come vedremo appresso che si conservarono di fatto) in quello dell'eroiche città; le quali ne dovettero nascere aristocratiche, cioè repubbliche di signori, perché la ritennero anco dentro le repubbliche popolari. Le quali cose tutte appresso saranno pienamente da noi ragionate.
Giambattista Vico, Principi di scienza nuova, Einaudi, Einaudi, 1976, p. 212 – 214
In questo modo Giambattista Vico immagina la nascita della famiglia. Una situazione in cui i giganti con la clava in mano trascinano le donne per i capelli nelle loro grotte. E' un'immagine, sia pur da barzelletta, che ancor oggi viene rappresentata.
Possiamo dire che in questo testo che ho presentato ci sia tutta l'ideologia sull'origine della famiglia dal punto di vista di Giambattista Vico. Rimane la domanda: quale discorso logico o filosofico può essere sostenuto partendo da questa visione?
Certamente l'ideologia della famiglia cristiana trova conforto e legittimazione dalle parole di Vico. Ma che cosa hanno trovato i liberali, i sociologi, i socialisti positivisti da questa visione degli antichi proposta dal Vico?
E ancora la storia immaginata da Vico:
[1089] Oggi una compiuta umanità sembra essere sparsa per tutte le nazioni, poiché pochi grandi monarchi reggono questo mondo di popoli; e, se ve n'hanno ancor barbari, egli n'è cagione perché le loro monarchie hanno durato sopra la sapienza volgare di religioni fantastiche e fiere, col congiugnervisi in alcune la natura men giusta delle nazioni loro soggette. [1090] E, faccendoci capo dal freddo Settentrione, lo czar di Moscovia, quantunque cristiano, signoreggia ad uomini di menti pigre. Lo cnez o carn di Tartaria domina a gente molle, quanto lo furono gli antichi seri, che facevano il maggior corpo del di lui grand'imperio, ch'or egli ha unito a quel della China. Il negus d'Etiopia e i potenti re di Efeza e Marocco regnano sopra popoli troppo deboli e parchi. [1091] Ma in mezzo alla zona temperata, dove nascon uomini d'aggiustate nature, incominciando dal più lontano Oriente, l'imperador del Giappone vi celebra un'umanità somigliante alla romana ne' tempi delle guerre cartaginesi, di cui imita la ferocia nell'armi e, come osservano dotti viaggiatori, ha nella lingua un'aria simile alla latina; ma, per una religione fantasticata assai terribile e fiera di dei orribili, tutti carichi d'armi infeste, ritiene molto della natura eroica. Perché i padri missionari, che sonvi andati, riferiscono che la maggior difficultà, ch' essi hanno incontrato per convertire quelle genti alla cristiana religione, e ch'i nobili non si possono persuadere ch'i plebei abbiano la stessa natura umana ch'essi hanno. Quel de' chinesi, perché regna per una religion mansueta e coltiva lettere, egli e umanissimo. L'altro dell'Indie e umano anzi che no, e si esercita nell'arti per lo più della pace. Il persiano e 'l turco hanno mescolato alla mollezza dell'Asia, da essi signoreggiata, la rozza dottrina della loro religione; e così, particolarmente i turchi, temperano l'orgoglio con la magnificenza, col fasto, con la liberalità e con la gratitudine. [1092] Ma in Europa, dove dappertutto si celebra la religion cristiana (ch'insegna un'idea di Dio infinitamente pura e perfetta e comanda la carità inverso tutto il gener umano), vi sono delle grandi monarchie ne' lor costumi umanissime. Perché le poste nel freddo Settentrione (come da cencinquant'anni fa furono la Suezia e la Danimarca, così oggi tuttavia la Polonia e ancor l'Inghilterra); quantunque sieno di Stato monarchiche, però aristocraticamente sembrano governarsi; ma, se 'l natural corso delle cose umane civili non è loro da straordinarie cagioni impedito, perverranno a perfettissime monarchie. In questa parte del mondo sola, perché coltiva scienze, di più sono gran numero di repubbliche popolari che non si osservano affatto nell'altre tre. Anzi, per lo ricorso delle medesime pubbliche utilità e necessità, vi si è rinnovellata la forma delle repubbliche degli etoli ed achei; e, siccome quelle furon intese da' greci per la necessità d'assicurarsi della potenza grandissima de' romani, così han fatto i Cantoni svizzeri e le Provincie Unite ovvero gli Stati d'Olanda, che di più città libere popolari hanno ordinato due aristocrazie, nelle quali stanno unite in perpetua lega di pace e guerra. E 'l corpo dell'imperio germanico è egli un sistema di molte città libere e di sovrani prìncipi, il cui capo è l'imperadore, e nelle faccende che riguardano lo stato di esso imperio si governa aristocraticamente. [1093] E qui è da osservare che sovrane potenze, unendosi in leghe, o in perpetuo o a tempo, vengo n esse di sé a formare Stati aristocratici, ne' quali entrano gli anziosi sospetti propi dell'aristocrazie, come si è sopra dimostro. Laonde, essendo questa la forma ultima degli Stati civili (perché non si può intendere in civil natura uno Stato il quale a sì fatte aristocrazie fusse superiore), questa stessa forma debb'essere stata la prima, ch'a tante pruove abbiamo dimostrato in quest'opera che furono aristocrazie di padri, re sovrani delle loro famiglie, uniti in ordini regnanti nelle prime città. Perché questa è la natura de' princìpi: che da essi primi incomincino ed in essi ultimi le cose vadano a terminare. [1094] Ora ritornando al proposito, oggi in Europa non sono d'aristocrazie più che cinque, cioè Vinegia, Genova, Lucca in Italia, Ragugia in Dalntazia e Norimberga in Lamagna, e quasi tutte son di brevi confini. Ma dappertutto l'Europa cristiana sfolgora di tanta umanità, che vi si abbonda di tutti i beni che possano felicitare l'umana vita, non meno per gli agi del corpo che per gli piaceri così della mente come dell'animo. E tutto ciò inforza della cristiana religione, ch'insegna verità cotanto sublimi che vi si sono ricevute a servirla' le più dotte filosofie de' gentili, e coltiva tre lingue come sue: la più antica del mondo, l'ebrea; la più dilicata, la greca; la più grande, ch'è la latina. Talché, per fini anco umani, ella è la cristiana la migliore di tutte le religioni del mondo, perché unisce una sapienza comandata con la ragionata, in forza della più scelta dottrina de' filosofi e della più colta erudizion de' filologi. [1095] Finalmente, valicando l'oceano, nel nuovo mondo gli americani correrebbono ora tal corso di cose umane, se non fussero stati scoperti dagli europei. [1096] Ora, con tal ricorso di cose umane civili, che particolarmente in questo libro si è ragionato, si rifletta sui confronti che per tutta quest'opera in un gran numero di materie si sono fatti circa i tempi primi e gli ultimi delle nazioni antiche e moderne; e si avrà tutta spiegata la storia, non già particolare ed in tempo delle leggi e de' fatti de' romani o de' greci, ma (sull'identità in sostanza d'intendere e diversità de' modi lor di spiegarsi) si avrà la storia ideale delle leggi eterne, sopra le quali corron i fatti di tutte le nazioni, ne' loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini, se ben fusse (lo che è certamente falso) che dall'eternità di tempo in tempo nascessero mondi infiniti. Laonde non potemmo noi far a meno di non dar a quest'opera l'invidioso titolo di Scienza nuova, perch'era un troppo ingiustamente defraudarla di suo diritto e ragione, ch'aveva sopra un argomento universale quanto lo è d'intorno alla natura comune delle nazioni, per quella propietà c'ha ogni scienza perfetta nella sua idea, la quale ci è da Seneca spiegata con quella vasta espressione: « Pusilla res hic mundus est, nisi id, quod quaerit, omnis mundus habeat. »
Giambattista Vico, Principi di scienza nuova, Einaudi, Einaudi, 1976, p. 492 – 495
La superiorità del cristianesimo rispetto a popoli di cui Vico non conosce nulla. Un'esaltazione dell'aristocrazia come necessità del possesso degli uomini. In questo consiste la filosofia di Vico.
Alla seconda pubblicazione de "I principi di scienza nuova" completamente rivista, seguirà una terza edizione nel 1744, dopo la sua morte, ad opera del figlio, con poche modifiche.
Infine, i "Principi di scienza nuova" si concludono in questo modo:
[1097] Conchiudiamo adunque quest'opera con Platone, il quale fa una quarta spezie di repubblica, nella quale gli uomini onesti e dabbene fussero supremi signori: che sarebbe la vera aristocrazia naturale. Tal repubblica, la qual intese Platone, così condusse la provvedenza da' primi incominciamenti delle nazioni, ordinando che gli uomini di gigantesche stature, più forti, che dovevano divagare per l'alture de' monti, come fanno le fiere che sono di più forti nature, eglino, a' primi fulmini dopo l'universale diluvio, da se stessi atterrandosi per entro le grotte de' monti, s'assoggettissero ad una forza superiore, ch'immaginarono Giove, e, tutti stupore quanto erano tutti orgoglio e fierezza, essi s'umiliassero ad una divinità: ché, 'n tale ordine di cose umane, non si può intender altro consiglio essere stato adoperato dalla provvedenza divina per fermargli dal loro bestial errore entro la gran selva della terra, affine d'introdurvi l'ordine delle cose umane civili. [1098] Perché quivi si formò uno stato di repubbliche, per così dire, monastiche, ovvero di solitari sovrani, sotto il governo d'un Ottimo Massimo, ch'essi stessi si finsero e si credettero al balenar di que' fulmini, tra' quali rifulse loro questo vero lume di Dio: - ch'egli governi gli uomini; - onde poi tutte l'umane utilità loro somministrate e tutti gli aiuti porti nelle lor umane necessità immaginarono esser dèi, e, come tali, gli temettero e riverirono. Quindi, tra forti freni di spaventosa superstizione e pugnentissimi stimoli di libidine bestiale (i quali entrambi in tali uomini dovetter esser violentissimi), perché sentivano l'aspetto del cielo esser loro terribile e perciò impedir loro l'uso della venere, essi l'impeto del moto corporeo della libidine dovettero tener in conato; e sì, incominciando ad usare l'umana libertà (ch'è di tener in freno i moti della concupiscenza e dar loro altra direzione, che, non venendo dal corpo, da cui vien la concupiscenza, dev'essere della mente, e quindi propio dell'uomo), divertirono in ciò: ch' afferrate le donne a forza, naturalmente ritrose e schive, le strascinarono dentro le loro grotte e, per usarvi, le vi tennero ferme dentro in perpetua compagnia di lor vita; e sì, co' primi umani concubiti, cioè pudichi e religiosi, diedero principio a' matrimoni, per gli quali con certe mogli fecero certi figliuoli e ne divennero certi padri; e sì fondarono le famiglie' che governavano con famigliari imperi ciclopici sopra i loro figliuoli e le loro mogli, propi di sì fiere ed orgogliose nature, acciocché poi, nel surgere delle città, si truovassero disposti gli uomini a temer gl'imperi civili. Così la provvedenza ordinò certe repubbliche iconomiche di forma monarchica sotto padri (in quello stato prìncipi), ottimi per sesso, per età, per virtù; i quali, nello stato che dir debbesi (( di natura» (che fu lo stesso che lo stato delle famiglie), dovettero formar i primi ordini naturali, siccome quelli ch'erano pii, casti e forti, i quali, fermi nelle lor terre, per difenderne sé e le loro famiglie, non potendone più campare fuggendo (come avevano innanzi fatto nel loro divaga- mento ferino), dovettero uccider fiere, che l'infestavano, e, per sostentarvisi con le famiglie (non più divagando per truovar pasco), domar le terre e seminarvi il frumento; e tutto ciò per salvezza del nascente gener umano. [1099] A capo di lunga età - cacciati dalla forza de' propi mali, che loro cagionava l'infame comunione delle cose e delle donne, nella qual erano restati dispersi per le pianure e le valli in gran numero - uomini empi, che non temevano dèi; impudichi, ch'usavano la sfacciata venere bestiale; nefari, che spesso l'usavano con le madri, con le figliuole; deboli, erranti e soli, inseguiti alla vita da violenti robusti, per le risse nate da essa infame comunione, corsero a ripararsi negli asili de' padri; e questi, ricevendogli in protezione, vennero con le clientele ad ampliare i regni famigliari sopra essi famoli. E sì spiegarono repubbliche sopra ordini naturalmente migliori per virtù certamente eroiche; come di pietà, ch'adoravano la divinità, benché da essi per poco lume moltiplicata e divisa negli dèi, e dèi formati secondo le varie loro apprensioni (come da Diodoro sicolo, e più chiaramente da Eusebio ne' libri De praeparatione evangelica e da san Cirillo l'alessandrino ne' libri Contro Giuliano apostata, si deduce e conferma); e, per essa pietà, ornati di prudenza, onde si consigliavano con gli auspìci degli dèi ; di temperanza, ch'usavano ciascuno con una sola donna pudicamente, ch'avevano co' divini auspìci presa in perpetua compagnia di lor vita; di fortezza, d'uccider fiere, domar terreni; e di magnanimità, di soccorrere a' deboli e dar aiuto a' pericolanti: che furono per natura le repubbliche erculee, nelle quali pii, sappienti, casti, forti e magnanimi debellassero superbi e difendessero deboli, ch'è la forma eccellente de' civili governi. [1100] Ma finalmente i padri delle famiglie, per la religione e virtù de' loro maggiori lasciati grandi con le fatighe de' lor clienti abusando delle leggi della protezione, di quelli facevan aspro governo; ed essendo usciti dall' ordine naturale, ch' è quello della giustizia, quivi i clienti loro contro si ammutinarono. Ma, perché senz'ordine (ch'è tanto dir senza Dio) la società umana non può reggere nemmeno un momento, menò la provvedenza naturalmente i padri delle famiglie ad unirsi con le lor attenenze in ordini contro di quelli; e, per pacificarli, con la prima legge agraria che fu nel mondo, permisero loro il dominio bonitario de' campi, ritenendosi essi il dominio ottimo o sia sovrano famigliare: onde nacquero le prime città sopra ordini regnanti di nobili. E sul mancare dell'ordine naturale, che, conforme allo stato allor di natura, era stato per spezie, per sesso, per età, per virtù, fece la provvedenza nascere l'ordine civile col nascere di esse città, e, prima di tutti, quello ch'alla natura più s'appressava: - per nobiltà della spezie umana (ch'altra nobiltà, in tale stato di cose, non poteva estimarsi che dal generar umanamente con le mogli prese con gli auspìci divini); - e sì per un eroismo, i nobili regnassero sopra i plebei (che non contraevano matrimoni con sì fatta solennità); e, finiti i regni divini (co' quali le famiglie si erano governate per mezzo de' divini auspìci), dovendo regnar essi eroi in forza della forma de' governi eroici medesimi, la principal pianta di tali repubbliche fusse la religione custodita dentro di essi ordini eroici, e per essa religione fussero de' soli eroi tutti i diritti e tutte le ragioni civili. Ma, perché cotal nobiltà era divenuta dono della fortuna, tra essi nobili fece surgere l'ordine de' padri di famiglia medesimi, che per età erano naturalmente più degni; e tra quelli stessi fece nascere per re gli più animosi e robusti, che dovettero far [ da] capo agli altri e fermargli in ordini per resistere ed atterrire i clienti ammutinati contr' essoloro. [1101] Ma, col volger degli anni, vieppiù l'umane menti spiegandosi, le plebi de' popoli si ricredettero finalmente della vanità di tal eroismo, ed intesero esser essi d'ugual natura umana co' nobili; onde vollero anch' essi entrare negli ordini civili delle città. Ove dovendo a capo di tempo esser sovrani essi popoli, permise la provvedenza che le plebi, per lungo tempo innanzi, gareggiassero con la nobiltà di pietà e di religione nelle contese eroiche di doversi da' nobili comunicar a' plebei gli auspìci, per riportarne comunicate tutte le pubbliche e private ragioni civili che se ne stimavano dipendenze; e sì la cura medesima della pietà e lo stesso affetto della religione portasse i popoli ad esser sovrani nelle città: nello che il popolo romano avanzò tutti gli altri del mondo, e perciò funne il popolo signor del mondo. Z In cotal guisa, tra essi ordini civili trammeschiandosi vieppiù l'ordine naturale, nacquero le popolari repubbliche: nelle quali, poiché si aveva a ridurre tutto o a sorte o a bilancia, perché il caso o 'l fato non vi regnasse, la provvedenza ordinò che 'l censo vi fusse la regola degli onori; e così gl'industriosi non gl'infingardi, i parchi non gli prodigi, i providi non gli scioperati, i magnanimi non gli gretti di cuore, ed in una i ricchi con qualche virtù o con alcuna immagine di virtù non gli poveri con molti e sfacciati vizi, fussero estimati gli ottimi del governo. Da repubbliche così fatte - gl'intieri popoli, ch'in comune voglion giustizia, comandando leggi giuste, perché universalmente buone, ch'Aristotile divinamente diffinisce « volontà senza passioni », e sì volontà d'eroe che comanda alle passioni - uscì la filosofia, dalla forma di esse repubbliche destata a formar l'eroe e, per formarlo, interessata della verità; così ordinando la provvedenza: che, non avendosi appresso a fare più per sensi di religione (come si erano fatte innanzi) le azioni virtuose, facesse la filosofia intendere le virtù nella idea, in forza della quale riflessione, se gli uomini non avessero virtù, almeno si vergognassero de' vizi, ché soltanto i popoli addestrati al mal operare può contenere in ufizio. E dalle filosofie permise provenir l'eloquenza, che dalla stessa forma di esse repubbliche popolari, dove si comandano buone leggi, fusse appassionata del giusto; la quale da esse idee di virtù infiammasse i popoli a comandare le buone leggi. La qual eloquenza risolutamente diffiniamo aver fiorito in Roma a' tempi di Scipione Affricano, nella cui età la sapienza civile e 'l valor militare, ch'entrambi sulle rovine di Cartagine stabilirono a Roma felicemente l'imperio del mondo, dovevano portare di séguito necessario un'eloquenza robusta e sappientissima. [1102] Ma - corrompendosi ancora gli Stati popolari, e quindi ancor le filosofie (le quali cadendo nello scetticismo, si diedero gli stolti dotti a calonniare la verità), e nascendo quindi una falsa eloquenza, apparecchiata egualmente a sostener nelle cause entrambe le parti opposte - provenne che, mal usando l'eloquenza (come i tribuni della plebe nella romana) e non più contentandosi i cittadini delle ricchezze per farne ordine, ne vollero fare potenza; [e], come furiosi austri il mare, commovendo civili guerre nelle loro repubbliche, le mandarono ad un totale disordine, e sì, da una perfetta libertà, le fecero cadere sotto una perfetta tirannide (la qual è piggiore di tutte), ch'è l'anarchia, ovvero la sfrenata libertà de' popoli liberi.
Giambattista Vico, Principi di scienza nuova, Einaudi, Einaudi, 1976, p. 497 – 501
La perfetta tirannide per Vico è la sfrenata libertà dei popoli liberi. Qui si comprendere come Vico sia stato assunto a modello del liberalismo del XX secolo da Benedetto Croce.
Scrive ancora Vico nella conclusione dei "Principi di scienza nuova":
[…] [1108] Perché pur gli uomini hanno essi fatto questo mondo di nazioni (che fu il primo principio incontrastato di questa Scienza, dappoiché disperammo di ritruovarla da' filosofi e da' filologi); ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch' essi uomini si avevan proposti; quali fini ristretti, fatti mezzi per servire a fini più ampi, gli ha sempre adoperati per conservare l'umana generazione in questa terra. Imperciocché vogliono gli uomini usar la libidine bestiale e disperdere i loro parti, e ne fanno la castità de' matrimoni, onde surgono le famiglie; vogliono i padri esercitare smoderatamente gl'imperi paterni sopra i clienti, e gli assoggettiscono agl'imperi civili, onde surgono le città; vogliono gli ordini regnanti de' nobili abusare la libertà signorile sopra i plebei, e vanno in servitù delle leggi, che fanno la libertà popolare vogliono i popoli liberi sciogliersi dal freno delle lor leggi, e vanno nella soggezion de' monarchi vogliono i monarchi, in tutti i vizi della dissolutezza che gli assicuri, invilire i loro sudditi, e gli dispongono a sopportare la schiavitù di nazioni più forti vogliono le nazioni disperdere se medesime, e vanno a salvarne gli avanzi dentro le solitudini, don de, qual fenice, nuovamente risurgano. Questo, che fece tutto ciò, fu pur mente, perché 'l fecero gli uomini con intelligenza; non fu fato, perché 'l fecero con elezione; non caso, perché con perpetuità, sempre così faccendo, escono nelle medesime cose. [1109] Adunque, di fatto è confutato Epicuro, che dà il caso e i dilui seguaci Obbes e Macchiavello; di fatto è confutato Zenone, e con lui Spinosa, che dànno il fato: al contrario, di fatto è stabilito a favor de' filosofi politici, de' quali è principe il divino Platone, che stabilisce regolare le cose umane la provvedenza. Onde aveva la ragion Cicerone, che non poteva con Attico ragionar delle leggi, se non lasciava d'esser epicureo e non gli concedeva prima la provvedenza regolare l'umane cose: la quale Pufendorfio sconobbe con la sua ipotesi, Seldeno suppose e Grozio ne prescindé; ma i romani giureconsulti la stabilirono per' primo principio del diritto natural delle genti. Perché in quest'opera appieno si è dimostrato che sopra la provvedenza ebbero i primi governi del mondo per loro intiera forma la religione, sulla quale unicamente resse lo stato delle famiglie; indi, passando a' governi civili eroici ovvero aristocratici, ne dovette essa religione esserne la principal ferma pianta; quindi, innoltrandosi a' governi popolari, la medesima religione servì di mezzo a' popoli di pervenirvi; fermandosi finalmente ne' governi monarchici, essa religione dev'essere lo scudo de' prìncipi. Laonde, perdendosi la religione ne' popoli, nulla resta loro per vivere in società; né scudo per difendersi, né mezzo per consigliarsi, né pianta dov'essi reggano, né forma per la qual essi sien affatto nel mondo. [1110] Quindi veda Bayle se possan esser di fatto nazioni nel mondo senza veruna cognizione di Dio! E veda Polibio quanto sia vero il suo detto: che, se fussero al mondo filosofi, non bisognerebbero al mondo religioni! Ché le religioni sono quelle unicamente per le quali i popoli fanno opere virtuose per sensi, i quali efficacemente muovono gli uomini ad operarle, e le massime da' filosofi ragionate intorno a virtù servono solamente alla buona eloquenza per accender i sensi a far i doveri delle virtù. Con quella essenzial differenza tralla nostra cristiana, ch'è vera, e tutte l'altre degli altri, false: che, nella nostra, fa virtuosamente operare la divina grazia" per un bene infinito ed eterno, il quale non può cader sotto i sensi, e, 'n conseguenza, per lo quale la mente muove i sensi alle virtuose azioni; a rovescio delle false, ch'avendosi proposti beni terminati e caduchi così in questa vitacome nell'altra (dove aspettano una beatitudine di corporali piaceri), perciò i sensi devono strascinare la mente a far opere di virtù. [1111] Ma pur la provvedenza, per l'ordine delle cose civili che 'n questi libri si è ragionato, ci si fa apertamente sentire in quelli tre sensi: - uno di maraviglia, l'altro di venerazione c'hanno tutti i dotti finor avuto della sapienza innarrivabile degli antichi, e 'l terzo dell'ardente disiderio onde fervettero di ricercarla e di conseguirla; - perch'egli no son infatti tre lumi della sua divinità, che destò loro gli anzi detti tre bellissimi sensi diritti, i quali poi dalla loro boria di dotti, unita alla boria delle nazioni (che noi sopra per prime degnità proponemmo e per tutti questi libri si son riprese), loro si depravarono; i quali sono che tutti i dotti ammirano, venerano e disiderano unirsi alla sapienza infinita di Dio. [1112] Insomma, da tutto ciò che si è in quest'opera ragionato, è da finalmente conchiudersi che questa Scienza porta indivisibilmente seco lo studio della pietà, e che, se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio.
Giambattista Vico, Principi di scienza nuova, Einaudi, Einaudi, 1976, p. 502 – 505
Non c'è da stupirsi se qualcuno ha voluto usare quanto scritto da Vico per metterlo a fondamento della sociologia di Comte, del liberalismo di Croce, del cattolicesimo in polemica con i giansenisti; Vico contro gli atomisti e i razionalisti, Vico usato dagli illuministi contro i democratici, Vico usato come "scopo" della teoria del materialismo storico dialettico, quel divenire della storia elaborato da Marx quando ancora l'evoluzionismo darwiniano non era.
L'idea dell'uomo che agisce nella storia è un'idea dell'uomo che agisce nella storia, ma Vico non ci dice dell'uomo che agisce nella storia. Vico scrive come l'uomo ha agito nella storia e come la volontà di Dio abbia spinto l'uomo ad agire in quel modo e solo in quel modo.
Giambattista Vico muore il 20 gennaio 1744 dopo un lungo periodo di malattia nel quale perde la memoria e non è più in grado di camminare. Una malattia degenerativa del sistema nervoso lo aveva reso praticamente paralizzato e mentalmente debilitato.
Marghera, 14 aprile 2019
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Claudio Simeoni
Meccanico
Apprendista Stregone
Guardiano dell'Anticristo
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