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L’ambiente pagano
slavo-russo ©
2010 di Aldo C. Marturano |
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Argomenti di Religione Pagana.
Le
migrazioni costituirono un evento abbastanza frequente ancora nei secoli
VII-VIII d.C., ma, mentre l’Occidente fu impressionato da quelle germaniche in
tal misura da etichettarle come Invasioni Barbariche in tono molto più
spaventato che dispregiativo, quelle slave più tarde furono subite e sopportate
nei loro progressivi impatti soltanto dall’Impero d’Oriente e del tutto
sottovalutate nel resto d’Europa. Le voci dell’Impero Romano d’Oriente (Procopio,
Jordanes e altri) informano che gli Slavi al momento
della loro apparizione (nel V-VI sec. d.C.) sono popoli in prevalenza
agricoltori-raccoglitori trascinati da condottieri-avventurieri (di solito non
slavi: goti, unni, avari etc.) in razzie e campagne militari dirette verso i
territori balcanici, essendo queste terre le più ricche dell’Impero. Tipico
comportamento delle bande slave sembra il saccheggio improvviso e le loro
rapide ritirate nella selva oltre il Danubio. Da
altre fonti, stavolta “latine”, è noto pure che non era l’avventura o la
prospettiva di far bottino a provocare gli spostamenti slavi, ma motivi più
contingenti. S. Runciman, parlando dei Bulgari, giudica la loro penetrazione nei
Balcani nel IX sec. pacifica in generale rispetto a quelle degli Unni o degli
Avari e sottolinea che il motivo di mandare avanti gli assoggettati Slavi per
premere sui confini dell’Impero non era tanto l’impresa occasionale quanto
invece il fatto che la terra non riusciva a sfamare questa gente in continua crescita.
Il “nomadismo slavo” cosiddetto lo conosciamo però anche per i secoli
successivi e, allora, può questo esempio da solo servire a spiegarlo? In realtà
le “trasferte frequenti” (ogni 8-10 anni!) erano momentanee e necessarie
allorché i raccolti da un pezzo di terra coltivato non erano più sufficienti
alla sopravvivenza e villaggi interi si ponevano alla ricerca di nuova terra
vergine. Attenzione però! Villaggio qui significa una sessantina di
persone in cammino, al massimo. E’ contraddittorio tuttavia che aumentino le
persone in vita mentre la terra fornisce meno risorse. Evidentemente,
nonostante il suolo della Mitteleuropa da dove irraggiarono gli Slavi fosse in
gran parte loess fertile e facilmente arabile, la caduta delle rese
accadeva per l’esaurimento superficiale del terreno o per essere stato lavorato
troppo a lungo oppure per le tecniche primitive come ad esempio concime animale
insufficiente e strumenti agricoli poco adatti. In condizioni di insufficiente
tecniche agricole è anche logico che ogni cambiamento climatico si facesse
sentire precocemente e pesantemente tanto da spingere a cambiar di sede e a
cercare nuova terra. Eppure d’abitudine le carenze di cibo si sopperivano con
la raccolta di bacche e di frutti, con la piccola caccia e l’abbondante pesca
nelle regioni fitte di alberi. Nelle cronache d’origine “latina” Germani, Slavi
e Balti (i tre grandi etnos
della Mitteleuropa) sono chiamati (persino con un certo disgusto) silvatici (dal latino silva,
foresta) giusto perché abitano all’interno o strettamente prossimi ai margini
delle foreste e non praticano l’agricoltura intensiva (come si faceva in
Occidente) e perciò vivono come bestie.
Se
questa è l’attualità, come mai troviamo genti slave stanziati a grandi distanze
dal punto d’irraggiamento, a parte la predilezione per vivere “con” la foresta?
E’ possibile che il cosiddetto periodo caldo del Medioevo abbia favorito una
maggiore resa dei terreni già deforestati e migliorato perciò le condizioni di
vita di coloro che vivevano sui (e dai) vasti latifondi meridionali. Chi
invece, per aver nuovo terreno coltivabile, doveva abbandonare i vecchi abitati
e fondarne dei nuovi nella foresta vergine, sapeva bene di dover abbattere
migliaia di piante soltanto per costruire nuove abitazioni e per riscaldarle.
E’ logico dunque che guardasse oltre la sua foresta alla ricerca degli angoli
più facili da raggiungere, senza essere coinvolto obbligatoriamente in una
massiccia migrazione. D’altronde sapeva bene che i campi abbandonati
ritornavano ad essere nuova foresta in una decina d’anni ed era di nuovo
possibile ritornare a coltivarli con successo. Insomma è probabile che si
trovasse più attrattivo impadronirsi dei campi altrui al posto di distruggere
la propria preziosa foresta e quindi le scelte c’erano ed erano anche molte. Il
problema erano le difficoltà da affrontare nel muoversi: Andando verso nordest
le Paludi immense del Pripjat e la fitta foresta
bielorussa costituivano un ostacolo non indifferente da superare e qui gli
Slavi avrebbero premuto su Balti e Ugro-finni. Andando verso nord, ci si arrestava sul Mar
Baltico e verso ovest c’erano i Franchi che fomentavano i Germani contro gli
Slavi. La scelta del sud era quasi senza scampo, se si voleva migrare in modo
permanente.
Da
quanto fin qui detto cominciamo a percepire due modi diversi di pensare che si
confrontano: Uno consolidato nell’idea di civiltà sedentaria e cittadina e un
altro sull’idea di essere sempre “sulla frontiera”. Oggi sappiamo che fu il
modo di vedere occidentale a prevalere, ma il concetto di essere
indissolubilmente legati alla natura e ai suoi capricci non è mai decaduto
presso gli Slavi. Dobbiamo sottolineare questo punto perché è l’aspetto
“pagano” che ci spiega come un luogo fatto di alberi, animali e uomini che
vivono insieme è un ambiente sacro nel vero senso della parola.
A
ben riflettere è lo stesso pensiero che circolava per secoli
in ambiente celtico e che la Chiesa ben conosceva. Eppure sin dal IV sec. d.C.
proprio i monaci irlandesi intrapresero lungo il bacino del Reno la politica di
una estesa deforestazione. Lo scopo era eliminare i templi druidici o di altri
paganesimi, e far trionfare Cristo col lavoro dei campi, ma in verità guardando
all’Ordine dei Cistercensi specialmente e alla sua intensa attività nella Mitteleuropa
è chiaro che estendere l’area dei terreni coltivabili significava legare
stabilmente i contadini alla terra affinché fornissero derrate e quant’altro
necessario alla sussistenza delle classi superiori. Istituzionalmente la gente
medievale era divisa in Occidente in tre classi sulla cui cima c’erano gli Oratores cioè la Chiesa delle abbazie e degli ordini
monastici ai quali seguivano i Bellatores cioè
i signori feudali in armi. Queste due classi per ordine divino dovevano essere
mantenute dalla terza ossia dai Laboratores o
contadini. Era possibile trasferire le stesse concezioni fra i Pagani, insieme
con i coinvolgimenti occorrenti ad un riordino della società nel senso
sopradetto? Ne riparleremo più avanti mentre qui aggiungiamo che la scelta di
avere più braccia nei campi col passar del tempo aveva provocato, oltre
all’aumento di popolazione, delle pesanti storture in campo sociale che ora
affliggevano la società cristiana occidentale. In altri termini il contadino si
trovava a lavorare sul terreno disboscato di cui il signore si dichiarava
proprietario e, non avendo più a disposizione la foresta da dove trarre tutto
quel che gli serviva in prodotti e materie prime, aveva perduto ogni
indipendenza economica e produttiva. Ora era costretto a spendere più tempo in
maggior lavoro per produrre il surplus da cedere al signore che pretendeva una
ricompensa per aver messo il campo da coltivare a disposizione. Non solo! Il
contadino doveva dipendere per quasi tutti i beni strumentali dallo stesso
signore che gli forniva le materie prime per fabbricarseli! La foresta quale
giacimento naturale era perciò primaria e si cominciava a guardare con maggior
insistenza all’Europa ancora coperta di alberi per impadronirsene.
I
primi tentativi in questa direzione si fecero sentire già a partire dal IX sec.
d.C. in area polacca, poi lungo le rive del Mar Baltico e infine ai confini con
Novgorod e Polozk. E fu proprio la necessità di
conseguire maggiori territori da sfruttare che suggerì alle bande variaghe del Baltico l’idea di far nascere uno stato nel
nord della Pianura Russa dove organizzazioni statali non c’erano mai state
prima, ma c’era tanta foresta. Anche nei Carpazi ai confini occidentali della
città di Kiev erano attestate tribù slave che vantavano intime relazioni con il
l’Europa dell’Ovest già da tempo. Sembra che, addirittura, fra queste nel 568
fu visto per la prima volta l’aratro pesante capace di rivoltare le zolle e
aerarle in profondità. Fu solo un’apparizione sporadica, perché la rivoluzione
agricola che il nuovo strumento avviò in Occidente, nel cuore della Pianura
Russa, al contrario, la nuova tecnica non trovò grande applicazione!
Evidentemente la volontà di deforestare per migliorare le rese in agricoltura
non era nei piani economici dell’élite al potere del nuovo stato russo che,
guarda caso, crebbe meglio proprio a Kiev…
Né
possiamo dimenticare gli aspetti ideologici della questione, anche in questo
caso opposti.
Nella
cosmologia cristiana si proclamava che Dio avesse creato il mondo mettendo a
disposizione dell’ essere vivente superiore ossia dell’uomo ogni risorsa
esistente sulla terra perché se ne traesse tutto il benessere possibile e a
piena giustificazione della deforestazione messa in atto!
Per
gli Slavi al contrario che l’amministrazione o la proprietà di questi “beni
terreni” ricadesse su ministri divini era assolutamente inaccettabile. La selva
era parte del mondo e il mondo era dio per cui occorreva circospezione e umiltà
nel muoversi in questo ambiente! Guardando bene le piante, gli animali e gli
altri viventi, il pagano contemplava un unicum armonico di cui riusciva
persino (se voleva) a percepire respiri e sentimenti. L’uomo era solamente una
parte della società vivente e neppure quella superiore! Se era “costretto” a
prendere o ad utilizzare una qualsiasi cosa che gli servisse dalla natura
circostante, in ogni caso avrebbe chiesto il permesso e il favore delle forze
divine affinché queste non gli mostrassero alcuna ostilità all’attività di
sfruttamento delle risorse. Chi “prelevava” avrebbe ripagato il dio padrone con
un’offerta commisurata! Altro che impadronirsene tout-court! Nella
tradizione slava si diceva che i primi uomini (gli antenati che da morti,
abitavano nelle stelle e che ora erano a contatto diretto con gli dèi) avevano
imposto a tutti il rispetto della comunità vivente inclusi piante e animali,
prima d’ogni altra cosa! Qui vi avevano localizzato i luoghi di culto e un
comportamento aberrante avrebbe scatenato l’ira divina che si sarebbe riversata
non solo su chi violava volontariamente, ma sull’intera comunità alla quale il
violatore apparteneva. Insomma con tali regole vigenti da sempre (e non solo
fra gli Slavi, ma in tutta la società nordica) la deforestazione rappresentava
un atto altamente sacrilego, come si deduce persino dalle Vite dei santi
ove l’ostilità dei pagani su questo punto è chiarissima!
Fortunatamente l’azione distruttiva
occidentale non andò oltre i territori si fermò sulla riva destra dell’Elba e il
resto della foresta nordica si salvò. Nella storia successiva si dimostrò per
di più che, col traffico di quanto la sacra e preziosa risorsa rimasta intatta
forniva, chi la sfruttava nel modo dovuto poteva prosperare con
la benedizione degli dèi pagani e del dio cristiano.
La
foresta è una variegata biocenosi di piante, di animali e d’altre specie
viventi meno appariscenti che la natura ha inventato per colonizzare la
terraferma nel modo più totale e più economico possibile. Si adatta sempre alla
composizione (edafica) del suolo e alle locali oscillazioni climatiche,
né è aliena all’uomo giacché proprio qui
la specie Homo sapiens sapiens si è
differenziata (oggi ne siamo scientificamente convinti) e, a parte sporadiche e
avventurose sortite nei territori al margine, per millenni e millenni l’uomo
non si è mai allontanato troppo da essa. Qui si trovano le materie prime
indispensabili allo sviluppo delle società umane. Si ricava prima di tutto il
legno per costruire, riscaldare, armare, fare navi e carri, arredare e
fabbricare suppellettili e arnesi, fondere metalli e fabbricare mattoni etc. E non finisce qui! L’attento
raccoglitore trova piante commestibili e industriali: dai medicamenti alle
piante tintorie, dalle insalate, funghi, frutta, alla pastura per gli animali
domestici, gli allucinogeni e tant’altro ancora.
Il
mondo animale, a parte l’uomo, è rappresentato in tutta la sua utilità: dai
grossi mammiferi a quelli più piccoli, da pelliccia o da cacciare per il
consumo come cibo, dagli uccelli di passo o stanziali agli insetti commestibili
oltre ai tanti prodotti commerciali come miele e cera importanti nel passato
per illuminare, addolcire, conservare, medicare…
Oggi
a questa biocenosi abbiamo riconosciuto un ruolo ancora maggiore per la tutta
la vita terrestre quando abbiamo scoperto che è l’unica fabbrica d’ossigeno e
l’unico riutilizzatore di anidride carbonica con la
fotosintesi clorofilliana compiuta dalla superficie di milioni di metri
quadrati di foglie verdi assolutamente fondamentale per l’equilibrio
bioecologico del pianeta!
La
foresta europea della quale ci stiamo
occupando, fa parte della fascia di verde che ha colonizzato le regioni
settentrionali del mondo ca. 6000 anni fa: La Foresta Boreale. Occorre dire
che, per quanto sopra raccontato, già dall’anno 1000 d.C. questa fascia si era
ridotta moltissimo e, se non fosse stato per la decisione del re Ladislao Jagellone (di origine russo-lituana e nato egli stesso
nella foresta) che la dichiarò parco nazionale nel XV sec., con la rivoluzione
industriale del XIX sec. sarebbe sicuramente scomparsa.
Quel
che rimane oggidì (naturalmente con piante diverse col passar del tempo e del
clima) e che rappresenta il nostro cuore verde è riconoscibile nella Bielovezhskaja Pusc’ia che si estende verso est dal bacino della
Vistola fino a quello del Neman e a nord fino alle
rive del Mar Baltico. A sud arriva fino a Kiev lungo i declivi dei Monti Tatra includendo le Grandi Paludi del Pripjat (in russo chiamate La Selva o Poljesje) e continua giù fino alla riva sinistra del
Dnepr da dove inizia la steppa (in russo Campo Selvaggio o Dikoe Polje) poco
oltre Cernìgov.
La
parte più settentrionale è detta pure taigà la
quale, a parte le aree scandinave, copre oggi la repubblica di Camelia, i
Governatorati di Pskov, di San Pietroburgo e di Grande Novgorod fino al Circolo
Polare Artico da dove inizia la tundra, altro tipo di biocenosi stavolta
arbusticola, ugualmente importante però dal punto di
vista ecologico per gli animali allevati dai Lapponi.
E
qui ci ritorna in mente che Erodoto l’avesse visitata quando aveva scritto dei Neuri o Nevri probabili abitanti
dell’odierna regione lituano-polacco-bielorussa. E’
probabile che il nome del fiume Narva o dell’altro
fiume Nerevka (o altro toponimo simile) che scorrono
vicino gli avessero suggerito l’etnonimo. Lo storico
greco ricorda pure le Paludi del Pripjat che
per la loro estensione gli sembrarono un mare ovvero, a suo parere, quasi la
continuazione del Mare Oceano settentrionale!
La Pusc’ia è distribuita
su un bassopiano immenso: La Pianura Russa Europea. Questa regione è sollevata
qua e là all’interno in leggere alture (altezza media sotto i 400 m s.l.m.) che
in pratica costituiscono gli spartiacque dei più grandi fiumi europei che
sorgono gorgogliando dal suolo della selva per versarsi nei mari settentrionali
e in quelli meridionali dell’Europa dopo migliaia di chilometri di corso. Il
Volga e il Don e più a ovest il Dnepr nascono qui mentre dai Carpazi scivolano
il Dnestr, il Prut e il Bug Meridionale (il Bug
Occidentale ha le sorgenti vicine al suo omonimo, ma confluisce nella Vistola).
Queste acque, senza parlare dei loro affluenti, sboccano quali nel Mar Nero e
quali nel Mar Caspio o nel Mare d’Azov. Quelle invece che sfociano nel Baltico irrorando
la Pusc’ia
prima di finire in mare sono la Vistola, l’Elba (il fiume di Amburgo che sbocca
però nel Mare del Nord), l’Oder ad ovest, il Nieman (tedesco Memel), la Dvinà (il fiume di Riga), la Svisloc’
(il fiume di Minsk) e infinite altre correnti mentre la Dvinà
settentrionale (che sgorga sempre qui) va, addirittura, a finire nel Mar
Glaciale Artico. Le correnti più lunghe hanno di solito numerosissimi meandri a
causa della lieve pendenza della Pianura Russa e spesso indugiano in laghi e
laghetti di cui basterà nominare all’interno di questa selva i più notevoli
come i Mazuri, il Lago di Pskov o l’Ilmen’. L’area è
ricchissima naturalmente di paludi (l’11% del territorio di oltre 100 mila kmq)
per cui l’umidità e le zanzare regnano sovrane d’estate e la rendono
difficilmente attraversabile sia dall’uomo che dalle bestie, non appena il
ghiaccio invernale si sia sciolto. Se ciò è un impedimento alla colonizzazione
umana, per gli animali si creano invece delle nicchie abitative e certe specie
della Pusc’ia
sono introvabili altrove.
In
questo mondo pulsante di vita gli Slavi cercarono e trovarono le radure e gli
angoli liberi per i loro nuovi villaggi in un territorio già abitato da altri
arrivati qui prima di loro: cioè dai Balti e dagli Ugro-finni. Spazio ce n’era per poter vivere insieme in
quel lontano VII-VIII sec. d.C. senza conflitti grossolani e le prove
archeologiche ci confermano che le etnie convivessero quasi senza scontri
armati fino al X sec. mantenendo ciascuna la propria area culturale separata
dalle altre. Ciò non impedì comunque la mistione etnica, se si considera il
costume dell’esogamia cioè di dare in sposa le proprie figlie ai maschi
nati fuori dal villaggio, prevalente fra gli Slavi e di cui parleremo più
avanti.
Ma
come si fa ad entrare nella foresta e varcarne i confini? E’ un’operazione alla
cui sacralità abbiamo già accennato quando abbiamo detto della comunità che si
ritaglia uno spazio tutto per sé, e, se si aggiunge che quando si è migranti
non c’è molto tempo per decidere ove stabilirsi, è giocoforza violare un
confine! E dove comincia il margine della selva? Qui i limiti sono del tutto
arbitrari giacché la biocenosi forestale nel suo aspetto è complicatissima con
radure, laghetti e marcite e per mettere su un villaggio occorre trovare
soprattutto dove non ci siano grandi alberi annosi e, soltanto dopo aver
valutato dall’aspetto e dalla varietà delle piante presenti la convenienza a
stabilirvisi, si ricorre senza indugi ai necessari riti propiziatori alla dea Madre
Umida Terra (Mat’ Syra
Zemljà) padrona primaria degli spazi. La foresta
ha confini e divisioni sue interne che però restano impenetrabili e
irriconoscibili a chi non sia puro e santificato.
L’impresa
di trasformare la radura in un campo da coltivare e da abitare col metodo del taglia-e-brucia è un’operazione violenta contro la
natura e gli dèi del luogo potrebbero rifiutare l’assenso ad un intervento
invasivo e illegittimo costringendoci a cercare un’altro luogo! I riti perciò
sono molto laboriosi e il folclore c’informa che per l’autorizzazione divina a
colonizzare una certa parcella di bosco si doveva ricorrere persino al
sacrifico umano! Poi il villaggio nasceva e cresceva…
Quando
si abita qui può anche capitare di non essersi mai avventurati in certe
direzioni e di non conoscere molto bene l’ambiente circostante poiché, creatosi
il proprio spazio e stabilita come divisione dall’eventuale vicino una corrente
d’acqua, fuori da questo limite è culturalmente proibito muoversi e la riva è
un margine sacro e inviolabile. Qui l’uomo si trova a suo agio mentre il resto
dello spazio di solito alle spalle fittamente coperto dagli alberi sarà
visitato e esplorato, solo se se ne avrà il permesso. Perché esplorare nel
fitto? Le ragioni sono molte: ricerca di cibo, di materiali, prodotti da
scambiare…
Naturalmente
anche ogni pianta o animale ha il suo spazio riservato e sceglie i suoi vicini
con i quali si relaziona allo stesso modo degli uomini con i suoi simili e a
questo ordine di cose sono preposti degli esseri divini con cui l’uomo mantiene
buoni rapporti. Nel cuore della foresta (matoc’ka) infatti si credeva addirittura che abitasse il suo
signore e padrone, chiamato in russo Ljescii,
una specie di essere fosco dalle dimensioni elastiche che, se disturbato,
poteva causare uragani e altre mattane distruttive. Alla sua chiamata
congregavano tutti gli animali della selva e da lui venivano anche per morire e
dunque pure l’uomo lo riveriva.
Sembra
un complesso d’idee complicato da accettare oggi, ma in quei tempi era il modo
pagano di gestire l’ambiente al meglio dato che la foresta era sfruttata dai
traffici! Anzi, per quanto riguarda il commercio dei prodotti forestali lo
scambio con gli abitanti locali era esclusivamente posto su basi sacre e mai
sul profitto personale. Il consenso delle divinità era primario e risultò
inutile, a quei tempi, spingere i foresticoli a raccogliere più miele o a cacciare più
pellicce sventolando maggiori guadagni. Tutta la storia di Novgorod-la-grande,
città-regina della taigà, ruotò intorno a
questa maniera di fare gli affari con gli Ugro-finni
molto attenti a questi aspetti della questione…
Aggiunge
A. Burovskii che nella Federazione Russa di oggi,
dove i contadini rappresentano ancora l’80 % dei cittadini parlanti russo, la taigà resta pur sempre un ambiente magico, divino e
prezioso allo stesso tempo, e, temendo di profanarlo con comportamenti non
ammessi, se si vede uno straniero aggirarvisi, lo si avverte di stare attento
ai crocicchi dei sentieri, ai ponti, alle grotte, ai pozzi e ai confini dei villaggi
e dei campi! Sono tutti luoghi frequentati dalle forze divine protettrici e
avverse all’estraneo.
In
“gergo ecclesiastico” russo la foresta viene detta deserto (Pusc’ja) che è pure il significato di Wildnis
usato dai Cavalieri Teutonici (monaci cristiani armati), benché costoro vi
aggiungevano una colorazione negativa di luogo selvaggio abitato da uomini
ancor più selvaggi. E’ notevole pure che la parola slava sia restata
nell’ungherese puszta - leggi pusta
- che indica l’ultimo lembo di steppa d’Europa ai confini delle foreste
carpatiche (la Transilvania, in ungh. Erdély) nelle quali ultime evidentemente gli ugro-finni avevano continuato a vedere delle
caratteristiche magico-divine, come ai tempi in cui
abitavano nel nord del Volga! Per i cristiani insomma era un luogo proibito e
governato dal Demonio, accessibile soltanto a chi praticava la magia nera
quando venivano qui per farsi amici gli spiriti malvagi. Questi servi del
Demonio non potevano più essere considerati uomini fatti ad immagine e somiglianza
di Dio, ma bestie e era giusto cacciarli e ucciderli come qualsiasi preda. A
queste idee rispose la politica omicida dei Cavalieri Teutonici che
sterminarono un intero popolo: I Prussiani! Per l’Ortodossia ancora nel XIV
sec., ai tempi di san Sergio di Ràdonezh, andarsene
nel deserto (in ciò alludendo al Sinai dove vissero i primi monaci)
significava far l’eremita staccati dal resto del mondo, ma vicini alla divinità
poiché le tentazioni demoniache che qui si presentavano, se si riusciva a
vincerle con l’aiuto di Dio, rafforzavano l’anima. Questo è anche più o meno il
concetto che il mondo mitologico slavo-russo ha della foresta: un posto
riservato a chi ha rinunciato a stare con gli altri. Di qui un’abitudine abbastanza razionale, ma crudele in un certo
senso e che coinvolgeva entrambi i sessi, era perciò il ritiro spontaneo degli
anziani sconsolati e ormai inutili all’economia produttiva del mir nella foresta. Ci si saluta con tutti e si
va nel fitto e il mito (in parte cristianizzato) corrente dice che qui non si
muore e l’anima di chi non è morto “secondo le regole” passa negli alberi
direttamente e la sua presenza è facile udirla nelle voci dei rami che
scricchiolano al vento! Ecco perché una timorosa
riverenza è dovuta a tutti gli abitanti della selva e, se si incontra un essere
vivente, visibile o invisibile, presso i crocicchi dei sentieri, occorre
tentare di riconoscerli perché se sono venuti sul nostro cammino, hanno da
trasmetterci una notizia importante. Dunque ossequio a ogni essere, se lo
vediamo venir fuori dalla selva, perché … potrebbe essere un nostro parente (russo
nav’) trapassato!
E’
importante questo intero discorso? Certamente sì, giacché parte da esperienze
vere e plausibili! L’ambiente di fatto condiziona moltissimo le credenze e le
sensazioni e le visioni del mondo e a noi interessano qui se ci danno agio di
capire le diversità percettive del pagano medievale invece di attribuire a
costui una supposta sua arretratezza scientifica. Ad esempio: Se non ci sono
monti dai quali si possa contemplare la foresta “dal di sopra” e averne una
visione come l’avevano gli uccelli, non era forse logico pensare che gli
alberi, senza poterne mai vedere la cima, potessero effettivamente toccare il
cielo? Alla stessa stregua, un albero (o altra pianta) che rimaneva vivo per
generazioni, non poteva forse essere pensato come eterno come la quercia o il
faggio? E ancora la luminosità nella selva dove la luce del sole solitamente
regna moderata e con intensità quasi costante per tutto il giorno prima che
diventi buio subito dopo il tramonto o nella stagione fredda, non giustifica
forse quelle paure per i rumori insoliti che provengono dal fitto o per le
improvvise apparizioni di figure strane o luminescenti che ci rammentano mostri
indescrivibili pronti ad insidiarci? Nella selva manca persino la luce lunare
che riverbera spettacolarmente d’inverno sulle distese coperte di neve, ma al
margine del fitto degli alberi…
E
ancora. L’Europa vanta oggi grandi distese di campi coltivati e va orgogliosa
per la sua agricoltura intensiva sui terreni rubati alla foresta primordiale
prima e durante il Medioevo. Il sole vi regna sovrano e, non appena si
raccolgono le nubi su una campagna senza fine, in questo paesaggio il buio non
è mai completo. La mancanza di alberi infatti lascia un diffuso chiarore
percepibile lungo la linea dell’orizzonte, anche se la tempesta scoppia in
pieno giorno. Nel fitto degli alberi al
contrario è tutt’altra cosa. Una nube tempestosa fa cadere d’improvviso
l’oscurità sul chi si muove fra gli alberi! Lasciamo la parola ad un abitante
genuino della foresta bielorussa, il folclorista A.E.
Bogdanovic’ (del XIX sec.) quando parla del Ljescii: “E ciò è comprensibile (che) nella
natura del … paese, a parte le tempeste,
la foresta rappresentasse (qualcosa) di più grandioso e di più
misterioso. Più d’ogni altra cosa l’immaginazione era colpita (ad esempio) dal
malinconico rumore generato da un semplice venticello o dal crepitio degli alberi
che cadevano o da sospiri e lamenti penetranti. (Sono tutti) suoni strani
(talvolta somiglianti a) risate selvagge quando (fuori della
foresta) c’è la tempesta o l’uragano.”
E
quale altro fenomeno è più spaventoso dello scoccare di un fulmine che squarcia
il pezzetto di cielo nero visibile là in alto nel fitto delle chiome di foglie
per cadere su un albero vicino spaccandolo o incendiandolo? Per il lettore che
ama la letteratura russa abbiamo tradotto il brano seguente tratto da Anna Karenina di Tolstoi in cui è
descritta la scena terribile vissuta dal personaggio Levin
mentre un fulmine colpisce e abbatte una quercia non lontana da lui.
“All’improvviso
ci fu una vampata di luce. L’intera terra sembrò infiammarsi mentre la volta
del cielo rimbombava sulla testa di Levin. Riaprendo
gli occhi abbagliati, la prima cosa che vide attraverso la fitta cortina di
pioggia frapposta fra lui e la foresta fu l’inaspettata modifica al quadro di
un boschetto più fitto dove c’era stata una vecchia e familiare quercia nel
mezzo. E’ mai possibile che la quercia fosse stata colpita? Questo pensiero
ebbe appena il tempo di attraversare la mente di Levin
che la quercia fu vista da lui scomparire sempre più velocemente dietro gli
altri alberi mentre s’udiva il fragore della caduta del grande essere che si
abbatteva sugli alberi compagni.” E aggiungeremmo che, se Levin si fosse ricordato che nella sua cultura mitologica
il fulmine era l’arma divina di Perun, padrone della
quercia, avrebbe capito che il dio aveva il diritto di compiere una tale azione
poiché lo scopo di lanciar fulmini (dicevano i cristiani) era per uccidere i
diavoli che si riparavano dalla pioggia sotto le sue piante…
Il
fulmine (oggi lo si sa meglio) provoca nella foresta boreale degli incendi
periodici (ca. ogni 50-100 anni) che ne distruggono ampie porzioni, senza
irritare Perun o il Ljescii,
ma anzi rigenerandola. Le circostanze favorevoli agli incendi sono abbastanza
comprensibili quando si sappia che il terreno delle radure esposto al sole
estivo molto intenso del nord secca in certi luoghi (solitamente al confine con
la tundra) e, se non si umidifica con le piogge, diventa talmente sensibile
alla temperatura che la fiamma da un albero incendiato dal fulmine riesce
rapidissimamente ad attaccare l’erba secca vicina. L’uomo concorre al fuoco se
ricava i suoi campi col metodo del taglia-e-brucia
perché così facendo lascia che il vento soffi senza più ostacoli dato che le
piante d’alto fusto sono state tagliate via. Nella taigà,
da un lato, ciò è utile perché rinnova la fertilità del terreno, ma guai se
capitasse nelle vicinanze dell’abitato, come spesso toccò alle città di
Novgorod o di Pskov nel passato. In tali casi l’incendio è catastrofico e,
benché interpretato dalle autorità cristiane come l’intervento divino sulle
colpe paganeggianti dei rispettivi abitanti, rappresenta la vendetta del
Ljescii offeso.
Tutte
queste cose (ed altre che man mano diremo più avanti) fanno di questo luogo un
ambiente davvero magico, ma chiuso in confini sacralmente
precisi. Il pagano veniva qui a impetrare i suoi dèi e sapeva bene evitare i
guardiani della foresta dal cui cospetto occorre fuggire, pena la morte. Gli
dèi nella foresta sono riconoscibili a volte nelle fattezze intagliate nei
tronchi o dalle loro voci e nei fruscii. Si spostavano senza farsi notare
portandosi dietro l’albero dove abitano momentaneamente e la pianta vista
appena un’ora prima in un certo luogo riappare in un altro. Attenti perciò a
non danneggiare l’albero qualsiasi, ma soprattutto la già nominata Quercia,
pianta sacra agli dèi massimi e albero pilastro del mondo! Nei documenti c’è
scritto che chi avesse attentato, tentando di segare o di danneggiare alla vita
di quest’albero in particolare, veniva squartato a partire dall’ombelico e,
legato con le sue stesse viscere all’albero offeso, doveva attendere il
sopravvenire della giusta morte!
Gli
animali sono considerati a volte più potenti dell’uomo e sono implicati in
ruoli divini quando gli dèi ne assumere le sembianze e quindi è possibile che
assalendo una bestia incorriamo in un atto sacrilego! Gli animali però aiutano
l’uomo, non soltanto concedendogli il proprio corpo per mangiarne, ma perché,
ad esempio, prevedono il futuro. Moltissimi segni sulle stagioni per
l’agricoltore vengono proprio dall’osservazione del loro comportamento e fra
questi in special modo degli uccelli che sono i più
vicini… alle forze divine celesti!
Il
Cuculo annuncia quando giunge la buona stagione e quando essa finisce, non
cantando più. L’Usignolo vede il primo sole dell’equinozio e la Gru abbandona
gli stagni una ventina di giorni prima delle gelate invernali…
Il
più notevole però è l’Orso, essere sacro (spesso è il totem di molte comunità
umane settentrionali visto che la sua venerazione è diffusa dall’Atlantico al
Pacifico) e padrone assoluto di certi luoghi della selva dove ha la sua casa.
Vive più o meno come un uomo (o forse è un uomo travestito?) raccogliendo
bacche e insetti o piccoli roditori per nutrirsi mentre d’inverno si apparta
per dormire fino alla seguente primavera. Quando prepara la sua tana per quanto
possibile è consigliabile osservare dove lo fa per regolarsi su come sarà la
prossima gelata… dicono in Bielorussia! Purtroppo è raro vederne perché
è molto riservato, salvo che lo si sia chiamato pronunciando il suo nome ad
alta voce. E’ l’unico a sapere dove si trova il miele e basterà seguirlo, se si
è fortunati, sottovento e senza far rumore per trovare un tronco cavo pieno del
dolce nettare. Il procacciatore di miele porta naturalmente con sé arco e
frecce per difesa perché l’orso è curioso e irascibile e se si accorge della
presenza dell’uomo potrebbe assalirlo con funeste conseguenze.
C’è
il lupo, la lince e i piccoli carnivori da pelliccia che è vietato uccidere
soltanto per cibarsene e vanno catturati con lacci e trappole per non rovinarne
o sporcarne la pelliccia. Era un’arte ben conosciuta dai Finno-Ugri
in particolare che ne catturavano a migliaia con il permesso degli dèi e, una
volta uccisi e spellicciati, ne consumavano
esclusivamente in banchetti sacri offrendo il profumo dell’arrosto agli dèi che
non hanno stomaco e intestini e il fumo basta loro per apprezzare il dovuto
omaggio!
Animali
da evitare, sempre per motivi religiosi, sono pure i grandi mammiferi come
l’uro, il bisonte europeo, il cinghiale o la renna e l’alce che sono sacri a
certi dèi e possono essere catturati soltanto nel caso che servano per un
sacrificio al loro dio-padrone…
C’è
il cavallino lituano o tarpan europeo che a volte si lascia attirare in
casa per dare una mano nei lavori dei campi, ma è rissoso e cocciuto e, se da
un lato predice il futuro, dall’altro annuncia
la morte! Titmaro di Merseburgo
a questo proposito racconta della seguente cerimonia per averla vista eseguire
a Rethra: “…in segreto (i sacerdoti)
mormorano (per non farsi capire) mentre tremando scavano nella terra (del
Santuario) dove interreranno le sorti (tavolette di legno di quercia con
segni speciali o rune slave) che hanno lanciato e così tentano di ottenere
delle risposte certe sui problemi (loro proposti). Subito dopo ricoprono
con zolle di prato le sorti e due punte di lance incrociate. Dopodiché con gran
compunto scelgono il più grande dei cavalli fra tutti quelli considerati sacri
(al dio Triglav) e lo fanno andare sul prato. Dal luogo e nel modo in cui il
cavallo si arresta, traggono l’auspicio, ma per sicurezza l’evento si deve
ripetere uguale almeno due volte. Solo allora dichiarano che quanto si è deciso
di fare, avrà successo (oppure no).” Come “animale vicino
alla morte” ricordiamone il ruolo nella leggenda del principe russo Oleg che rinunciò a cavalcare dacché gli fu predetto che
sarebbe morto proprio a causa del suo cavallo, come poi infatti accadde! A
scopo apotropaico gli slavi in cima al tetto della loro casa intagliavano proprio una testa di cavallo! E
non solo! Per tener lontano un defunto, non morto secondo le regole, si faceva
pestare la terra intorno al luogo dove costui era deceduto da un cavallo…
E
che dire dei pesci? Questo è il cibo principe degli abitanti del nord e se ne
trova in abbondanza nei fiumi e nei laghi di specie e di mole molto grossa, se
si pensa allo storione che nel Dnepr e nel Volga raggiunge dimensioni davvero
gigantesche, o al salmone, altrettanto monumentale.
Il
pesce siluro in particolare giungeva a ben mezza tonnellata di peso e si sa
che, da buon carnivoro, mangiava persino… i bambini vivi! Nel 1613 nel suo
capace stomaco si trovò addirittura il corpo di un bimbo di ca. 7 anni che il
siluro aveva inghiottito nel Danubio, nei pressi di Bratislava, a prova che in quell’epoca
gli Slavi locali compivano ancora sacrifici umani! Si diceva pure che il Siluro
annunciasse i terremoti con qualche giorno d’anticipo e in tal caso si sarebbe
visto il laghetto continuamente incresparsi a causa dell’agitazione
dell’animale in attesa dell’evento.
A
parte ciò, d’inverno forando il ghiaccio di pesci se ne trovano tanti e quindi
è un cibo “da foresta” assicurato in ogni momento dell’anno! Durante la breve
estate certe specie addirittura si possono catturare con le mani, quando le femmine
gravide faticano a risalire il fiume Nevà per recarsi
nei grandi laghi. Quale slavo però si permetterebbe di catturarli, se non ne
avesse chiesto il permesso al “padrone divino” del fiume o del lago, il Vodjanoi o alla sua consorte la Vodjaniza?
E sapete quale animale si può meglio di altri sacrificare a questi dèi delle
acque per averne i favori? Un cavallo maschio nero che posto su un barcone nel
centro dello stagno con le zampe impastoiate lo si lascia affogare.
E
infine c’è un infinità di piante commestibili e di funghi. Fra questi ultimi
diffusissimo nelle Terre Russe è l’uso dell’Amanita muscaria
o fungo di Cappuccetto Rosso perché aiuta nei “viaggi psichici” i sacerdoti
pagani (volhvy) quando devono curare un malato.
Seccato e in dosi misurate serve però a moltissimi altri usi psicotropi.
Uno
degli alberi più frequenti nella taigà è la
betulla che col variare del colore delle sue foglie indica il tempo bello e
quello cattivo e da cui, attendendo il periodo giusto (Marzo, che era
chiamato in Bielorussia Sakavik ossia più o
meno Succoso) si può estrarne la linfa rinfrescante e… antidolorifica!
Le
piante del sottobosco sono persino degli orologi per chi le sa leggere. Ad
esempio la Cicoria apre le sue foglie verso le 5 del mattino e le
richiude verso le 3 del pomeriggio e lo stesso regime segue il Papavero…
E
che dire di un fungo particolare della foresta boreale che emette una speciale
bioluminescenza verdastra sui vecchi tronchi marcescenti (Onphalotus
olearius) di notte indicando la strada da seguire
per penetrare nel fitto degli alberi verso la matoc’ka? Chi la seguisse nella notte di Kupala
giungerebbe alla “felce in fiore”, l’arhilin,
e cogliendolo troverebbe la sua fortuna…
Più o meno
in questo mondo s’inserisce e si sviluppa meglio il Paganesimo slavo-russo.
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GENERALE DELLA RELIGIONE PAGANA
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