Se uno Stato decide che i manifestanti in difesa dell'ambiente solo i nemici, significa che quello Stato fa delle catastrofi naturali un modo per controllare e gestire i cittadini.
La catastrofe assume il valore di "legittimità giuridica" mentre, al contrario, la denuncia di possibili catastrofi si configura come un delitto da perseguire a norma di legge.
Novembre 2023: la Religione Pagana fra filosofia metafisica, psicologia, problemi sociali e cronaca quotidiana.
Cronache mese di novembre 2023
01 novembre 2023
La visione esistenzialista della morte, come esposta da Severino con le sue riflessioni su Heidegger, non è un percorso del divenire della trasformazione, cioè della costruzione dell'uomo, ma è, come nel cristianesimo, una sorta di ritorno dell'anima a Dio.
Il linguaggio di Severino non è il linguaggio teologico cattolico, ma il meccanismo per il quale un corpo perviene alla morte è lo stesso meccanismo teologico cristiano.
La realtà, in quanto realtà sia del corpo che del mondo, viene curata in quanto realtà creata di cui un corpo si fa, più o meno, responsabile nei confronti di essa. Non è una realtà in trasformazione, in modificazione, in divenire inteso come trasformazione del presente. Si tratta di un divenire basato sulla permanenza di un presente che si chiude su sé stesso. Come nell'esempio del frutto che diviene in sé stesso fino al marcire, alla morte. Non modifica la qualità della creazione "frutto", ma fa permanere il frutto nella sua realtà fisica fintanto che "non si illumina" attraverso la marcescenza che lo porta nelle dimensione ontologica.
Scrive Severino in Heidegger e la metafisica:
La cura è appunto questo divenire tipico del Dasein. E' necessario allora indagare se e come tale divenire si ponga in una "totalità" (Ganzheit). La morte costituisce appunto il suggello di essa. Pertanto l'indagine sulla morte è esclusivamente in funzione dell'approfondimento della finitezza trascendentale del Dasein [esserci, presenza, esistenza], che si pone come il divenire stesso della cura. Bastano questi cenni per escludere che la morte venga assunta in un'accezione esistentiva [concreto rapporto del singolo esserci al suo essere], e per indicare, all'opposto, che l'ontologicità del divenire esistenziale implica l'ontologicità del suo termine, cioè della morte. Essa è un "fenomeno esistenziale". Il non ancora del divenire esistenziale è determinato dal poter essere dell'esistenza. Ciò che può essere è ciò che non è ancora e quindi diviene. Il divenire mostra il suo senso essenziale nel suo concludersi e cioè nel suo porsi come totalità. L'indagine ontologica della morte prescinde quindi da ogni considerazione oggettiva sulla "morte degli altri": la morte non si presenta, non riguarda il piano ontico [qualificazione di ciò che si riferisce agli enti nella loro concretezza e singolarità (contrapposto a ontologico )]: si presenta il morente. Abbandonare quel tipo di considerazione significa considerare la morte come qualcosa che è assolutamente nostro. La morte è sempre mia; ognuno deve morire la sua morte; nessuno può sostituire la sua morte con quella di un altro. Si entra in tal modo nella zona ontologica del fenomeno. Il non ancora del divenire ontologico non è assimilabile al non ancora di un ente che con l'aggiunta dell'ultima parte diviene quello che deve divenire; oppure di un ente che è già tutto se stesso e che, per esempio, è solo parzialmente illuminato e quando sarà completamente illuminato il non ancora di luce della parte oscura sarà risolto. Il divenire ontologico è piuttosto simile (ma ancora radicalmente diverso) al maturarsi di un frutto, ove la maturazione costituisce la stessa non-maturità del frutto...
Emanuela Severino, Heidegger e la metafisica, Editore Adelphi, 1994, p. 221
Dice Severino:
"Pertanto l'indagine sulla morte è esclusivamente in funzione dell'approfondimento della finitezza trascendentale del Dasein [esserci, presenza, esistenza]"
Indiscutibile, la necessità dell'approfondimento dell'esserci come corpi viventi nel mondo. Arbitrario è cercare una finitezza [compiutezza, perfezione e ancora, limitatezza, incompiutezza] dell'esistenza umana che si rivela, davanti agli occhi dell'esistente, in continua modificazione e trasformazione. Non è un frutto, che dal punto di vista della rappresentazione esterna, nasce e muore attraverso un maturare e un marcire, è un soggetto che si trasforma, cresce dilatandosi in varie direzioni a seconda delle scelte soggettive che mette in atto nella propria esistenza.
Dal punto di vista razionale, la morte non esiste come una finitezza che trascenda il vivere del corpo. E' il vivere del corpo che semplicemente cessa. L'esistenza di un ambiente ontologico, oltre la morte del corpo fisico in cui una parte del corpo trascende, è una possibilità dell'immaginazione, non una realtà da prendere in considerazione; almeno per quanto riguarda la vita fisica e psichica del soggetto.
Dice ancora Severino:
"L'indagine ontologica della morte prescinde quindi da ogni considerazione oggettiva sulla "morte degli altri": la morte non si presenta, non riguarda il piano ontico [qualificazione di ciò che si riferisce agli enti nella loro concretezza e singolarità (contrapposto a ontologico )]: si presenta il morente. "
Non può esistere un'indagine ontologica della morte, semmai una visione desiderante della morte che viene chiamata ontologica perché pensata, immaginata e desiderata, dal soggetto che può morire.
Assistiamo alla morte degli altri; abitiamo la nostra morte.
Assistere alla morte degli altri ci impone un'interpretazione della morte a seconda dei sentimenti che vengono suscitati in noi dalle rappresentazioni con cui il soggetto che muore esprime, esteriormente, il proprio morire.
Noi abitiamo la nostra morte. Abitiamo quella trasformazione emotiva che alimenta quei sentimenti e quelle tensioni che vengono espresse attraverso rappresentazioni con cui la nostra fisicità trasmette quel momento nel mondo.
La morte non è un divenire. Al di là di come si vuole immaginarla, la morte è, semplicemente, la fine del corpo fisico e delle sue trasformazioni.
La morte è "soluzione della vita", il motivo per il quale la vita era. La morte è il trionfo della vita perché tutta la vita fisica tende alla morte del corpo fisico.
Tuttavia, la morte non è la finalità della vita.
Il fine della vita è la vita stessa. Il fine della vita sono le trasformazioni che il soggetto impone a sé stesso, mediante le sue scelte e le sue azioni, modificando il sé stesso nella propria vita.
La domanda che andrebbe posta è: perché il corpo fisico, con quanto lo caratterizza, e che molti vogliono distinguere dalla sua fisicità pur espressa dalla sua fisicità, coscienza, conoscenza, mente, psiche, emozione, sentimento, ecc., si è trasformato, scelta dopo scelta, adattandosi alla sua esistenza e trasformando l'ambiente del suo esistere mediante la trasformazione di sé stesso? Che ruolo ha il desiderio e la forza di trasformazione espressa dai soggetti della natura quando la morte risolve in sé stessa ogni percorso in atto?
Il problema è che la morte non è solo un atto con cui viene messo fine alla vita del corpo fisico. Dobbiamo chiederci se la qualità della vita, messa in atto da un soggetto nel proprio vivere, determina qualche cosa in cui la morte del corpo fisico ha un qualche ruolo.
Questo viene ignorato dagli esistenzialisti che preferiscono la visione ontologica della morte come ritorno a Dio (sia che venga espresso direttamente o che venga lasciato nel rumore di fondo delle loro riflessioni).
01 novembre 2023
Se uno Stato decide che i manifestanti in difesa dell'ambiente solo i nemici, significa che quello Stato fa delle catastrofi naturali un modo per controllare e gestire i cittadini.
La catastrofe assume il valore di "legittimità giuridica" mentre, al contrario, la denuncia di possibili catastrofi si configura come un delitto da perseguire a norma di legge.
In questo modo, dal punto di vista morale, lo Stato si rende responsabile di ogni catastrofe ambientale e delle sue conseguenze.
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Claudio Simeoni
Meccanico
Apprendista Stregone
Guardiano dell'Anticristo
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