La cattura del Toro di Creta e Beppi di (o da) Lusiana
Settima di dodici fatiche di Beppi

di Claudio Simeoni

Partita di calcio mondiale della filosofia

Le dodici fatiche di Beppi

La cattura del Toro di Creta

Quel giorno, a scuola, Beppi era piuttosto distratto.

La lezione verteva su un tempo antico, quando sui muri delle scuole non c'era un crocifisso e i maestri insegnavano ai ragazzi nelle strade e nelle piazze raccogliendo qualche soldo per poter vivere e continuare ad insegnare.

Quell'anno scolastico volgeva al termine e Beppi, prima di arrivare a scuola, era andato, con altri, a falciare il campo per raccogliere il fieno del primo taglio.

L'insegnante stava dicendo:

"Gli Antichi Romani credevano in Giove e lo pregavano per avere la pioggia. Giove era un lussurioso che, dopo aver ammazzato suo padre Crono, inseguiva tutte le donne e le Dee dell'Olimpo senza nessun pudore. Oltre a Giove gli Antichi Romani adoravano altri Dèi e Dee come Giunone, moglie ufficiale di Giove, Minerva, Dea della guerra e degli artigiani, Diana, Dea della caccia, Marte, Dio della guerra, Mercurio, Dio dei ladri e tanti altri."

Mentre l'insegnante parlava, gli occhi di Beppe si fecero pesanti. Le lettere del libro che aveva davanti iniziarono ad oscillare e la voce dell'insegnante si trasformava in parole che uscivano volando, come se avessero vita propria, dal libro.

L'insegnante continuò, nel tentativo di riattivare l'attenzione dei suoi studenti, raccontando la storia del Minotauro. Questo "mostro", figlio della moglie di Minosse, rinchiuso in un labirinto da Dedalo per conto di Minosse.

Il libro aveva afferrato Beppi e lo trasportò in un mondo di leggenda dove il sangue scorreva a fiumi. Uomini e donne che si ammazzavano. Proiettato in quel mondo, Beppi si guarda intorno un po' frastornato. Non sapeva che cosa fare mentre, girandosi di lato, evitò una lancia che lo stava colpendo. Chi aveva lanciato quel giavellotto? Mentre Beppi cercava sgomento non sapendo che fare, il tirso di una baccante fermò la spada di un indiano che stava calando sulla sua testa e, immediatamente, un serpente, staccatosi dalla cintura della baccante, morse al collo l'indiano che stramazzò al suolo.

"Sii veloce" sussurrò la Baccante "Afferra il toro per le corna e impedisci a quelle corna di ferirti".

Nel frattempo Deriade, infuriato e rancoroso, mette mano di nuovo
alla battaglia, come vede le Baccanti in salvo.
E scorgendo Dioniso ristabilito che combatte,
incalza alla lotta i suoi comandanti in fuga;
e urla ai fanti e ai cavalieri un'unica barbara minaccia dalla gola cupa:
"Oggi o io trascinerò Dioniso per i riccioli,
o l'esercito bacchico annienterà la stirpe degli Indiani.
Voi dovete costringere i Satiri a fuggire:
Deriade si armerà contro Dioniso.
Le foglie delle viti e gli altri bizzarri strumenti di Dioniso,
bruciateli, e incendiate le tende; portate le Menadi
come ancelle per il vanto di Deriade.
Consumate i tirsi assassini col fuoco, mietete
la messe delle teste dei Sileni cornuti
e della varia razza dei Satiri col ferro devastatore
e coronate tutti i palazzi con quei crani bovini.
Che il Sole non giri i suoi cavalli affocati a Occidente,
prima che io trascini i Satiri e Bacco legato
in ceppi indissolubili, con indosso il suo chitone
screziato, lacerato dalla mia lancia, squarciato sul petto,
dopo avergli fatto gettare il tirso; e quanto alle donne dai lunghi capelli,
incenerite con la mia fiaccola quelle chiome vitifere.
Siate arditi, e dopo la battaglia indiana
cantate la gloriosa vittoria di Deriade,
perché anche gli eserciti futuri tremino
a sfidare gli invitti Indiani figli della terra!".
Così disse.
Passando da uno all'altro dei suoi campioni
incita gli aurighi dei longevi elefanti,
rinsalda alla lotta i capi della fanteria,
che combatte serrata. Con simile ardore nella lotta
Dioniso folle col tirso scatena all'assalto una schiera
di fiere selvagge: e i guerrieri cresciuti fra i monti
baccheggiano ruggendo, colpiti dalla frusta divina.

Nonno di Panopoli, Dionisiache, volume III, Canto 36, versi 134-167, Editore BUR, 2004.

Nel fervore della battaglia Bacco si avvicina a Beppi mentre gruppi di fiere selvagge gli passano accanto.

"Le armi" dice Dioniso "considera le armi con le quali andrai a combattere la battaglia della tua vita. Scegli la giusta arma a seconda di come vuoi condurre la tua esistenza. L'arma non è un mezzo per raggiungere un fine; l'arma che scegli determinerà il fine che vuoi raggiungere."

Mentre così parlava Dioniso agitava il tirso per fermare le frecce indiane e allontanare le insidie.

"Il tirso" continuò Dioniso "è fatto del legno dell'albero che preferisci anche se i combattenti preferiscono legni duri forgiati attraverso la loro volontà. Il corniolo, il biancospino, la rosa e quant'altro. Nella punta del bastone c'è la pigna formata dalle tue passioni e dalle tue emozioni. Attorno alla pigna rami d'edera fatti dell'attaccamento della tua volontà al tuo intento; pampini di vite perché solo gli inebriati della vita mettono a rischio la loro esistenza per i loro ideali. Potresti scegliere le armi di ferro degli indiani, spade e lance, scudi e armature di bronzo, ma combatteresti solo battaglie che portano al massacro di altri uomini. Per combattere battaglie che trasformano gli uomini serve il tirso. Osserva sempre le armi dei tuoi nemici: le armi che hanno scelto rivelano i loro interessi e come vogliono perseguire i loro obbiettivi."

E mentre così parla Dioniso:

Un gran numero di belve infuriate armano le loro fauci:
i serpenti sputando dai denti carnivori
scagliano nell' aria gocce lungisaettanti di veleno
con la gola spalancata che sibila cupa,
strisciando obliqui; balzando sui nemici
le frecce anguifere trovano da sole il bersaglio.
I corpi degli Indiani sono fasciati e stretti dalle spire
attorte, la catena inchioda i piedi degli uomini
nello slancio della corsa. Le donne folli di guerra
imitano la lotta di Fidaleia, l'arciera di vipere
che una volta, spinta dal pungolo di una guerra lottata da donne,
vinse i nemici con serpentini corimbi.
Un serpente, lanciando dalla bocca la sua lancia dalla lunga ombra,
sputa una freccia velenosa contro Deriade,
e la corazza d'acciaio è bagnata dal fiotto assassino.

Nonno di Panopoli, Dionisiache, volume III, Canto 36, versi 167-182, Editore BUR, 2004.

Beppi continua a guardarsi attorno, protetto da menadi e baccanti mentre Dioniso col tirso continua a distruggere uomini ed elefanti chiamando le truppe dei satiri e infondendo loro coraggio.

Pantere, leoni e serpenti combattono a fianco di donne giovani e anziane che col tirso non hanno paura di affrontare le armi di ferro e di bronzo degli indiani.

Tutti costoro sono avvolti dal delirio. Il delirio li rende invincibili. Il delirio li fa navigare in un mondo emotivo dove baccanti, menadi, satiri, leoni, pantere, serpenti sono la stessa razza che parla un unico linguaggio privo di parole. Un solo suono esce dalle loro bocche: evoè! E il medesimo suono sembra uscire dalla bocca di ogni animale.

Mentre Dioniso era corso avanti delirando nel frastuono della battaglia, Fidaleia, rabbiosa per non essere riuscita a colpire mortalmente Deriade, si mette al fianco di Beppi dicendogli:

"Qualunque sarà in futuro la tua battaglia, che tu vinca o che tu perda, ricordati sempre di proteggere il Toro che vive in te affinché possa correre in ogni piana di Maratona nella quale modificherai la tua vita. Che tu vinca o che tu perda, proteggi il toro che c'è in te."

Fidaleia corse avanti per portare soccorso ad un vecchio satiro che da solo combatteva circondato da cinque indiani.

I morti giacciono a terra colpiti da un dardo vivente,
tenendo senza vita una freccia animata. Scagliandosi
sul collo ricurvo degli elefanti dai piedi diritti
le pantere si appendono in alto con un balzo.
Si attaccano salde alla testa delle fiere
e frenano la corsa di quegli animali dalle lunghe gambe.
Ne cade un grande sciame, solo al sentire
il terribile ruggito che i leoni selvaggi emettono dalle cupe gole.
Un elefante è vinto dalla paura dei muggiti del toro,
vedendo le torve punte delle sue coma
che saettano oblique nell'aria; un altro
vaga per la paura, temendo i morsi dell'orso;
uno dopo l'altro all'unisono con le grida delle altre fiere
i cani di Pan invitto abbaiano a gola aperta,
e gli Indiani dal volto bruciato temono un assalto di latrati.
Ambedue le schiere lottano unite.
La terra assetata si bagna nelle onde di sangue
dei caduti da una parte e dall'altra: muoiono a frotte
e il Lete è stipato da tanta massa di cadaveri;
smuovendo di sua mano il nero chiavistello Ade
apre gli immensi portoni del suo palazzo,
che trabocca di morti da ogni parte: mentre questi si
accalcano nell'abisso
le rive di Caronte mugghiano il loro tartareo boato.

Nonno di Panopoli, Dionisiache, volume III, Canto 36, versi 183-205, Editore BUR, 2004.

Il piccolo Beppi è scosso.

La violenza sembra annientare una parte del problema che si manifesta nel presente, ma la violenza non costruisce il futuro. Gli uomini vanno conquistati, non annientati. Se non conquisti gli uomini alla causa, il risultato è la strage, il perenne conflitto che porta all'annientamento.

Quando inizia il gioco dell'annientamento, l'annientatore si ammanta di delirio di onnipotenza pensando che l'annientato non potrà mai trasformarsi in annientatore dell'annientatore.

Quando inizia la logica dell'annientamento, quella logica non può più essere fermata e, allora, Ade, scuotendo la testa, dischiude le sue porte alla stupidità umana e il traghetto di Caronte si riempie degli onnipotenti e delle loro vittime.

Il campo di battaglia stava svanendo un po' alla volta e nella testa di Beppi c'era una sola frase che si ripeteva come un'ossessione: "Proteggi il toro; proteggi il toro!".

A mano a mano che torna nel mondo del suo quotidiano, Beppi riprende a sentire i suoni e, in particolare, la voce dell'insegnante che, finito di raccontare del Minotauro stava iniziando a raccontare di Europa:

Con uno slancio il toro si trova a solcare
Con le unghie naviganti la superficie silenziosa del mare, come su un sentiero,
tenendo un'andatura moderata; così la fanciulla, tremante di paura,
naviga in mare sulle spalle del bue
senza scosse e senza bagnarsi. A vederla, la diresti
Teti o Galatea o la sposa dello Scotiterra
O meglio Afrodite seduta sulle spalle di un Tritone.
E il Dio dai capelli azzurri guarda con stupore quella imbarcazione dal passo strisciante;
un po' più in là un Tritone ascoltando il muggito ingannatore di Zeus,
intona su una bucina un canto di imeneo
in risposta al Cronide; con meraviglia unita a timore
Nereo indica a Doride quello strano navigatore con le corna
e la donna rapita.

Nonno di Panopoli, Dionisiache, volume I, Canto 1, versi 53-65, Editore BUR, 2004.

L'insegnante, accortosi che Beppi era un po' lontano con la sua attenzione, lo chiamò dicendo:

"Beppi, hai capito chi era il toro?"

"Il toro! Il toro di maratona che va protetto". Sussurrò a mezza voce, appena udibile.

"No!" disse l'insegnante "Ti sei confuso. Il toro di Creta, che diventerà il toro di Maratona, è un'altra storia. Una storia che vi racconterò quando parlerò di Ercole. Questo toro è Zeus!"

E mentre l'insegnante sorrideva, Beppi, senza farsi sentire, borbottando fra sé e sé disse: "C'è uno Zeus dentro ogni uomo e donna che si trasforma in un toro ogni volta che deve correre sulle infinite piane di Maratona che gli uomini e le donne devono attraversare nel corso della loro esistenza."

Lusiana, 04 luglio 2023

 

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